IN MEMORIA DI AURELIA GREGORI 821220 AUSCHWITZ di Giulio Marra
Da Aurelia a Aurelia.
Da una madre alla sua neonata
In memoria di Aurelia Gregori 82120 Auschwitz
Testo del prof. Giulio Marra
1 -
Una storia fatta di tante storie, una storia di tanti giorni, miei, tuoi, di chiunque abbia camminato in questo mondo. Mi colpì un’idea che farfugliava nel profondo mare, al quale stavo dinanzi, e venne a galla, piano piano, in silenzio. Una storia? No, non una storia. Una trama in cui intrappolare qualche essere umano? No. E cosa rimane? Attimi, pensieri. Luoghi, sentimenti. Soprattutto un’idea, un’idea come eri tu. Eri ancora idea, un seme che deve prendere forma e ha in sé ogni forma. Costretta nel tempo e nello spazio lungo un filo spinato, sceglievo di non guardare mai le betulle che sporgevano oltre le mura, la mia e la tua anima non avrebbero potuto reggere, pensavo. Pensai di parlarti come parlai bambina, un giorno, al mio aquilone. Come se l’aquilone adesso fossi tu. Hai bisogno anche tu della mia mano? E io di sentirmi viva. “Dove andare?” mi chiese l’aquilone, frustato dal vento, e io gli risposi come ce l’avessi ancora in mano la corda che lo teneva legato:
Perché non t’innalzi
Da solo nell’aria
Senza l’aiuto delle mie mani?
Sei un’illusione lassù
immobile nel vento
Che mi passa davanti agli occhi?
L’ombra di una nuvola?
Il coreografo delle aeree correnti
In un concerto di nubi?
Non parlarmi
non sorridermi
non rispondermi
per dirmi cosa
dovrei fare
tu hai bisogno della mia mano,
affidi la libertà, illusione?, a uno spago
per mantenerti in volo e così, mai
scendere a toccare terra e acqua
sostanze ora pesanti sul mio cuore…
Ma poi vidi una bambina
Che scalciava nell’aria
Un’immagine riflessa
Di tempo addietro
Che rideva e correva
Nell’erba ventilata e spariva
In uno specchio evanescente.
2 -
Parlammo così, in giorni ormai lontani, legati da una corda che se avessi lasciata andare, avrei poi rincorso, spaventata di averla perduta. L’antica immagine di me traspare e non se ne va. L’immagine di una bambina felice che andava con i suoi nonni a vedere Hansel e Gretel. Accade così quando mi parlo, anche se il volo intrapreso è lontano nello spazio e nel tempo; mi parlo per vivere e per rivivere; e, camminando per il prato o davanti al mare, non rinuncio a chiedere ancora, dinanzi a “un sopravvivere passivo che non assomiglia in nessun modo alla vita”,
Quando ritornerai?
Quando lascerai quelle nuvole
Che coronano tristi l’orizzonte?
Il vento spira e lo sento
Come vento di anime compunte,
Le onde frangono la battigia
Come rumori
Incapaci di chiare parole,
i pensieri sono granelli di sabbia
che una mano misteriosa
getta in una clessidra infinita
la stessa per noi tutti
che viviamo e passiamo
E continuo a parlare, a raccontare una vita che fu, senza appellarmi mestamente al passato, solo quello noi uomini abbiamo serbato? No, oggi ho visto un fiocco di neve che si staccava dai tuoi esili capelli neonati e volava nel vento, ma una volta, mentre eravamo all’appello, misero un neonato in un sacco, lo lanciarono in aria e il plotone della SS avrebbe dovuto colpirlo al volo. Ecco, allora un invisibile filo si sciolse da un rocchetto tra le nubi, sembrava così candido quel fiocco contro il corvino degli esili capelli e allora chiesi:
Dove vai?
Dove vai solitario
tra mille fiocchi
vaganti nell’aria,
mille come te
riempiono il cielo,
ma perché
solo quello che esce dai capelli
mi rimane negli occhi?
