ABOLIRE LA GUERRA di GINO STRADA
ABOLIRE LA GUERRA UNICA SPERANZA PER L'UMANITÀ
Il discorso pronunciato da Gino Strada, fondatore e Direttore Esecutivo di
EMERGENCY, nel corso della cerimonia di consegna del "Right
Livelihood Award 2015", il "premio Nobel alternativo".
Da
https://www.emergency.it/cultura-di-pace/abolire-la-guerra/?gclid=EAIaIQobChMIovXbyd-y8gIVGLrICh08mAEjEAAYASACEgJFTvD_BwE
Onorevoli Membri del Parlamento, onorevoli
membri del Governo svedese, membri della Fondazione RLA, colleghi vincitori del
Premio, Eccellenze, amici, signore e signori.
È per me un grande onore ricevere
questo prestigioso riconoscimento, che considero un segno di apprezzamento per
l’eccezionale lavoro svolto dall’organizzazione umanitaria EMERGENCY in questi
21 anni, a favore delle vittime della guerra e della povertà.
Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di
vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho
operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o
missili.
A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano,
ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato
molti bambini feriti dalle cosiddette “mine giocattolo”, piccoli pappagalli
verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi,
queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un
po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e
occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di
quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita.
Mi è occorso del tempo per accettare l’idea che una
“strategia di guerra” possa includere prassi come quella di inserire, tra gli
obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del “Paese nemico”. Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere
orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e
della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini sono
per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di
terrorismo nei confronti dei civili.
Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle
cliniche di circa 1200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano
presumibilmente dei militari.
Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi
questo "il nemico"? Chi paga il prezzo della guerra?
Nel secolo scorso, la percentuale di civili
morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella
prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più “conflitti
rilevanti” che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra
mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di
vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del
tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano.
Lavorando in regioni devastate dalle guerre da ormai
più di 25 anni, ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e ho
percepito l’entità di questa tragedia sociale, di questa carneficina di civili,
che si consuma nella maggior parte dei casi in aree in cui le strutture
sanitarie sono praticamente inesistenti.
Negli anni, EMERGENCY ha costruito e gestito ospedali
con centri chirurgici per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq,
Afghanistan, Sierra Leone e in molti altri Paesi, ampliando in seguito le
proprie attività in ambito medico con l’inclusione di centri pediatrici e
reparti maternità, centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto
soccorso.
L’origine e la fondazione di EMERGENCY, avvenuta nel
1994, non deriva da una serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto
concepita su tavoli operatori e in corsie d’ospedale.
Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente
giusto. Lo si deve fare.
In 21 anni di attività, EMERGENCY ha fornito
assistenza medico-chirurgica a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia
nell’oceano, si potrebbe dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per
molti. In qualche modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno
condiviso l’esperienza di EMERGENCY.
Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali
abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale
ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che
l’uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.
Confrontandoci quotidianamente con questa terribile
realtà, abbiamo concepito l’idea di una comunità in cui i rapporti umani
fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco.
In realtà, questa era la speranza condivisa in tutto
il mondo all’indomani della seconda guerra mondiale. Tale speranza ha condotto
all’istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello
Statuto dell’ONU: “Salvare le future
generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa
generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede
nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona
umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni
grandi e piccole”.
Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il
rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre
sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel
1948. “Tutti gli esseri
umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” e il “riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri
della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il
fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.
70 anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria,
offensiva e chiaramente falsa. A oggi, non uno degli stati firmatari ha
applicato completamente i diritti universali che si è impegnato a rispettare:
il diritto a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all’istruzione e
alla sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All’inizio del
nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per pochi.
La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti
umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la
guerra nega tutti i diritti umani.
Vorrei sottolineare ancora una volta che,
nella maggior parte dei Paesi sconvolti dalla violenza, coloro che pagano il
prezzo più alto sono uomini e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo
mai dimenticarlo.
Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi
oltre 4000 civili in vari Paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq,
Libia, Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state ferite e
mutilate, o costrette a lasciare le loro case.
In qualità di testimone delle atrocità della guerra,
ho potuto vedere come la scelta della violenza abbia – nella maggior parte dei
casi – portato con sé solo un incremento della violenza e delle sofferenze. La
guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il
denominatore è comune, l’uso della violenza.
Sessanta anni dopo, ci troviamo ancora davanti al
dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto
Manifesto di Russell-Einstein: “Metteremo fine al
genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?”. È possibile
un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano?
Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre
esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile,
né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da
raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non
significa che debba essere parte anche del nostro futuro.
Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema
da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare.
Come medico, potrei paragonare la guerra al
cancro. Il cancro opprime l’umanità e miete molte vittime: significa forse che
tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio
il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli
sforzi per prevenirla e sconfiggerla.
Concepire un mondo senza guerra è il problema più
stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente.
Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell’apocalisse, stanno mettendo
in guardia gli esseri umani: “L’orologio ora si
trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader internazionali non
stanno eseguendo il loro compito più importante: assicurare e preservare la
salute e la vita della civiltà umana”.
La maggiore sfida dei
prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le
condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di
massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le
malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina
giusta: non cura la malattia, uccide il paziente.
L'abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa
direzione.
Possiamo chiamarla “utopia”, visto che non è
mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma
piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento.
Molti anni fa anche l’abolizione della schiavitù
sembrava “utopistica”. Nel XVII secolo, “possedere degli schiavi” era ritenuto
“normale”, fisiologico.
Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e
nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha
cambiato la percezione della schiavitù: oggi l’idea di esseri umani incatenati
e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell’utopia è divenuta realtà.
Un mondo senza guerra è un’altra
utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà.
Dobbiamo convincere milioni di persone del
fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo
realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre
coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla
storia dell’umanità.
Ricevere il Premio “Right Livelihood Award” incoraggia me personalmente
ed EMERGENCY nel suo insieme a moltiplicare gli sforzi: prendersi cura delle
vittime e promuovere un movimento culturale per l’abolizione della guerra.
Approfitto di questa occasione per fare appello a voi
tutti, alla comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché uniamo le
forze a sostegno di questa iniziativa.
Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la
miglior cosa che possiamo fare per le generazioni future.
Grazie.
— Gino Strada, Stoccolma,
30 novembre 2015
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Pagina Autore di Renata Rusca Zargar:
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