CON LA GAMBA INUTILE racconto di Fernando Sorrentino

 


                                                     Fernando Sorrentino 

Con la gamba inutile 

Titolo originale in spagnolo: Con la de palo

Traduzione di Enzo Citterio <citter@libero.it>

1

Il dottor Arturo Frondizi ed io eravamo alti e magri. Allora lui iniziava il suo secondo anno come presidente dell’Argentina e io frequentavo il quarto anno al liceo situato tra via El Salvador e Humboldt, nella città di Buenos Aires.

Più volte ebbi, per quelle stranezze della mente umana, un pensiero: “Io conosco l’esistenza di Frondizi ma lui non conosce la mia”.

Il rione della scuola era il mio stesso rione e lo conoscevo molto bene.

Alla fine della via Costa Rica, cioè alcuni metri prima di arrivare alla via Dorrego, c’era una officina di riparazioni automobilistiche. Vedevo spesso il meccanico sul marciapiede dell’officina, qualche volta in piedi, altre volte sdraiato sotto un auto, ma sempre indossando una tuta blu cosparsa di macchie d’unto. Certamente non poteva passare inosservato: i suoi quasi due metri di statura e il suo aspetto imponente mi portavano a calcolare il suo peso in non meno di centoventi chili. Inoltre, aveva delle caratteristiche che richiamavano alla mente il sole: viso rossiccio e rotondo, occhi di un celeste diafano e capelli di un biondo talmente chiaro che sembravano quasi bianchi. Sembrava avere circa una trentina d’anni d’età.

Attraversando via Dorrego, la via Costa Rica cambia il nome in via Crámer e si entra nel rione Colegiales. Cento metri più avanti c’era –a quei tempi– il campetto: un enorme terreno che in larghezza arrivava alle vie Álvarez Thomas e Zapata, mentre in lunghezza arrivava fino alla via Newbery. Sul campetto c’erano diversi campi di calcio, dove si svolgevano incontri tra squadre di giocatori dilettanti. I campi di gioco non offrivano neanche una briciola di prato: erano di durissima terra riarsa.

Per accedere al campetto era necessario attraversare una gola per dove, ogni tanto, circolava in trincea e in una sola via per andata e ritorno, un treno merci –fu eliminato più di mezzo secolo fa– che collegava la stazione Colegiales delle ferrovie Mitre con la stazione Chacarita delle ferrovie San Martín. Non c’era alcun segnale di pericolo quando si approssimava l’unico treno di quella diramazione, la nera locomotiva a vapore faceva suonare un fischio acuto, lungo, triste e un poco terrificante. Come accade per le navi, le locomotive di quei tempi avevano un nome; questa, come si leggeva in caratteri bianchi, si chiamava La Gauchita.

2

Accadde che una mattina domenicale di luglio scesi per la prima parete –dislivello: circa quarantacinque gradi– della trincea ferroviaria, non udii nessun fischio, per precauzione guardai a destra e a sinistra, attraversai le rotaie e mi arrampicai su per la seconda parete. Raggiunsi i miei compagni della squadra Rayo Azul, che si sarebbe confrontata –in una partita meramente “amichevole”– con un’altra squadra sconosciuta: Amanecer de Bollini.

 (Organizzava questi incontri un certo Azzimonti –non seppi mai il suo nome di battesimo–, individuo rozzo, con un eterno mozzicone di sigaretta in bocca. In gioventù, secondo quanto da lui asserito più volte, aveva giocato come insíder in una squadra di serie B: quella esperienza lo autorizzava a procedere come una specie di direttore tecnico. Aveva un assistente soprannominato Forbicina, presumo che per essere, o essere stato, parrucchiere.)

Non c’erano spogliatoi né cosa simile. Ai bordi del campo di gioco ci vestivamo da calciatori prima di cominciare l’incontro e, quando finiva questo, tornavamo ad indossare i nostri soliti indumenti. A circa trecento metri, e al bordo del dirupo vicino alla trincea ferroviaria, c’era una piccola colonna (alta un metro) con un rubinetto di acqua corrente: lì, accucciati, bevevamo e ci lavavamo in modo sommario; ma la maggior parte, stremati per la partita appena finita, non se la sentivano di percorrere quella distanza e preferivano tornare assetati alle loro case.