3 -
Oh si, e se ne volò via lasciandomi sola, non sola, con qualcosa che si potrebbe dire idea, un’idea languida, una flebile idea, un’idea, solo un’idea? No, camminando quel fiocco era un’ombra, un ricciolo, un ricciolo mattutino… ti ricordo Sami, ti vedevo camminare lungo il filo spinato che ci separava nella speranza di incrociare lo sguardo di Lucia. Vedesti un ciuffo che salutava, rimasto da capelli rasati, era lei. Le gettasti al di là del filo un regalo, un tozzo di pane ammuffito, la tua cena, avvolto in uno straccio. Lei lo prese e scomparve. Un attimo dopo ti lanciò indietro lo straccio. Sami, lo apristi e ci trovasti due tozzi di pane. (Il Corriere, Massimo Gramellini) Non ti vidi più Lucia, ma l’idea di te mi rimase, e comminando lungo il filo spinato, mi vennero queste parole, parole adolescenti, parole che ancora cercano e trovano tracce di umanità: camminando avanti e indietro nel terreno antico, come non sapere che c’era un ciuffo, un ricciolo,
come non sapere
Che c’era
Una ragazza
Dietro a quel ricciolo?
E poi e poi, mi venne da dire ancora:
come non sapere
Che c’era
Un ragazzo
Dietro a quel ciuffo?
E poi, la tentazione di vedere una storia svanì, ah si, ma una conclusione vorrei vedere, un passato, un presente e un futuro, e allora stringo in mano la fuga del tempo, come stringo la corda del mio aquilone per non perderlo e invano inseguirlo in sconosciute regioni del cielo. Non ho mai pensato a voi come vi penso intensamente ora. Desidero vedervi sempre, perché voi siete il mio “paradiso perduto”,
una ragazza e un ragazzo
si alzarono al mattino
e, in fondo all’assolato pomeriggio,
finirono a guardare
la luna d’argento.
4 -
Sono storie da portare per il mondo? Me lo chiedi tu Luigino (Ferri) nascosto e protetto dall’amico dottore che ti ha tenuto con sé come portaordini dell’infermeria, sempre, mai allontanandoti da sé, Otto (Wolken) disse: “Ho avuto un figlio, un figlio del lager… non si è allontanato mai da me giorno e notte”. la prima notte dopo anni in un letto con lenzuola bianche, Luigi lo abbracciò all’improvviso, pianse, sorrise. Lo vide per la prima volta senza paura. Da allora, Luigi scelse il silenzio. Oltre alla testimonianza al tribunale di Cracovia, ci restano il racconto su “Frei Welt” e il suo desiderio di rimanere, pur essendo ancora vivo, nell’ombra. (Frediano Sessi). Nell’ombra come Zofia, Flora e Carla, tranquille, ubbidienti e silenziose, invisibili, condizione indispensabile per la salvezza. Sopravvissute. Attraverso le loro presenze, tutti i bambini "invisibili" riacquistano una voce e raccontano il prezzo della loro invisibilità. M’immagino un amico postino, Luigino, Zofia, Flora e Carla, con un fardello sulle spalle che, andando da buchetta a buchetta di ogni casa, di ogni paese e di ogni città, invisibile e sconosciuto, continua a infilare, qua e là, piccole idee, semi che fruttificano e diventano frutti, e va parlando a se stesso, per non mai dimenticare, per ricordare ciò che ogni uomo e ogni donna di buon senno ha perduto di dire alla sua neonata, alla sua amata,
Si, sono lettere
D’amore
Ma sono lettere disperse
e nessuno
saprà
se arriveranno, a diventare frutto
così
lungo questo Stivale alberato
spargo
temi d’amore, lettere,
accenti,
apostrofi che saltano
da un pensiero all’altro
tra nomi senz’articoli
come barche senza remi
e verbi senza temi,
solo desinenza
di una nuova
esistenza?
