Dal Tempio della Spiritualità della Natura di Calcata all’orticello urbano di Treia… – Un modo per conservare la capacità della sopravvivenza creativa… di PAOLO D'ARPINI
Purtroppo per la mia composizione genetica e ideologica (si fa per dire…) sono ubicato inamovibilmente nel settore analogico del pensiero. La mia vita è tutta un caos e completamente priva di costrutto materiale, tutto ciò che faccio è sempre nell’ambito dell’oggi, del carpe diem, perciò non ho nulla da difendere e quindi il “mio campo” è un campo in cui crolli e cambiamenti, scavi e riempimenti avvengono in continuazione come natura comanda, con poco o nulla di mio intervento intenzionale.
Questo è un bene ed un male allo stesso tempo, è un bene perché in tal modo non persiste grande attaccamento verso una specifica forma ed è un male perché nulla di costruito o costruibile è a me attribuibile….
Quando tanti anni fa a Calcata decisi di denominare un pezzo di terra (ex discarica comunale denominata “Orti di Cristo” di cui ero il custode) “Tempio della Spiritualità della Natura” lanciai un’idea buona anche per esaltare valori estetici e bioregionali. Per il mio “tempio della natura” (a volte detto anche “tempio sincretico di tutte le religioni”) il battage pubblicitario era stato fortissimo, articoli su articoli, trasmissioni tv su trasmissioni tv, anche Paolo Portoghesi aveva promesso di “regalare” uno stupa simbolico, insomma le premesse di una grande edificazione c’erano tutte… ma –ahimé- c’ero anch’io e come sapete io amo “inneggiare ed evocare” ma le mie iniziative vengono poi raccolte da altre mani e utilizzate per altri fini ed io resto senza costrutto!
Alla fine, quando partii da Calcata per ritirarmi a Treia, il tempio restò un terreno abbandonato a se stesso, “lasciato agli impulsi spontanei creativi della natura e delle sue creature”, ora, che io sappia, nessuna presenza umana gentile lo custodisce, osservando ciò che mamma creazione vi plasma giorno per giorno, anno per anno.
Dal 2010, con il mio trasferimento a Treia, nella casa avita di Caterina Regazzi, e relativo spostamento del Circolo vegetariano (https://
Anche le finalità di questo “tempietto” si sono ristrette, non più un “kurushetra”, com’era a Calcata, ovvero un “campo di battaglia” per il trionfo del bioregionalismo e della spiritualità laica, piuttosto un “buen retiro”, un luogo in cui mantenere un diretto contatto con la natura, con i pochi animali che vi vivono (piccioni, lucertole, gechi, formiche, insetti vari, lumache, qualche gatto libero, ecc.) e con le piante che vi crescono pressoché spontanee (topinambur, bardana, zucchette pelose, pomidorini selvatici, cicorie, biete, olive e qualche rada pianta da frutto, ecc.).
La mia presenza e quella di Caterina in questo “orticello bioregionale”, erede inconsapevole del più pretenzioso Tempio della Spiritualità della Natura, prevede solo un incontro ravvicinato con il luogo in modo da trarne un senso di appartenenza e di presenza.
Teoricamente questo è un discorso ancora molto sentito in alcune realtà rurali di Treia, dove alcuni ‘vecchi contadini’ insistono a conservare alcune verità basilari sulla terra e sull’arte di trarne frutto senza danneggiarla.
Parlando in termini di agricoltura ‘naturale’ vorrei fare l’esempio della cura rivolta alla prole, che si manifesta con l’incoraggiamento alla crescita e non con la coercizione, allo stesso modo ci poniamo verso le risorse che madre terra offre.
In termini di agricoltura bioregionale ciò significa prima di tutto rendersi consapevoli di quello che spontaneamente cresce nel posto in cui si vive. Questo iniziale processo di osservazione, o accomunamento alla terra, è necessario per scoprire quante erbe e frutti commestibili son già disponibili, cresciuti in armonia organolettica con il suolo e quindi esprimenti un vero cibo integrato.
Una accurata analisi consente l’immediato utilizzo di cibo spontaneo per arricchire la dieta corrente, oggi limitata a poche specie coltivate (sia pure in modo biologico). Il passo successivo e quello di sperimentare l’eventuale inserimento nel terreno di piante alimentari che siano in sintonia o meglio delle stesse famiglie di quelle spontanee. Questa graduale promozione ovviamente non può essere fatta con l’occhio distaccato di un botanico o di un tecnico agricolo ma va accompagnata da una reale presenza e compartecipazione al luogo, in modo da trarne occasione per un senso di appartenenza e condivisione (con la vita ivi presente) divenendo in tal modo noi stessi compartecipi della natura e suoi conservatori. E’ una convergenza, una osmosi, che si viene pian piano a creare fra noi e l’ambiente ed è anche la base della produzione di cibo vero (per uomini veri) che non va però relegata alla sola categoria dei contadini ma vista come la premura di ognuno. Insomma è un atteggiamento di consapevolezza alimentare.
Infatti il mio consiglio agli amici che talvolta vengono a trovarci è quello di intraprendere piccole coltivazioni casalinghe ovunque sia possibile, nel giardino dietro casa o sulla terrazza di un condominio, e di approfittare di ogni passeggiata nel verde per raccogliere delle erbe commestibili, in modo da spezzare la totale dipendenza dal cibo fornito dal mercato, rendendoci così responsabili -sia pure in minima parte- della nostra alimentazione. E’ un aspetto essenziale della cura bioregionale per la vita quotidiana e della presenza consapevole nel luogo.
Paolo D’Arpini
Fonte: https://IN EVIDENZA
L'eutanasia è un soggetto che interroga le coscienze. Nel racconto "La pianta secca", che dà il titolo alla raccolta, una madre deve affrontare la tragedia di un figlio che è diventato come una pianta secca.
Le altre storie sono altrettanto coinvolgenti: tracciano sentimenti profondamente umani di perdita, del padre, della madre e, persino, la drammatica esistenza di un barbone ributtante.
Alle volte, conoscere le emozioni attraverso vicende altrui ispirate alla realtà aiuta a dare consapevolezza anche alla nostra vita.
LA PIANTA SECCA: e altri racconti : Rusca Zargar, Renata: Amazon.it: Libri
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