IL DDL Zan, tra bufale e realtà [Vol. 4] da https://www.butac.it/
ll DDL Zan, tra bufale e realtà [Vol. 4]
Il nostro ultimo articolo di approfondimento (per ora...)
19 Mag 2021 • Patrick Jachini
È passata la giornata contro l’omobitransfobia, ma i
diritti restano sempre attuali. Concludiamo quindi la nostra approfondita
analisi del DDL Zan, stavolta rispondendo ad alcuni dei più popolari e
importanti dubbi riguardo all’identità di genere, i diritti delle donne e i
motivi per cui non si vuole modificare il DDL né accettare la proposta della
Lega.
Cos’è l’identità di
genere?
Secondo le femministe radicali, per punire la
transfobia basterebbe usare nel DDL Zan il termine “transessualità”, così da
tutelare le persone trans senza attaccare l’identità delle donne e i loro
diritti. Ma è davvero così?
Ripartiamo dai concetti: l’identità di genere
consiste nel genere in cui la persona si identifica. Per quasi tutti,
questo corrisponde al sesso di nascita (si parla di persona cisgenere: al di
qua del genere). Per le persone transgenere (al di là del genere) invece no:
loro infatti sentono intimamente di non appartenere, in tutto o in parte, al
genere relativo al proprio sesso.
Si parla quindi di “identità di genere”
per poter definire questa relazione dissonante tra sesso biologico e genere
percepito. Una persona di un certo sesso potrebbe identificarsi nel genere
opposto (si parla di MtF – Male to Female – chi da uomo si percepisce
donna, o, viceversa di FtM – Female to Male) ma potrebbe anche non
identificarsi in alcuno dei due generi (maschile,
femminile) o farlo in entrambi, magari però non allo stesso tempo.
È un po’ complicato, esistono tante sfumature, ognuna con un suo nome (avrete
certo sentito parlare di persone agender, non-binarie o gender-fluid).
Per facilità e completezza, tutte queste sfumature sono raccolte nella
definizione “ombrello” di transgenerismo, cioè il fatto di essere transgenere
(se masticate l’inglese, qui un articolo davvero completo).
Quando si parla di transessualità, invece,
ci si riferisce solo ad una porzione del mondo trans: coloro, tra
quelli che si rispecchiano nel sesso opposto, che hanno effettuato una
transizione di sesso secondo le procedure che abbiamo visto. Proprio per
questo il DDL Zan non usa questo termine: andrebbe a tutelare solo e soltanto
le persone che hanno ottenuto la rettifica di sesso, escludendo tutte le altre
(inclusi, ad esempio, bambini e ragazzi per cui giustamente si aspetta prima di
intervenire con farmaci o addirittura operazioni). Per capire concretamente la
differenza, esaminiamo i dati del più grande e recente sondaggio dell’Agenzia
europea per i Diritti Fondamentali (FRA) rivolto alle persone della comunità
LGBT+, condotto nel 2019 in tutta Europa. Tra i più di 9000 rispondenti
italiani, meno del 15% di coloro che si identificavano come
trans erano intervenuti per far corrispondere maggiormente il proprio corpo
alla propria identità di genere. Il massimo si raggiunge in Germania, Olanda e
Austria, dove comunque non si supera il 50%. Questo non stupisce, in quanto 1)
la procedura non è così accessibile, 2) chi non si riconosce in nessun genere
non ha nessun sesso verso cui fare transizione e 3) c’è chi non lo ritiene
necessario, non vuole farlo o non può, magari per motivi di salute.
È evidente che, quindi, l’identità
transessuale o la transessualità (termini che non esistono in nessuna
legge) non sono per nulla equivalenti all’identità di genere,
soprattutto in Italia. Ignorare questo fatto è a tutti gli effetti un
comportamento trans-escludente, considerato anche che le persone trans
e intersessuali sono mediamente le più esposte ad atti di violenza e
discriminazione, incluso l’omicidio.
Come faceva notare il Servizio Studi della Camera l’identità di
genere compare anche nell’ordinamento europeo. Inoltre è uno dei motivi di
discriminazione individuati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, come
evidenzia il praticissimo (e lunghissimo) Manuale di diritto europeo della non discriminazione realizzato
dalla FRA e che raccoglie il quadro legale dell’UE così come la giurisprudenza
della CEDU.