Il postino trovò un giorno un porta chiusa e non c’era verso di poterla aprire. Provò con molte chiavi, provò con un grimaldello, ci provarono il vento e il sole, senza riuscirci, ma per la finestra entrò una banda di ladruncoli senza umanità e la porta come per incanto, si aprì. Uno dei ladruncoli gettò via un tozzo di pane secco “senza baciarlo”. Si, una bambina nel ghetto di Varsavia riuscì a rubare un pezzo di pane. Decise di non mangiarlo subito perché voleva annusarlo, immaginare che sensazione avrebbe potuto avere assaggiandolo, ma poi è arrivato un topo o un gatto e glielo ha portato via (Etgar Keret). La casa rimase vuota, e il postino non lasciò niente alla porta. Continuò a camminare, da via a via, da strada a strada, sperduto, non riconoscendo i luoghi attraverso i quali passava; passavano invece, davanti ai suoi occhi, luoghi che erano diventati non-luoghi, non-credibili, non-dicibili, un qualcosa che c’era e non c’era (Gian Antonio Stella). Attraversò una grande sala, una stalla, per migliaia di persone, senza una parete, senza pannelli, senza porte. Vide un vecchio che spazzava il cortile, lo guardò con occhi pieni d’amore come fosse il padre, il giorno dopo non l’avrebbe più rivisto, massacrato perché “non aveva messo l’immondizia nel punto esatto che gli era stato ordinato”. E vide uomini scortati dalle SS con i mitra puntati. Una vecchina ci stava seguendo, indossava sopra la gonna un capiente grembiule. Ogni tanto guardava uno di loro e sorrideva. Gli sembrava di vedere la mamma. Tirò fuori dalla gonna un pezzo di pane nero e voleva offrirglielo. Lui le riposi di no, cercando di farle capire a gesti che rischiava che la uccidessero. Lei alzò le spalle e insistette. Allora si guardò attorno e lo prese, e lo mise sotto il cappello. Ma una SS li aveva visti. Sentì la raffica. La poverina rimase là, nel fosso. Gli sembrava di avere visto la mamma. (Enrico Vanzini, Dachau 123343) Il postino continuò a camminare senza annunciare un futuro, senza una meta, camminava, una gamba dietro, l’altra avanti, quasi fossero straniere l’una all’altra e non gambe di uno stesso essere, e lui non più un uomo di una comunità di esseri umani, e una gamba disse all’altra:
Ho camminato così tanto!
Ho camminato anch’io!
Ho riposato quando tu hai riposato, vero?
Ho trascorso tutta la vita
Con te… ma non mi hai mai ringraziata.
Anch’io,
Ti ho accompagnata sempre
Sempre,
Quando ero davanti
Tu eri dietro,
Non ti ho mai vista in faccia
E neanche tu, vero?
Ah! Ora capisco
Perché
Non ci siamo mai ringraziate.
Inciampavamo ad ogni passo?
Cammino così, senza storia, sussurrava il postino, senza una storia, finendo nella trappola di una storia che segna il destino, una storia di orrendi luoghi non luoghi, di mete non mete. Inciampo a ogni passo, ma le pietre danno un senso alla mia memoria che deve rimanere viva “un monito per tutti affinché certi orrori del passato non abbiano modo di ripetersi» (Vera Mantengoli). E poi, non avendo più lettere e cartoline nella sacca, il postino ebbe l’idea di fermarsi sotto un albero, dove sentì un’aquila e un corvo in gentil conversazione. Che cosa stanno dicendo quei due colloquianti improbabili? L’una abituata alle grandi altezze rocciose e l’altro ai rami bassi degli alberi di pianura. Il postino si fermò per farsi un’idea e ascoltò l’aquila che rimproverava al corvo,
Non gracchiare!
Vuoi che me ne resti in silenzio,
Signora aquila?
Oh no, squittì l’aquila
Voglio che parli,
conoscevo un tuo amico
che riusciva a pronunciare parole vere
diceva: “paloma”,
tu ci riesci?
E prova a dire “ti amo”,
mi piacerebbe sentirti parlare
come una vera creatura del buon Dio
invece di sentirti gracchiare.
Oh, signora aquila,
Hai ragione,
Lui sapeva dire
“paloma”
E anche “ti amo”
Ma non riusciva più
A volare!
Era diventato,
Come potrei dire,
Un semplice essere umano.
5 -
“Ah! Un semplice essere umano!” esclamò il postino. Finalmente la verità! Una verità! Domande, bisogna farsele anche se non c’è risposta, e ti rimane solo un’idea: essere una cosa e non un’altra, essere quello che sei e nient’altro. Essere, essere… cambiare, diventare? Seguire nel silenzio del tempo i pur illusori segni dello zodiaco, il naturale susseguirsi dei mesi, in un cerchio che ripete con la Natura vigorosa l’aprile, quando si piantano gli asparagi, il marzo quando l’insalata, il maggio quando i pomodori, e poi il tempo dei piselli, dei carciofi, del popone e poi delle beccacce, dei tordi, e poi l’uno prima e l’altro poi… un prima e un poi, un tempo per noi, per esistere e capire, e allora, piccola mia neonata, vorrei tenere in mano il gomitolo di filo legato all’entrata del tetro e infido labirinto, ma un filo di vita non fa la tela, il filo è solo una linea sottile, un nome su una lapide, non una tela su cui leggere le parole promesse al mio cuore d’Arianna,
Chiedi se la primavera
diventerà estate
E se l’autunno
Sarà inverno,
Cosa significa per la tua vita?