Azzimonti, ancora una volta, mi aveva convocato per giocare, così accorsi molto orgoglioso. Il ruolo di ala sinistra non era ancora stato assegnato: qualche volta ero stato titolare e Hugo Martínez il supplente, e qualche volta ci si alternava. E in questa occasione io avrei iniziato la partita come titolare.

Le mie virtù, tuttavia, non erano estreme ne troppo brillanti.

Ero capace di eseguire un dribbling lungo, rinvii precisi e potenti ed ero molto veloce: mi ero guadagnato il soprannome di Levriero. Usavo la gamba destra, ma potevo anche servirmi della sinistra (l’inutile), a condizione che la palla fosse in movimento e, in quel caso il mio calcio di sinistro era, chissà perché, più violento che col destro ma, in cambio, non riuscivo a dare una traiettoria precisa alla palla.

Non ero stato beneficiato da altre doti. Ero incapace di brevi dribbling; avevo bisogno di ampi spazi. Nonostante la mia statura, non avevo i requisiti per il gioco aereo e non ero bravo con i colpi di testa (inoltre, potevo colpire solo con il parietale sinistro).

Anche se usavo abitualmente la destra, giocavo –come già detto– da ala sinistra. Questo era più un vantaggio che uno svantaggio. Anche se, oltrepassando la zona sinistra del campo, il mio tiro con la gamba inutile poteva avere una direzione imprecisa, ma la mia destra soleva sconcertare al numero 4 rivale, abituato a confrontarsi con ali mancine.

Ero molto magro, molto gracile, gambe da trampoliere, sessanta chili scarsi, mi si potevano contare le ossa. La mia stessa velocità, la mia stessa accelerazione fulminea, mi facevano apparire ancora più fragile e risvegliavano nel mio rivale la voglia di sbattermi per aria. Per la mia età non ero ancora sviluppato. Quasi tutti i giocatori, sia i miei compagni sia i rivali, erano già uomini fatti di più di vent’anni e non mancavano coloro che avevano trenta, trentacinque o più anni.

3

La divisa dei giocatori di Amanecer de Bollini consisteva in magliette a bande verticali rosse e azzurre, pantaloncini bianchi e calzettoni azzurri. La nostra maglietta è un po’pacchiana: dalla spalla sinistra fino all’ultima costola a destra vibra elettricamente, su fondo bianco, un lampo blu; i calzettoni e i pantaloncini sono bianchi.

L’arbitro ci chiama per iniziare la partita e ci distribuiamo, occupando ognuno il proprio posto, per il campo di gioco.

Sulla mia spalla c’è il numero 11. Dall’altra parte della metà campo, con il 4 sulla maglietta, si trova qualcuno che conosco di vista e che avevo classificato come una specie di gigante rubicondo: non è altri che il padrone dell’officina meccanica in via Costa Rica. Dalle voci dei suoi compagni, scopro che si chiama Tadeo.

E, come mi è successo diverse volte con Arturo Frondizi, mi sorse lo stesso assurdo pensiero: “Io so chi è lui, ma io gli sono completamente sconosciuto”.

Inizia, dunque, la partita.

Nei primi minuti, Amanecer di Bollini ci travolge al punto da non poter far uscire il pallone dal nostro campo e, forse, neanche dalla nostra area. Io sono una specie di spettatore. Si può dire che quasi non sono entrato in gioco; ho a malapena partecipato in alcuni tiri di andata e ritorno, senza arrivare a dominare la palla.

Saranno passati venti minuti di gioco. Per un incredibile colpo di fortuna, la partita è ancora zero a zero anche se, secondo i meriti, dovremmo perdere per almeno tre gol di differenza.

In quella bufera provocata dal costante attacco dell’esercito rossoazzurro, il nostro mediano sinistro, giocatore poco sottile ma feroce nel marcare l’avversario, respinge il pallone con una scarpata che lo manda alle stelle…

La palla, molto alta, inizia a scendere. La vedo venire verso me. Devo spostarmi appena un poco per tentare di fermarla, come posso, con il petto. Siccome sono maldestro, il pallone rimbalza su me e devo raggiungerlo a due metri di distanza. Lo tengo, fermandolo con il piede destro.