Anche nell’ordinamento italiano compare già
l’identità di genere, dalla Convenzione di Istanbul – che deve essere
applicata senza disparità dovute, tra le altre cose, all’identità di genere –
alla riforma del 2018 dell’ordinamento penitenziario (legge 354/1975, che ha introdotto il divieto
di discriminazioni anche per l’identità di genere del detenuto, così come la
possibilità, per i detenuti che per essere gay o trans rischiano aggressioni o
sopraffazioni, di essere assegnati ad apposite sezioni omogenee).
Anche la giurisprudenza utilizza il
concetto di identità di genere: la Corte costituzionale l’ha infatti
menzionato nei due recenti giudizi di legittimità riguardo l’art. 1 della legge
164, uno nel 2015 e uno nel 2017. In quest’ultima sentenza si
legge:
In coerenza con quanto affermato nella
sentenza richiamata [quella del 2015 NdA], va ancora una volta rilevato come
l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei
registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente
percepito e vissuto costituisca senz’altro espressione del diritto al
riconoscimento dell’identità di genere. Nel sistema della legge n. 164 del
1982, ciò si realizza attraverso un procedimento giudiziale che garantisce, al
contempo, sia il diritto del singolo individuo, sia quelle esigenze di certezza
delle relazioni giuridiche, sulle quali si fonda il rilievo dei registri
anagrafici.
La sentenza, in pratica, ribadisce la realtà:
l’identità di genere corrisponde al genere intimamente percepito e
vissuto. La legge 164 permette quindi di far sì che questa identità
venga riconosciuta dallo Stato tramite la rettifica del sesso anagrafico.
Insomma, il DDL Zan non inventa nulla, anzi ribadisce ciò che la
Consulta dice da anni, inserendolo in un testo di legge.
Il DDL Zan danneggia i
diritti delle donne?
Le rad-fem osteggiano l’identità di genere perché,
essendo un elemento percepito soggettivamente, una profonda sensazione, non c’è
nessuno che possa verificarlo. Il timore è che l’identità di genere possa
sostituirsi al sesso, e quindi che chiunque possa usufruire degli spazi o delle
tutele femminili, senza controllo: si ipotizzano uomini che sostengono di
percepirsi donne per poter avere accesso alle quote rosa, per poter accedere a
spazi come bagni, docce e spogliatoi femminili con intenti violenti e molesti,
per gareggiare in competizioni femminili in condizioni ovviamente di sleale
vantaggio o, se in carcere, per essere trasferiti in una sezione femminile e
quindi abusare delle carcerate. In quasi tutti questi casi il fatto non
sussiste, in quanto, come abbiamo visto, il nostro ordinamento
distingue quasi sempre per sesso, e non per genere. Le leggi che obbligano
gli esercizi pubblici ad avere i bagni dicono che questi devono essere distinti
per sesso. Le carceri sono divise in
sezioni per donne e per uomini. L’identità di genere ha
rilevanza giuridica solo e soltanto quando viene riconosciuta dal tribunale
tramite la rettifica del sesso anagrafico (da cui si presume il
genere), che è l’unico dato che conta nelle relazioni giuridiche (che
devono essere determinate). L’identità di genere viene quindi inserita
nel DDL Zan con il solo scopo di proteggere tutte le persone trans dalle
violenze e dalle discriminazioni. Nulla più.
Per quanto riguarda le Olimpiadi: su Butac ne abbiamo
già parlato qui e qui. In ogni caso, chi oggi partecipa alle gare femminili o
maschili continuerà a farlo, con o senza DDL Zan. Le due cose sono slegate, e
per le Olimpiadi decidono i Tribunali Sportivi, a livello internazionale.
Perché non si vuole
modificare il DDL Zan?
Sappiamo che il Parlamento italiano è costituito da
Camera e Senato. In un regime di bicameralismo perfetto come il nostro, le
leggi devono essere approvate con lo stesso identico testo da Camera e Senato.
Se un’aula fa qualche modifica, il testo dev’essere approvato di nuovo
dall’altra. Il DDL Zan, così com’è adesso, è già stato approvato alla Camera.
