PER UN ELOGIO DELLA LIMITATEZZA: INDICAZIONI DAL SAHEL di Padre Armanino
Per un elogio della limitatezza: indicazioni dal Sahel
Ho scoperto la limitatezza in questo mese di luglio anni fa,
nell’ospedale San Martino di Genova. Un mese esatto di degenza per un neoplasma
nel cervello felicemente asportato. Trenta giorni immobili e il mondo, cielo
compreso, in una stanza comune e qualche giorno nel reparto di rianimazione. A
trent’anni la carne e l’anima hanno compreso che la vita è limitata nel tempo,
nello spazio e nel movimento. L’onnipotenza degli anni operai, delle teologie
di carta e delle speranze a buon mercato se n’è andata per sempre. L’ultimo
giorno del mese, uscendo dal reparto di neurochirurgia ho visto le nubi e
sentito l’aria al sapore di mare per la prima volta. I primi incerti passi col
timore di aver dimenticato come si cammina e l’attenzione ai dettagli di un
mondo che appariva colorato come mai prima. Il primo giorno della creazione era
passato.
Nel Sahel sappiamo di non essere onnipotenti e neppure ci
proviamo. La vita dura poco e quando c’è è fragile, limitata e provvisoria come
tutto il resto. Si arriva per caso o comunque senza volerlo, si parte talvolta
all’improvviso e raramente preparati come si deve. Nessuno pretende di dettare
legge alla vita o semplicemente immaginare di pretendere ciò che non si possiede.
Si vive ogni giorno per miracolo o per abitudine e questo basta perché le ore
abbiano un senso e una direzione. Si nasce in qualche modo con una promessa da
compiere che sta scritta sulla sabbia e basta un poco di vento per imbrogliarne
il tracciato. Lo sanno tutti che i diritti sono un lusso che pochi possono
permettersi. La vita non si spiega ma si vive.
Non parliamo poi del lavoro che arriva, si perde, scompare
una mattina e poi si nasconde per qualche settimana per riapparire, come se
niente fosse, un paio d’anni dopo in un ufficio qualsiasi dell’amministrazione
penitenziaria. La limitatezza dei contratti inesistenti e il precariato che va
in giro con forbici, macchina da cucire, pantaloni da vendere, liquori da
spacciare, thermos e il thè per la colazione ambulante, sono il nostro lavoro.
Ci sono, è vero, industrie di estrazione e qualcuna di trasformazione, treni
che non passano e binari in attesa di treno e mercanzie, ma tutti sanno che, in
fondo, a dare il lavoro è solo Dio, inch’allah. Noterete negozi di ‘pret à
porter’, pannelli pubblicitari e bar d’occasione. Passate una settimana dopo e
di tutte queste illusorie entità lavorative non troverete traccia. Il comune le
ha demolite.
Se c’è un ambito nel quale la limitatezza si realizza con
squisita fattura è quello della politica. Anche i bambini che giocano nei
cortili o lungo le strade lo sanno bene. La politica e l’economia sono l’arte
del limite applicato ai cittadini. Solo coi mandati presidenziali, per un
attimo, questo principio sembra cedere alla realtà del prolungamento
indefinito. Ma arriva, inesorabile, l’età, gli acciacchi di stagione e i colpi
di stato militare per ricordare agli incauti attentatori del limite costituzionale
stabilito, che tutto ha una fine. Progetti, partiti politici, piani di
aggiustamento, strategie di sviluppo sostenibile, azioni di contrasto al
cambiamento climatico, ruolo imprenditoriale accresciuto per le donne, tutto
ciò e molto altro si sposa con la limitatezza delle previsioni più ottimiste. La
politica degna questo nome è quella che rispetta i poveri.
Eppure tutto ci parla di limitatezza a partire dal corpo,
dall’età che li scolpisce, dagli affetti e dalla vita che un giorno ci lascia per
emigrare altrove. Educare al limite, inteso come frontiera aperta
all’accettazione riconoscente della creaturalità che ci costituisce, dovrebbe
essere uno dei compiti della scuola. E’ però soprattutto nella famiglia che si
dovrebbe imparare a comporre l’elogio della finitezza perché lì la vita si
rivela nella sua quotidiana avventura. Qui nel Sahel sappiamo che tutto parla
di fragilità. Il presente, il futuro, il cibo, la semina, il raccolto, lo stato
di urgenza dovuto ai gruppi armati, l’incertezza di tornare a una casa che
forse è stata spazzata via dall’ultima inondazione e del matrimonio che dura
finché lo porta il vento. Qui amiamo la materialità, la prossimità, la
vicinanza degli antenati e crediamo nella follia dei corpi.
Il capitalismo è nato da recinzioni che hanno segregato
quanto era patrimonio comune solo per iniziare ad abbattere tutti i limiti che
incontrava sul suo cammino. La lotta al capitalismo, se vuole essere onesta con
sé, non può non passare attraverso il ricupero della limitatezza che ponga le
premesse per la sconfitta totale di questa dittatura. La stessa ecologia,
slegata dal limite creaturale, rischia di trasformarsi in un inedito e ambìto
nuovo settore del liberalismo. Ritorno alla natura e l’applicazione abusiva dell’ingegneria
genetica è uno dei paradossi drammatici del nostro tempo. La limitatezza nasce dall’ascolto della
pioggia che cade, del fiore che sboccia nel deserto, del vagito di un bimbo,
del silenzio paziente delle stelle, del volto scavato di un padre, di una madre
che carezza il futuro della figlia e di nostra sorella morte che ci prenderà
per mano.
Mauro Armanino, Niamey, 11 luglio 2021
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