Se dopo la notte verrà il giorno
E dopo la siccità la pioggia,
Se dopo il male il bene
E dopo l’odio l’amore
Se così fosse,
Che cosa chiedere di più alla morte?
Cosa chiedere di più alla vita?
Quali parole scegliere
A cui affidare la vita?
Parole lette su ondeggianti nubi
O scranni di roccia.
E’ la pietà
il frutto della notte
E l’orgoglio
quello del giorno?
Quanti fiori di pietà
Fioriscono di notte
E quante lame d’orgoglio
Li recidono di giorno?
Andiamo
in pianure desolate
e misuriamoci col vento
sotto ali di grandi nubi
tira fuori l’anima
e vediamo cosa dice il tempo,
nel suo cilindro invisibile
sta la verità.
6 -
La verità, sempre la verità! Ne abbiamo paura noi uomini e donne, a ogni angolo di via, a ogni incrocio della vita, non abbiamo idea di quello che siamo, di quello che vogliamo? Ma sì, piccola cara, ho imparato a non fare domande, a reprimere ogni sentimento, a sopportare il dolore, ma alla fine c’è la speranza che una piccola protagonista, grazie all’umanità di chi la incontra, di chi la nasconde e la salva, ritrovi la madre e la famiglia perdute. Lo lascio dire a te che sei una piccola idea, che tutto puoi ancora essere e che parli come un bambino a qualsiasi altro bambino; ti presto le parole, a te che sei appena venuta al mondo, per me per dormire in pace, e così ogni sera ho una sinfonietta in DO minore senza inizio e senza fine,
Cose volanti
sempre in cielo
Cose pesanti
Al cuore della terra,
Cose leggere
sotto un esile velo
cose gravose
fiori di serra,
cose lievi
ali d’aliante
e cose noiose
come un plumbeo mare,
cosa eteree
come veneri citeree
e contromano
come le reti di Vulcano,
cose volubili
come sogni non sognati
e fugaci
come la felicità
cose rapaci
come la falsità,
quante cose ci sono al mondo,
amico mio,
facciamo chiarezza
ma con leggerezza,
incontriamo
la signorina
fata turchina
e il gambero cinese
alla maionese,
cose segrete
e cose palesi
sfere cretesi
e chicchi d’uva,
uomini piccini
come i soldatini
e grandi
come anime pensanti,
parole belle
come ruba-soli
e parole giuste
come gira-soli,
Quante cose ci sono al mondo
Amico mio
Tiri lo spago
E non ti senti pago,
Non dirle tutte insieme,
Amico mio,
paventiamo
Una cosa
Che si chiama addio.
“Ti va bene? Ti è piaciuta, si o no?”. Ricordo un bambino che chiedeva per la prima volta: “si o no?” ed era davvero la prima volta che si divideva il suo cuore, e non sapeva davvero cosa dire e cosa fare e diceva cose che mi sono rimaste nell’animo e hanno formato un po’ dell’idea che sono, non me le sono dimenticate e mai le dimenticherò. Era un bambino che parlava una lingua straniera ma io ho ascoltato e mi sembrò di capire tutto, ogni parola e ogni sillaba e ogni rima di quei versetti che come un chierichetto andava ripetendo come fosse latino davanti a un altaruccio, le solite incoerenze, invenzioni, direte voi, facce di luna a nascondino dietro le nuvole, posate d’argento, danze nel ricordo di uno sposo, monete, immagini… infine in un luogo chiamato “Canada”, il mercato della vergogna dove si vendevano oggetti preziosi, denti d’oro, abiti e scarpe delle vittime, in cambio di cibo. Nulla rimane di “quello che sei tu, o della persona che eri prima di entrare qui”. (Guido Bergamasco 16924). Balliamo, balliamo senza paura, preghiamo come mormoranti suore incappucciate, siamo come petali di margherita perduti nel vento d’estate… è tutto dentro di noi, nella nostra comune memoria, e al cuore della memoria la paura, di doverci difendere, di dover ancora fuggire. Ma, con le nostre ferite inguaribili, saremo “l’incarnazione dell’ottimismo della volontà, del volercela fare a dispetto di ogni tragedia e avversità.” (Corriere, Gian Antonio Stella). Non abbiamo paura, anche se la luce se n’è andata per sempre, Si o no? Yes or no?
was it yes, was it no
was it happiness
or woe?
