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Finalmente alcune verità da qualcuno di noi ripetute fin
dall’inizio di questa maledetta guerra ma a lungo segregate dietro il
muro di propaganda bellica, iniziano faticosamente a filtrare persino
nei Palazzi della politica. E cioè che la pace (non più parola
proibita) è desiderabile hic et nunc e da perseguire come obiettivo
prioritario sul terreno della diplomazia. Che la guerra, tanto più se
si trasforma in “guerra d’attrito” come sta avvenendo, fa male a
entrambe i contendenti e andrebbe fermata quanto prima.
Che fa male anche, e in misura crescente, all’Europa, la quale non ha
gli stessi interessi degli Stati uniti, che quella guerra vorrebbero
prolungarla, ma al contrario ne paga pesantemente il prezzo, in termini
economici, politici e geopolitici, come ha fatto capire esplicitamente
Macron e più timidamente (molto più timidamente) Draghi.
E POI QUELLO CHE sanno tutti fin dall’inizio ma non si poteva neppure
accennare, e cioè che la tragedia ucraina potrebbe – anzi dovrebbe –
essere fermata attraverso un colloquio diretto tra Biden e Putin (la
fatidica telefonata evocata o invocata da Draghi) perché si tratta in
realtà, dietro la velleità neocoloniale della Russia, di un confronto
“di potenza”, o “tra potenze” che va oltre l’Ucraina. E che è tanto più
pericoloso in quanto si tratta di potenze deboli, in declino (una già
declinata, la Russia, l’altra declinante, gli Usa), atterrite dal
rischio dell’impotenza e per questo incapaci di cedere qualcosa (quel
di più di concessione all’altro per permettergli una via d’uscita nel
compromesso).
SONO VERITÀ sfigurate dall’ambiguità. Segnate dall’ambivalenza, come
accade in tempi di decadenza. A cominciare da quelle tre parole,
pronunciate dal segretario alla Difesa americano Lloyd Austin al
termine del colloquio di un’ora col suo parigrado russo Sergey Shoigu,
e oggi unico piolo a cui appendere le residue speranze di tregua nel
massacro: “Cessate il fuoco”. Che in italiano suona insieme come
sostantivo (uno stato di fatto auspicato) e come voce verbale, un imperativo
presente, indirizzato a chi? All’interlocutore diretto russo, Shoigu e
dietro a lui Putin, che suonerebbe come minaccia da Signore a
subalterno? All’alleato ucraino Zelensky, come intimazione a rispettare
un limite che la comunità internazionale non è disposta a lasciar
spostare all’infinito, fino al bordo dell’abisso? A entrambi, sapendo
tuttavia che nessuno dei due è nella condizione di cedere neppure un
millimetro all’altro, pena la proclamazione di una sconfitta senza
rimedio: non Putin, che dopo il prezzo imposto al proprio paese con la
guerra, ovvero lanciando il sasso e provocando il bagno di sangue che
abbiamo sotto gli occhi, non può ritirare la mano (magari restituendo
anche la Crimea).
MA NEMMENO Zelensky, che dopo le montagne di retorica nazionalista con
cui è stato alimentato dall’intero Occidente a reti unificate,
rischierebbe di essere travolto da quella stessa ondata se solo si
arrischiasse a negoziare una “vittoria mutilata”, probabilmente da
parte di quelle stesse milizie armate fino ai denti delle nostre armi.
Così quella voce che viene dal cuore dell’amministrazione americana
resta doppia, lingua biforcuta, contraddetta d’altra parte dai fatti,
che parlano di altri 40 miliardi di dollari in aiuti e soprattutto in
armi a chi dovrebbe cessare il fuoco, affermando una compattezza tra le
due sponde dell’Atlantico che non c’è.
COSÌ COME LINGUA biforcuta appare quella del Presidente del Consiglio
italiano, che da una parte afferma che “le persone pensano che cosa
possiamo fare per portare la pace“ (e a ognuno viene in mente,
finalmente, la diplomazia) ma poi, dall’altra, emana un ennesimo
decreto per spedire sul campo di battaglia nuove “armi pesanti” (sic!).
E ci chiede di credergli sulla parola quando dice che nel colloquio col
leader massimo del nostro Occidente ha perorato la causa urgente della
trattativa ed è stato ascoltato, ma lo dice da solo, nella conferenza
stampa all’ambasciata italiana (nemmeno un briefing congiunto gli è
stato concesso) mentre nel comunicato finale di tutto ciò non vi è
traccia, e si parla solo di come il “nostro” abbia contribuito a unire
Europa e Stati Uniti all’ombra della Nato in un tripudio di amorosi
sensi. Abbiamo così la misura di quanto utile alla causa della nostra
democrazia, anzi necessario, sarebbe stato un passaggio parlamentare
che affidasse al nostro capo del governo un messaggio chiaro, non
equivoco, autorevole per la fonte di provenienza, da consegnare
all’alleato reticente.
TUTTO QUESTO AVVIENE nel pieno di un travolgente processo di
decostruzione di tutti i dispositivi di intermediazione e di garanzia
contro i rischi di una perdita di controllo dei conflitti pazientemente
costruiti nei decenni della guerra fredda, per impedire che essa
diventasse “calda”. Canali sottili, telefoni rossi, “zone cuscinetto”,
accordi macro-regionali di dosaggio degli armamenti, fasce di
neutralità, a cominciare da quei paesi simbolo come la Svezia e la
Finlandia. Attenta elaborazione diplomatico-istituzionale di
un’architettura complessa a supporto della sopravvivenza del pianeta,
per neutralizzare la terrificante potenza distruttiva delle armi
(atomiche) e le ricorrenti folate di pazzia degli uomini.
TUTTO QUESTO IN pochi anni, poi in pochi mesi, infine in poche
settimane è stato lacerato, con una furia impressionante e un cupio
dissolvi incomprensibile, fino a oggi, a quest’ultimo passaggio con la
corsa degli ultimi due paesi neutrali sotto l’ombrello dell’Alleanza
atlantica. Autogol di Putin, certo, che ha lavorato alla propria
peggior condizione. Ma pessima notizia per chiunque trepidi per la
sorte del pianeta, con la possibile ri-nuclearizzazione di quel residuo
braccio di mar Baltico rimasto fino ad oggi “neutrale”. Svedesi e
finlandesi si sentiranno più sicuri. Ma il mondo lo sarà sempre di
meno.
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