Tutto questo nel giro di meno di un secondo. A un metro, ho davanti a me la figura ciclopica di Tadeo, con le gambe molto aperte, le braccia orizzontali e gli occhi celesti inchiodati sui miei piedi.

Incurvandomi un po’, fingo di voler spostarmi verso l’interno per passare verso il fianco sinistro di Tadeo e, in effetti, abbocca alla finta e salta verso dove non ci sono né il pallone né io.

Così facendo perde una frazione di secondo e, inoltre, inciampa e resta con le spalle alla sua porta. Più che sufficiente per il mio scatto e le mie lunghe gambe.

Il Levriero aggancia la palla con l’interno del piede destro e, in un soffio, passo alla destra del 4.

E’ già nel terreno avversario. Con tanto campo libero davanti, non è opportuno portare la palla incollata al piede. La calcia lunga e le corre dietro alla massima velocità di cui è capace, in diagonale verso la porta. In quei pochi secondi, Tadeo resta parecchi metri dietro al Levriero, la cui intenzione è calciare in porta…

Ma da metà campo, su un’altra linea diagonale, viene a intercettarlo il 2 rivale; arriva accecato e scomposto. Al Levriero risulta molto facile, davanti a quella sorta di bisonte, ripetere l’aggancio sul suo piede buono e passare la palla sul sinistro. Ma ora si trova quasi sulla linea di fondo e non le è più possibile tirare in porta; conseguentemente fa l’unica cosa che può fare: calcia la palla con la gamba inutile, e vada come la dea Fortuna vuole. La gamba inutile picchia forte, ma senza una direzione precisa: può accadere qualsiasi cosa.

La dea Fortuna volle che, tra i quattro o cinque giocatori che sono già presenti in area, il pallone scegliesse il piede destro del centrocampista di Rayo Azul, il quale, comodo e libero, segna il primo gol della partita.

4

Torniamo al dunque per continuare col racconto della partita.

Sono troppo felice, sento ammirazione per la mia persona a causa dell’eccellente azione che ho realizzato e che ebbe come conseguenza il nostro primo gol. E questo gol, anche se non è stato segnato da me, fu dovuto, soprattutto, alla mia abilità fisica e alla mia rapidità mentale.

Questa specie di ebbrezza mi porta a commettere due errori.

Il primo errore è di concetto e lieve: sottovaluto il rivale e penso che Tadeo è ciò che, con termine calcistico, chiamiamo brocco. Mi era stato così facile eluderlo e arrivare all’area contraria, che –sono sicuro– lo farò ammattire da adesso fino all’ultimo minuto della partita.

Ed ecco quando commetto il secondo errore, che non è più lieve, ma grave e quasi catastrofico.

Quando lo sguardo di Tadeo incrocia il mio, non posso resistere alla tentazione di formare un cerchio con l’indice e il pollice destri, portarli alla fronte, fare l’occhiolino e sorridere con metà bocca, schioccando le labbra: è il famoso gesto canzonatorio concepito dall’attore comico Carlos Balá.

Ma a Tadeo non sembra per niente divertente: mi lancia uno sguardo assassino (nonostante sia celeste) e mi insulta senza emettere voce, muovendo molto le labbra, di modo che io legga le parole ingiuriose.

Ricomincia la partita. Lo sviluppo è lo stesso di prima. Nuovamente abbiamo la nostra difesa asserragliata nella nostra area e il nostro portiere impegnato a dover fare acrobazie per parare.

Ricevo un passaggio di palla simile a quello che aveva procurato il gol. Con un sorrisetto di sufficienza affronto Tadeo. Ripeto con esito la stessa finta di andare all’interno per poi spostarmi all’esterno.

Ma questa volta non riesco a prendergli quattro e nemmeno e nemmeno cinque metri di vantaggio. Non riesco a distanziarlo nemmeno di un millimetro.

Tadeo, girandosi con sorprendente rapidità, con la gamba destra mi tira una tremenda scarpata che mi colpisce nello stinco. Portato dalla mia propria inerzia, crollo in avanti, a faccia in giù. La faccia, il naso, il petto, i gomiti, le ginocchia, le gambe strusciano sul duro e polveroso campo di gioco, fatto specialmente doloroso a causa del freddo di luglio. Durante la caduta, mentre sto ferendomi sul terreno, volevo rialzarmi per assestare a Tadeo un calcione nello stomaco o da qualsiasi altra parte.