7 -
E’ vero, parlo tra me e me, passano su di me disegni, immagini, ombre, non ho nessuno a cui parlare, qualcuno per il quale farli diventare reali, ho solo un’idea, una semplice idea, ma mi immagino di avere un cuore e così pensai di rispondere a quel bambino che si trovava tra il si e il no: rimarrai esempio e memorabile immagine: come “La bambina con il cappottino rosso” (Kate Hamer)… e pensai di rispondere, certo, con un mazzo… si, di baci, non cacciatemi dalla testa come fossi una strana idea da non prendere in considerazione, perché
“quando ero una giovane idea,
ho visto sulle tue labbra”
un cumulo di baci, così numerosi che non ne volevo perdere nessuno e poi li persi nel cuore, li ritrovai in tasca, li avrei potuti vendere per denaro contante, avrei potuto metterli banca per guadagni futuri, avrei potuto buttarli al vento come fossero ali… e poi - anch’io “un’anima infantile col cuore ferito” (Edith Bruck) - mi chiedevo come per gioco, per un immenso gioco: Dove sono, dove sono andati, dove?
Sono tra terra e cielo
Dietro ad ogni passo
Dove tu amavi camminare
E i tuoi occhi sostavano
Su fiori a spirale,
la terra era tua
la portavi come un abito da regina
con balze sul petto,
questo sentiero tortuoso
che fiancheggia il cielo
come il farfallino di un amante
su un valico montano,
questa sorgente verde
e gialla, quei pini
in lontananza, c’è ancora silenzio
e mistero della sera tra le chiome?
Vedo il tuo passo leggero
Come sogni d’aracne
Nell’erba bagnata sotto
Un sole ridente,
ma dov’è il sole
che conoscevo
e correva lungo i corridoi
del cielo?
Il bacio della notte
Se n’è andato
Affondando all’ovest nelle ore ormai rugose,
cos’a c’è tra i baci?
Il bacio del giorno
Profuma ancora di fieno
Tagliato e disteso
Non del tutto rinsecchito,
che tristezza arriva
dai fiori dell’erba filati
al raggio di un sole ridente!
Quand’è che la nave del mondo
Salpa
Quando ricomincia il viaggio, amico mio?
Il bacio rotondo
Come la lente di un astronomo
O una goccia di rugiada
Riassume la vita
Che vivrò con te,
ma la gioventù se n’è andata
mentre cadi e ti rialzi
quando ridi
al sole che ride
quando la roccia dal gentile sassafrasso
è spezzata
che nemmeno Ercole avrebbe potuto frangere.
8 -
E’ solo un’idea, una strana idea, che i baci fuggano, ritornino, s’allontanino e si perdano, ma ci sono sogni che i baci ispirano, visioni che i baci richiedono, unioni che i baci consacrano, storie che i baci suggeriscono, sono memorie che vincono sul tempo, memorie a cui attingere, memorie contro la “complicità ottusa e silenziosa verso un sistema che sterminava innocenti” (Alessandro D’Avenia), memorie che salvano dalla violenza, memorie che uniscono, memorie per la mia bambina, Aurelia, e per ogni altra bambina del mondo, e separata dal mondo, racconto così la mia speranza:
Tu che vaghi di notte
Senza sosta e senza meta
Tutta sola
Cara stella
Arrivi tu?
Tu che dai confini
Del mondo
Vedi la luce
Che arriva ai confini del mondo
Grande e buon natale
Arrivi tu?
Tu padre, tu madre
Vaganti nella notte
Sperduti nella notte
Nella capanna
Nato come il grano
Sono io
Tu che sei nato
Come verde grano
Nel buio della notte
Dalla luce delle stelle
Per noi
Vieni tu?
Per te anima errante
Uomo vagante
Scendo come neve
Sul verde grano
Madre mia, padre mio
Nella capanna
C’era dio.
