LE DONNE A ISTANBUL da inGenere (https://www.ingenere.it/)

 Quello che le donne

dicono a Istanbul

 


Dal primo luglio la decisione del governo turco di recedere dalla Convenzione di Istanbul è diventata effettiva. Le femministe lanciano l'allarme internazionale: il rischio è una reazione a catena, soprattutto in quei paesi che da tempo hanno dichiarato guerra alle donne e alle persone Lgbt

03/08/2021

Zehra F. Kabasakal Arat

da 


Il 20 marzo 2021, è stata annunciata l’adozione, da parte del Presidente Recep Tayyip Erdogan, di un decreto presidenziale per il recesso della Turchia dalla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Con una dichiarazione successiva è stato chiarito che il recesso sarebbe entrato in vigore il primo luglio. Tale mossa ha suscitato molta sorpresa in quanto tale trattato, noto anche come Convenzione di Istanbul, ha sempre rappresentato un motivo d’orgoglio per il governo turco.

Nel maggio del 2011, fu proprio il governo turco, guidato da Erdogan, allora in veste di primo ministro, a ospitare il summit internazionale in occasione del quale la convenzione è stata aperta alla firma. Nel marzo del 2012, la Turchia è stato il primo paese a ratificare la convenzione. Poco tempo dopo la ratifica, intervenuta con il pieno supporto di tutti i partiti politici in Parlamento, è stata adottata la legge per la protezione della famiglia e per la prevenzione della violenza contro le donne – tale provvedimento normativo si è reso necessario per dare attuazione alle disposizioni della convenzione. Inoltre, una studiosa femminista turca è stata la prima a ricoprire la carica di presidente del Grevio, gruppo di esperte ed esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica che ha il compito di monitorare l’attuazione della convenzione.

La decisione di recedere ha sollevato critiche e proteste sia in Turchia sia negli altri paesi. Le studiose e gli studiosi del diritto e le associazioni forensi hanno evidenziato come il presidente si sia spinto ben oltre le prerogative attribuite al suo ruolo e che pertanto il recesso sarebbe incostituzionale.

Facendo leva sul fatto che l’esercizio del diritto di recesso spetterebbe al Parlamento (che ha ratificato la Convenzione), i principali partiti di opposizione (il CHP, Partito popolare repubblicano; l’HDP, Partito democratico dei popoli e l’IYIP, Buon Partito), nonché svariate associazioni forensi, organizzazioni di donne e private cittadine hanno fatto ricorso al Consiglio di Stato chiedendo l’annullamento del decreto presidenziale.

Le donne sono scese in strada e hanno fatto ampio uso dei social per protestare, per sottolineare l’illiceità del recesso, per ribadire l’importanza della convenzione e per rinnovare il proprio impegno a difesa della stessa. In occasione del decimo anniversario del trattato, il 10 maggio 2021, le donne in tutte le parti del mondo hanno manifestato per mostrare solidarietà. Numerose organizzazioni non governative internazionali e organizzazioni intergovernative, tra cui il Consiglio d’Europa, l’Unione europea e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, come pure la Casa Bianca, hanno criticato la decisione del Presidente Erdogan. Sempre in occasione del decimo anniversario della convenzione, 19 ambasciate ad Ankara hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui hanno espresso forte preoccupazione per l’accaduto.

Le proteste più significative e l’opposizione più vigorosa sono venute dalle femministe, che, singolarmente o nell’ambito di organizzazioni e reti, hanno contestato la decisione del presidente. Aspettandosi già una mossa del genere, le donne si erano mobilitate prima per impedirla.

Il presidente Erdogan e il suo partito (l’AKP, Partito della giustizia e dello sviluppo), al potere dal 2002, non hanno mai mostrato un impegno concreto per l’uguaglianza di genere e i diritti delle donne. Inoltre, a partire dal 2010, hanno adottato una retorica omofoba, a favore della famiglia (di fatto, dei ruoli di genere tradizionali) e finalizzata a promuovere la natalità. Una tale retorica ha gettato le fondamenta per l’avanzamento di una serie di proposte di legge e politiche che avevano un impatto sui diritti della comunità Lgbt+ e delle donne.

Da quando il governo ha iniziato a mettere a repentaglio i diritti, frutto di dure conquiste, le donne hanno cercato di reagire unendo le proprie forze. Nel 2020, mentre proprio le donne si opponevano ai piani del governo di restringere il diritto agli alimenti e di adottare, allo scopo di proteggere la famiglia, un provvedimento di amnistia per quegli uomini che avevano contratto matrimonio con minorenni (di fatto concedendo la grazia agli stupratori, obbligando i figli a viverci insieme, e aprendo la strada alla legalizzazione dei matrimoni in età minorile), alcuni esponenti del partito al governo hanno iniziato a evidenziare la necessità di considerare il recesso dalla Convenzione di Istanbul.

Secondo i gruppi islamisti reazionari e i media che gestiscono, la convenzione internazionale promuoverebbe l’omosessualità e rappresenterebbe una minaccia per la famiglia. Avendo un disperato bisogno del supporto di questi gruppi, il governo ne ha sposato in pieno la retorica. Al fine di reagire a questi attacchi e di coordinare la resistenza delle donne, il primo agosto del 2020 reti e organizzazioni già attive, hanno dato vita alla "piattaforma delle donne per l’uguaglianza" (EŞİK, nell’acronimo in lingua turca).