Ma non riesco a rialzarmi. Sono ferito, sanguinante, dolorante, coperto di terra. L’arbitro segnala un fallo a nostro favore. I miei compagni aggrediscono Tadeo. Gli rimproverano per la innecessaria violenza del suo comportamento. Avviene un breve tumulto. Manate, insulti, spintoni… Tadeo è ammonito dall’arbitro e tutto finisce lì.

A me sprizza sangue dai gomiti, dalle ginocchia, dal naso. Esco dal campo per cercare di ricompormi un po’. Sono traboccante di odio: “Figlio di puttana”, borbotto, pensando a Tadeo, “come mi piacerebbe prenderti a calci la testa e mandarti all’ospedale”.

–Tranquillo, ragazzo, tranquillo! –mi dice Azzimonti–. Non si arrabbi, perché non guadagna niente ed è peggio. Nervi a posto e con criterio, ragazzo, con criterio.

Torno in campo: è dolorante perfino la divisa.

Cerco di calmarmi. Ma non sono più me stesso, non sono più tracotante come ero dopo il gol; ora sono piuttosto impaurito.

Mi accorgo che Tadeo ha cambiato tattica. Attaccato a me, mi marca in modo talmente stretto che non riesco neanche a ricevere la palla. “Se a me danno un metro”, mi dico, “che è tutto ciò di cui ho bisogno per dominare la palla, allora con questo pachiderma mi faccio un picnic”.

Sì, senza dubbio. Ma il fatto è che il pachiderma non solo non mi dà il metro che necessito, ma non mi dà neanche mezzo metro, neanche venti centimetri. Non mi dà niente di niente. E’ appiccicato a me e arriva sempre a ogni palla prima di me.

Noto le sue deficienze e ciò mi riempie di indignazione. E’ un giocatore rozzo, senza nessuna destrezza. Tira di testa come può, calcia come può: con il collo del piede, con la rotula, con lo stinco, ansima ed è sotto sforzo, ha spirito di sacrificio.

Tecnicamente, io sono molto superiore a Tadeo, ma non posso fare nulla contro quel gigante che, oltre a non permettermi di entrare in gioco, mi propina sempre dissimulati calci e schiaffi, mi dà cazzotti, mi pizzica, mi tira i capelli, mi sputa addosso, ad ogni istante mi dice, con voce affannata per la fatica, “Finocchietto figlio di puttana, così impari a non prendermi in giro, coglione di merda. Ti massacrerò a calci, visto che ti credi un asso nel gioco di gambe e nel calcio, finocchietto figlio di puttana”.

Questo mi dice Tadeo, e non solo lo dice ma, mentre lo dice, sento le sue ginocchia di ferro e le sue nocche d’acciaio e i suoi schifosi sputi. Naturalmente, non ho l’indole della vittima e mi difendo e attacco a mia volta. Ma non ho la forza di Tadeo e risento ancora i dolori dovuti al fallo precedente.

Finisce il primo tempo. Invece di avere un sollievo, devo sopportare i rimproveri di Azzimonti. E’ deluso e furioso per la mia performance. Non  importa che io sia in inferiorità fisica:

–Ne prenda una, ragazzo, ne prenda una. Si deve smarcare, il biondo se l’è messo in tasca.

Tento di spiegargli che, anche se riesco a smarcarmi, al biondo non gliene frega niente del gioco e si dedica esclusivamente a perseguitarmi per tutto il campo, avendo come solo scopo di picchiarmi, insultarmi, sputarmi addosso…

–Senti, bocia, devi avere carrattere. Non devi avere fifa, bocia. Se non hai carrattere, al futebol non puoi più giocare.

Sono consigli che si dicono, certo, e sono sensati. Ma, quando si è già intimiditi, non ci si può più fare niente. Vorrei quasi suggerire ad Azzimonti che, nel secondo tempo, mi sostituisca con Hugo Martínez. Ma non oso: impazzirebbe di rabbia. Niente mortifica tanto Azzimonti quanto un giocatore che, senza essere leso, chieda di essere sostituito: lo considera una vigliaccheria inqualificabile. E non ha torto.