9 -
Per la mia speranza, e quella di Padre Placido il “frate zoppino” di statura gracile e mingherlina, “martire francescano della carità e del silenzio” (Giorgio Laggioni e Piero Lazzarin); per la speranza di Diane che si adattò a fare tutto quello che facevano gli altri bambini di casa e imparò subito a parlare italiano. Per una bambina e per ogni bambino. Nel museo Antoniano, un Reliquiario Testimonianza di Paolo Marcolongo contiene “schegge del muro del bunker in cui Padre Placido fu imprigionato a Trieste. Si tratta di una ampolla di vetro rosso soffiato, sostenuto dalla mano di un putto in argento che tiene, con la sinistra, un bianco uovo, simbolo della perfezione”. (Il Gazzettino, Ines Thomas). Tra il verde grano per tutti voi sbocceranno fiordalisi dal colore così azzurro da confondersi con il cielo, sfacciati papaveri rosso porpora, fiori di camomilla gentili e profumati, scabiose da sempre innamorate delle farfalle, spunterà il violaceo gittaione. E ancora la vicia sativa, conosciuta come la veccia dalle tonalità fucsia, il crisantemo, il rafano e la salvia, il plantago lanceolata dalle orecchie di lepre, il ginestrino e la lupinella. L’idea mistica dell’unione di un’idea e del suo giardino, prende forma, prende corpo, ma dove sta la verità? Sta nelle domande che svaniscono nei colori, sta nelle voci che svaniscono al mattino, e tu ti rivolgesti a me, ancora una semplice idea dentro di me, e davanti al confine che ci separava dal mondo, davanti a un tempo di attesa, tu
M’interrogasti sui colori della vita
Come fossi uno scolaro
E tu la maestra venuta da lontano
Pronto a rispondere, persino ad amarti
Per un pezzetto di verità
Pensavi che potessi subito dire
Che l’azzurro è tra i colori il più bello
volume di zaffiro
dell’arco celeste
di cui l’alba si veste,
il colore dell’animo, dicesti,
senza nuvole,
della mano senza dolore,
E io invece volevo chiederti
Di togliere i colori
dal mondo
Oh, sì, di toglierli dal mondo!
Allora dicesti che il rosso
è il colore che dà vita e vigore
il segno dell’amore
Fiamma e tepore
Coppa all’alba
di ferruginoso vapore,
Oh, sì, mi dicesti che
il verde di prati sempreverdi
era il colore più vicino
Agli occhi dell’anima,
Oh, sì, la speranza ha fior del verde!
L’impazienza della felicità.
Dicesti che il giallo
era il colore dei teneri germogli
teneri teneri, di limoni e gigli
di giaggioli
e fiori di tigli,
la tenerezza d’ingenui artigli!
Pensasti all’arancio,
dorata fiamma di salgemma,
piccoli soli di screziate melegrane
appesi a mezz’aria
ad esili rame,
Oh, sì, illusioni d’estate!
Era il violetto, dicesti,
tenue e vellutato,
il colore che volevo,
il viola d’amore
la materia del cuore,
laggiù all’orlo della sera,
lumi a primavera!
Ma io alla fine ti chiesi
Di togliere i colori dal mondo
Oh, sì, perché non vi restasse
Armonia,
E quando non ci fossero colori
Pensai che così il mondo
ridinventasse puro
Cominciando tutto da zero
Vedendo solo nero,
Tu te ne andasti, amica mia,
Alla portoghesa
Portando con te
Uno strascico di rosa.
10 -
Occhi, voci… strette, baci, ombre da trasfigurare in trasmissioni continue del pensiero. La trasparenza dell’anima si colorerà del mondo, del mattino quando sorge il primo sole, laggiù, tra qualche nuvoletta che se ne fugge o si raddensa. Quelle che vedeva Gioacchino Campagnolo, mezzadro di Resana. Era stato ucciso un militare tedesco e presero mio padre perché lavorava lì vicino, gli chiesero di scegliere l’albero a cui voleva essere impiccato. Servono le parole? E, allora, camminando su sassi aguzzi, sull’erba coperta di gelo o di rugiada, mi chiedevo dove andrai e cosa farai, piccola anima, mi chiedo ora se mettevi ordine ai miei pensieri, se devo a te l’ordine dei miei pensieri, la forza di vivere un prima e un dopo, la certezza di un ieri e di un domani,
Il mio essere è volatile parola,
e mi chiedo se la natura
colora i miei pensieri
finché una sillaba rimanga
per un brandello di pensiero
o se questo si compia
quando è tutto parola
nulla d’essere rimanendo,
eppure il sogno d’amore di questo terreno giardino
è che le promesse si raccolgano al soffitto del cielo
e alle cime degli alberi
verdi come ogni getto rinverdito
del mio pino austero.
