RICORDI SPARSI di Renata Rusca Zargar suscitati dal post INCONTRI CON I SANTI di Paolo D'Arpini
Il post
https://www.senzafine.info/2021/08/incontri-con-i-santi-di-paolo-darpini.html
mi ha fatto venire in mente il mio primo viaggio in India.
Ero
partita da sola, in realtà diretta a Katmandu, in Nepal.
Per
una fortuita serie di circostanze non dipendenti dalla mia volontà, arrivata a
Delhi, rimandai il volo per Katmandu e mi aggregai a una famiglia italiana che
faceva un giro in India.
Dopo
Haridwar e l’ammaliante fascino delle piccole candele dolcemente imbarcate sul
Gange, prendemmo un treno affollatissimo.
Ero
seduta per terra insieme ad altri nello spazio ristretto del gabinetto. Davanti
a me c’era un sadhu, cioè una di quelle persone che girano il paese portando
con sé solo una ciotola e vivendo di elemosina per accelerare il loro distacco
dal mondo materiale.
Ero
molto affascinata da quello che avevo letto sull’induismo e avere davanti a me
quella persona che mi appariva santa era quasi un miracolo.
Egli mi parlava ma io capivo pochissimo
l’inglese e, forse, anche lui lo parlava poco. Mi legò, però, al braccio un
filo nero e mi disse che quando si fosse spezzato sarei morta.
Sono
passati 34 anni da allora e io ho ancora quel filo al braccio. Dato che non
avrebbe resistito molto a lungo, l’uomo che poi ho conosciuto in quello stesso
viaggio, musulmano, come il karma ha voluto che fosse, e che è diventato mio
marito, ogni tanto, mi rifascia quel braccialetto con altro filo. Così, non si
è ancora spezzato e il suo cuore originario è rimasto imprigionato all’interno
insieme con la mia vita.
In
India, mi sono sempre sentita sicura e protetta mentre qui sono una persona
piena di paure e di angosce.
Quando il bus andava a tutta velocità e
sorpassava proprio quando arrivava un veicolo dalla parte opposta, io ridevo, nonostante
le voci in falsetto delle canzoni indiane a tutto volume che non ho mai amato.
Non
mi sono mai emozionata le varie volte che ho percorso, in bus o in jeep, una
delle strade più alte al mondo tra Srinagar e Leh, su per l’Himalaya. In quei
tornanti stretti sullo strapiombo si potevano scorgere, in basso, i tanti bus e
le auto precipitati.
In
quel tempo, era così grande la gioia di essere arrivata là che non avevo paura
di nulla.
Nell’hotel
dove alloggiavo, a Benares, c’erano topi che correvano tranquillamente da tutte
le parti. Quando andavo a cena, la sera, alzavo solo un po’ i piedi
appoggiandoli sulla congiunzione delle gambe del tavolo e non mi preoccupavo
più.
A
differenza degli altri occidentali, non volevo bere l’acqua minerale perché preferivo
bere la drinking water come gli Indiani, mangiavo gelati e frullati
meravigliosi in quantità, oppure cibi vari e tè dalle bancarelle sulla strada
dove lavavano sommariamente i bicchieri in un secchio d’acqua.
Nel
Ladakh (piccolo Tibet), una donna buddista caduta in trance mi ha tolto le
tonsille succhiandomi la gola e sputando due grumi di sangue in un piattino (lo
so, non ci si può credere, ma io, da allora, le tonsille non le ho più).
Ho
vissuto meravigliose avventure perché ero davvero libera, soprattutto da me
stessa.
Allora,
credevo che l’India fosse un mondo perfetto, di pace e di amore.
Nel
tempo, ho capito che la maggior parte delle persone neppure conosce la beatitudine
di cui avevo letto, che gli Indiani si massacrano volentieri gli uni con gli
altri, che non sono affatto pacifisti.
Le
tante religioni che professano sono un’ottima giustificazione per cercare di
eliminare le altre.
Certamente,
qualcuno è come i tanti sadhu che ho incontrato per via o come mio suocero
buonanima che non conservava nessun risentimento dentro di sé: ma sono davvero
pochi.
P.S.
Era la fine degli anni ’80 e devo precisare, per evitare qualsiasi confusione,
che non bevo alcool e non ho mai usato droghe.
La foto in alto è del 1987 e si riferisce ad Haridwar ma non è stata scattata da me perché io non avevo la macchina fotografica.
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