Potendo contare su oltre 340 aderenti tra organizzazioni di donne e associazioni per i diritti Lgbt+, nonché sul sostegno di quasi 150 organizzazioni, l’EŞİK è diventata una delle principali voci di opposizione e, allo stesso tempo, un potente strumento di azione collettiva. Ha immediatamente impugnato il decreto presidenziale e ha fatto ricorso al Consiglio d’Europa, fornendo un elenco dei provvedimenti normativi e delle procedure violati. Inoltre, la rete ha espresso disappunto allo stesso Consiglio d’Europa per il fatto di aver accettato il recesso senza porsi il problema della legittimità di questa decisione. Molte organizzazioni femminili parte dell’EŞİK hanno fatto ricorso al Consiglio di Stato per chiedere l’annullamento del decreto presidenziale.

Ora, c'è da considerare che il nuovo sistema presidenziale turco prevede un esecutivo particolarmente forte, ed Erdogan ha sfacciatamente ampliato e travalicato i propri poteri costituzionali al fine di indebolire l’autorità e l’autonomia delle altre istituzioni statali. L’adozione di una decisione autonoma da parte del Consiglio Stato sarebbe stata quindi alquanto improbabile. Tuttavia, le donne hanno cercato in ogni modo di richiamare l’attenzione sulla gravità delle conseguenze della mossa del presidente.

Il 19 giugno, si è tenuta una manifestazione che ha visto la mobilitazione di quasi 6mila donne provenienti da diverse parti del paese, nonostante l’emergenza sanitaria e i ritardi nell’iter autorizzativo. Inoltre, è stata lanciata una campagna sui social con lo scopo di criticare il Consiglio di Stato per non aver dato seguito ai ricorsi e per essersi sottratto alle proprie responsabilità. Tale organo è finalmente giunto a una decisione, peraltro con un solo giorno d’anticipo rispetto alla data in cui il recesso sarebbe divenuto efficace: come c’era da aspettarsi, ha confermato la legittimità del decreto presidenziale.

Il primo luglio, giorno in cui il recesso è divenuto effettivo, di fronte all’ondata di proteste che ha pervaso il paese, il presidente ha annunciato un nuovo piano d’azione per combattere la violenza contro le donne. Il piano, il quarto, non contiene nessun nuovo elemento, limitandosi a replicare il contenuto dei precedenti tre (rimasti lettera morta), ed è stato falsamente presentato come il frutto di un processo di consultazione con tutte le parti interessate e con alcune organizzazioni della società civile. Quindi rappresenta un mero tentativo di sopire lo scontento che serpeggia tra l’elettorato femminile dell’AKP.

Il recesso dalla Convenzione di Istanbul e le reazioni che ha ingenerato stanno avendo ripercussioni significative sia a livello nazionale che a livello internazionale. In Turchia, è evidente come il governo, indebolito da numerose crisi innescate dalle sue politiche o mal gestite (l’enorme debito estero, la stagnazione economica, la svalutazione della moneta nazionale, la pandemia, la crisi dei rifugiati/e dalla Siria e uno stile di governance autoritario) e sostenuto da un elettorato sempre più ridotto, si sta disperatamente aggrappando alle frange reazionarie islamiste e ultranazionaliste attuando un’agenda politica e culturale di stampo conservatore e fortemente tradizionalista per quanto riguarda i ruoli di genere.

È inoltre ormai evidente che se l’approccio autoritario e arbitrario di Erdogan ha spaventato e messo a tacere molte persone, le donne non consentiranno che i propri diritti vengano calpestati senza lottare. Non si può negare che gli sforzi messi in campo per contrastare le campagne di disinformazione sulla Convenzione di Istanbul nell’ultimo anno abbiano contribuito a modificare l’opinione pubblica. Stando a un sondaggio condotto su base nazionale nel luglio 2020, la maggioranza della popolazione (64%) non era a favore del recesso dalla Convenzione di Istanbul, mentre solo il 17% lo era. Un’altra indagine condotta un mese più tardi ha mostrato come il numero di coloro che erano a favore del recesso si fosse fortemente ridimensionato, arrivando a rappresentare solo il 7% della popolazione.

Il recesso della Turchia dalla Convenzione di Istanbul è significativo anche in quanto mostra l’allontanamento di Erdogan dal diritto internazionale che riguarda i diritti umani, e la sua tendenza a isolare la Turchia dal resto del mondo. La sua decisione potrebbe inoltre comportare un indebolimento del trattato a livello internazionale, considerando che dei 47 stati membri del Consiglio d’Europa, solo 34 paesi europei lo hanno ratificato.

In Polonia, che ha ratificato la convenzione nel 2015, il dibattito a livello governativo relativamente all’opportunità di recedere è iniziato molto prima che in Turchia, e lo stesso sta avvenendo in altri stati membri del Consiglio d’Europa. Il recesso esercitato dalla Turchia potrebbe innescare una reazione a catena, incoraggiando altri stati a fare altrettanto e rafforzando i gruppi misogini e omofobi.

Quanto avvenuto in Turchia dovrebbe essere considerato un problema internazionale ed essere trattato di conseguenza. Le donne in Turchia e in altri paesi sono pienamente consapevoli delle gravi ripercussioni che questo avrà sul piano internazionale e hanno già sottolineato l’importanza della solidarietà e della cooperazione a livello transnazionale. Queste donne rappresentano un esempio da seguire.

Leggi l'articolo originale in inglese

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