Se è dato per natura di rimanere assieme, rimarremo
Ma se guardi la natura ci leggi il mio cuore?
Nei primi passi, nelle piccole mani, negli occhi socchiusi, sei tu che ordini tutto quello che i sensi ricevono, sei tu che trascendi questo loro fluire ininterrotto, sei tu che non mi fai essere mai semplice natura, e allora entrai quasi adolescente in quel luogo di mestizia e, anche allora,
baciai il vento amoroso
Che toglie il respiro, e ricordo
petali e fiori che porteranno frutti
Nella stagione, e ricordo
I miei passi da lucertola
Lungo i prati verdi
Dell’immaginazione
Verde verde il mondo
Rideva nei miei occhi
E ora,
e poi braccia distese
come rami di alberi d’inverno
nutrivano speranze che io
catturai in un valentine quando
una galassia di foglie, germogliate
alla notte,
diedero il benvenuto al mattino
con un gioioso saluto
ero lui colui, prego,
ero lui colui?
E ora,
E poi ho abbracciato ogni
Sorta di idealismo,
tutte le bellezze sulle quali danzarono i miei piedi
le strade del pensiero,
dove la verità è la verità, e pura
è l’acqua che sgorga
da ferite terrene,
non è necessaria alcuna prova per il pensiero
io adoro la luce stellifera
dei tuoi fianchi
e le costellazioni che ruggiscono nel cielo
come bestie
raccolgo amore e paura
e ora,
e poi ho accolto tutti i pettirossi
in un unico volo
e i cucù e i merli
singoli, in coppia e in terzetti
aprii le mia braccia in un abbraccio totale
gioii nel cuore, aprii la mia porta
alle ali che adoro,
e ora,
11 -
Il poeta e l’amore, sono loro che guidano la vita? Sono i baci l’ultima terra alla quale approdiamo? Mentre cammino oggi lungo il fiume Musestre, accanto alle anatre che s’inseguono già inquiete obbedendo all’imminente primavera, loro, e noi? Lasciami, Aurelia, una licenza, lasciami la libertà di dire, di suggerire, di rivelare i miei pensieri, di dire cose che sembrano adesso lontane, che appartengono alla mia adolescenza, prima che la libertà mi fosse negata; allora sentivo che aveva un senso chiedere a chi amavo: Perché baci la fronte quando non sai ciò che penso, perché baci così i miei capelli? E ora direi: baci pensieri che non sai, come una madre dovresti baciare che conosce i pensieri del figlio fino nelle remote caverne dell’anima attraverso giovani occhi quando tutto è limpido e sincero e si vedono guizzare lampi di luce e pesci colorati nell’acquario del suo cuore. Baci senza davvero sapere i miei pensieri di paura e d’odio, sono baci che si perdono come una folata di vento tra i capelli… così discettiamo sui baci, su quelli che vogliamo e su quelli che non vogliamo e allora,
sono quelli
I baci che amo,
mai ancora dati, mai sentiti
Scorrere tra i capelli
come dita invisibili si aspettano,
ancora irregalati
Inesplorati, come un pensiero sospeso,
Senza peso, come labbra socchiuse
E mai chiuse, come aliti di brezza
Svaporanti tenerezza,
baci di pensieri
Che lontano dalle leggi del mondo
S’immaginano veri
Più forti della guerra e più tenaci
Della pace, quando la guerra è pace
E la pace assorbe in sé la guerra,
Madama fortuna li conduce
Nel presente, nel futuro
Delle battaglie della vita
Il bacio è una sortita
L’ombra di un cecchino
Che passa sulla fronte
Che scorre nei capelli
Di un fatidico cammino.