Allora, intimorito e con il desiderio di essere molto lontano da lì, torno al campo di gioco e si ripete esattamente la situazione sofferta durante il primo tempo. Tadeo torna a martirizzarmi e io, impaurito, concordo con la opinione di Azzimonti: non ho carattere e, quindi, non posso più giocare al calcio.

Fortunatamente, Azzimonti chiede la sostituzione e, al mio posto ingressa Hugo Martínez. Mancano venticinque minuti alla conclusione della partita: durante quel secondo tempo Amanecer de Bollini segna tre gol. Ai bordi del campo devo subire la valanga di rimproveri scaricatami addosso da Azzimonti e Forbicina.

Mi sento doppiamente umiliato: per il dispotismo di Tadeo e per le recriminazioni del binomio tecnico. Ma, nello stesso tempo, sono arrabbiato con me stesso e con la mia vigliaccheria; penso di avere l’obbligo morale di, prima o poi, vendicarmi di Tadeo.

5

Dopo alcuni minuti, i giocatori cominciano a disperdersi. Io, depresso, resto seduto ai bordi del campo di gioco fino a restare da solo. Sono vestito con i miei abiti e le mie scarpe di cuoio; l’abbigliamento sportivo si trova nella mia sacca.

Finalmente mi alzo e, con l’idea di rinfrescarmi, mi avvio verso il rubinetto che si trova al bordo della trincea ferroviaria.

E allora… oh!

Vedo la figura gigantesca di Tadeo che, dandomi le spalle e accucciato, sta bagnandosi la testa e bevendo.

Corro verso di lui, con l’intenzione di assestargli, con il mio piede destro, una botta nella spalla in modo di fargli sbattere il muso contro la colonnina, per poi fuggire a tutta velocità: non per niente sono il Levriero e, quindi, Tadeo non avrebbe mai potuto raggiungermi.

Ma, un attimo prima, Tadeo percepisce chissà cosa: gira il viso rossiccio e la testa bionda verso me e sfodera un sorrisetto ironico e beffardo. Resta accucciato e quella testa bionda –il pallone– è in movimento, perciò non ho alcuna difficoltà –con l’inutile– piazzargli un calcione violento, ma così violento, che lo fa traballare, girare su se stesso e crollare nella trincea feroviaria.

Rimbalza due o tre volte per la scarpata e cade in fondo alla trincea. Sento il rumore che produce il suo cranio urtando contro una traversina. Eccolo, orizzontale e steso trasversalmente sulla ghiaia e le rotaie.

Non è morto, infatti lo vedo muoversi, un po’ spasmodicamente. Preferisco non restare lì per accertarmi se riesce, o no, riprendersi dalla botta e allontanarsi dalle rotaie.

Ridiventato il Levriero, inizio a correre velocemente lungo il bordo della trincea, per fuggire al più presto e il più lontano possibile da Tadeo e le sue afflizioni fisiche.

Cento metri, trecento, cinquecento…

Ed è allora che sento, non troppo distante, il fischio acuto, lungo, triste e un po’ terrificante di La Gauchita.

6

Quello stesso giorno ho abbandonato per sempre la pratica del calcio, ma non a causa della mancanza di carattere che aveva nominato Azzimonti.

Non volevo essere costretto, in situazioni estreme, a calciare con l’inutile perché, come già detto prima, l’inutile picchia forte, ma senza una direzione precisa: può accadere qualsiasi cosa.

E mai tornai a passare dall’ultimo isolato della via Costa Rica, poiché mi tormentavano due timori.

Da un lato, la paura che, in piedi sul marciapiedi dell’officina meccanica, con la sua tuta macchiata di grasso, Tadeo mi vedesse. Dall’altro, una paura molto più terrificante: che io non lo vedessi più, in piedi sul marciapiedi dell’officina meccanica, con la sua tuta macchiata di grasso. 


Questo racconto è stato pubblicato due volte:

Con la de palo (2017). Revista de la Academia Norteamericana de la lengua Española. LEAN®ANLE, Nuova York, vol. VI, n°12, luglio-dicembre 2017, pagg. 482-490.

Con la de palo (2019). El Malpensante, n° 204, Bogotà, febbraio 2019, pagg. 74-79.

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