Manca il Senato. A causa dell’ostruzionismo della destra, tra tonnellate
di audizioni ed emendamenti inutili, i tempi che ci
separano dalla discussione e votazione nella plenaria del Senato si prospettano
davvero lunghi. E l’approvazione, nonostante i voti teoricamente ci siano,
non è così scontata. Se il testo nel frattempo venisse modificato, questo
dovrebbe tornare alla Camera per essere approvato di nuovo. C’è il
rischio concreto che, per l’ennesima volta, questa legge rimanga nei cassetti del
Senato: alla fine della legislatura mancano meno di due anni, sempre che il
governo non cada e si vada a elezioni anticipate (le probabilità sono alte).
Il testo cui siamo arrivati è già il punto di arrivo
di una lunga discussione fatta alla Camera. Quasi tutte le modifiche proposte
ora sono o superflue (sarà ostruzionismo?) o proprio dannose, in quanto
deliberatamente andrebbero a indebolire o snaturare una legge che già di suo
non è Godzilla.
Vale davvero la pena rischiare così tanto (e per
tanto intendo la vita della gente che viene picchiata o uccisa,
giusto per capirci)? Secondo me no, e il fatto che il Servizio studi del Senato
non abbia trovato nulla da specificare o correggere nel DDL Zan conferma la mia
impressione.
Perché la proposta della
Lega non va bene?
La proposta presentata dalla Lega (il testo è qua) è radicalmente diversa dal DDL Zan. Prima
di tutto, ha un impianto esclusivamente punitivo, senza occuparsi di
difendere le vittime dopo il reato né di prevenire i crimini: come al
solito, non si vuole capire (o ammettere) che le violenze non diminuiscono
semplicemente minacciando le manette. Rifiutarsi di combattere
l’omobitransfobia nella società, anche a partire dalla scuola, parandosi dietro
lo scudo – che abbiamo dimostrato essere pretestuoso – della libertà delle
opinioni, dimostra che non c’è la minima intenzione di fermare le violenze, ma
solo di affossare la legge per accontentare e stimolare un elettorato che vede
nei diritti degli altri una minaccia per i propri e per la moralità, e/o di
mettere la propria bandierina sull’iniziativa.
Punto secondo, questa proposta modifica l’art. 61
c.p., ossia le circostanze aggravanti comuni, aggiungendovi “l’aver agito in
ragione dell’origine etnica, credo religioso, nazionalità, sesso, orientamento
sessuale, disabilità nonché nei confronti dei soggetti che versano nelle
condizioni di cui all’articolo 90-quater del codice di procedura penale”,
modificando poi altri articoli per limitare l’attenuazione della pena.
Qual è il problema? Che questa è una brutta
copia dell’art 604-ter (che viene dalla legge Mancino), che
esiste già ed è oggetto di modifica del DDL Zan! Per di più, per quanto
riguarda i reati fondati sull’origine etnica ecc. questa legge fa proprio
sovrapporre l’art. 61 con il 604-ter. Solo che il 61-bis prevede l’aumento
della pena fino a un terzo, mentre il 604-ter (essendo un’aggravante speciale)
fino alla metà: essendo la stessa identica aggravante, c’è pure il rischio che
il giudice applichi quelle più lievi. Quindi si indebolisce anche la (sacrosanta) legge
Mancino. Geniale.
Inoltre l’art. 61, nel Codice penale, è inserito
semplicemente nella sezione che parla delle circostanze del reato, mentre il
604-ter è nel Titolo dei delitti contro la persona, nel Capo dei delitti contro
la libertà individuale, nella Sezione dei delitti contro l’eguaglianza.
Infine, la nuova proposta esclude del tutto la
tutela delle persone trans, che sono proprio le più esposte.
Capite la differenza sostanziale, non solo simbolica
ma anche concreta?
Per ora la discussione avverrà congiuntamente, ma i
due testi non sono stati fusi in uno solo (e il centrosinistra ha dichiarato di
voler difendere il DDL Zan da questo tentativo).
https://www.senzafine.info/2021/05/il-ddl-zan-tra-bufale-e-realta-vol-1-da.html
---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
LEGGI L'ESTRATTO:
Commenti
Posta un commento