12 -
Fare la mia parte di madre mi faceva sentire viva. E così, in quei momenti lontani e così dentro, ancora, la mia anima e la mia coscienza, ho rappresentato davanti a me la volontà di farcela “a ogni costo, contro ogni tragedia, ogni sfiducia, ogni minaccia”. Senza fine, senza compromissioni. Ti parlo adesso come fosse allora, ma io sono ancora in quei momenti di morte e di terrore, in quei momenti in cui il mondo appare orrendamente diviso e allora s’alza una supplica, una preghiera a te rivolta, di “non lasciarmi mai”, di “non dimenticarmi”, di non pensare al tempo come a qualcosa che se ne va e scompare dietro la curva di un torrente; non dimenticarmi, posso descriverti quello che sento, posso farti sentire il mondo diviso, come io l’ho sentito, come ancora mi lacera l’anima,
Cos’è più aspro
Di un incastro tra cose non allineate
Tra tempi diversi,
discordi volontà,
Tra il presente e la memoria,
Quando col sorriso dell’alba sulla labbra
Dico “io sono sempre”
E quando con il raggio della luna nello sguardo
non lo sono,
quando dico con una mano colma di frutti
“ti amo”,
sai che non si dimentica
l’amore
anche quando si crede di vivere
e si muore
con la mano della nuda cruda verità,
quando penso che sarai
una persona nuova
e mai smarrirai
l’anima che volava alle parole d’amore
che incendiano il cuore,
quando l’angoscia
m’accecava la mente al pensare al tuo volto
come volasse via,
sublime tortura
sei foglia nella foglia
e fiore nel fiore,
quella d’un tempo quella persona amata
rimarrà
il mio destino.
13 -
Certo un’idea, solo un’idea, piccola, pallida, quasi invisibile, nascosta nei recessi della mente o dove? In grembo? Un’idea che prende colore dal mondo, dalle cose, dagli esseri che incontra, certo un’idea è la cosa più fluida e languida che esista, la lasciamo volare in cielo? La perdiamo nell’aria, la coltiviamo d’esperienza come un bravo giardiniere d’orchidee? E poi non sappiamo dove vada un’idea, ha una direzione, ci costringe a seguirla? Dove ci porta, in quale mondo? Cosa mi saprà dire, quando sarà nata, il suo insistente vagito, quale immenso viaggio saprò rappresentarle e lei quale immensa storia saprà raccontarmi, la condivideremo, sarà sua e sarà mia, sarà di entrambe e io potrò dirle parole come traccia di un viaggio tra città distrutte, strade perdute, sentieri nascosti, incolte boscaglie, fiumi, mari… “in una natura trionfante nella sua bellezza silenziosa. A piedi, su carretti improvvisati, su imbarcazioni di fortuna lungo il corso maestoso del Reno scuro con macchie argentate nei punti in cui il sole colpiva banchi di piccole onde tremolanti. Intorno campi verdi e qualche sparuto animale che pascola mansueto. Il contrasto non potrebbe essere più netto”… una bellezza che la mia mente trasforma per te in favola come io fossi un novello Aladino e il mondo si aprisse per magia di una lampada, una favola che tutti unisca e per questo mi lascio andare, gioco con te e con le parole, che non sono mai avulse dalla vita, “qui si potrebbero scrivere delle favole”, annotò Etty Hillesum ad Auschwitz, chiedendosi come raccontare la follia della Shoah... assieme a un “gruppo di internati ebrei – comici, attrici, cantanti e ballerine – che mise in scena una lunga serie di spettacoli di cabaret, per intrattenere gli aguzzini nazisti ed essere risparmiati dalla deportazione, e per concedere un’ora di conforto ai compagni di detenzione…” (Federico Baccomo); e ricordando la storia del pugile Johann Trollmann, reo di aver sfidato il Reich presentandosi sul ring nel 1933 con il volto cosparso di farina e i capelli tinti di biondo, deportato e ucciso nel campo di Wittenberge il 31 marzo 44. (Federico Fioretti, Il Gazzettino): trasformo il mio dolore, mi sentirai e seguirai?
Non sono scesa nel mondo senz’aria
a cercare diamanti
Ma ti ho regalato stelle filanti
Rosse al tramonto
E scomparse al mattino.
Non mi sono immersa
per leghe d’acqua marina
A prender conchiglie
e splendide perle,
Ma ti ho regalato
gocce di rugiada
sfumate al caldo del sole
Come un sogno d’amore.
Non sono andata con Jules Verne
Al centro della terra
Né con Enea all’Averno
Ma ti ho portato
da buon pellegrino
umili ostie e vino
Falerno
col sorriso dietro agli occhi
fiordaliso
guardai nel tuo sguardo
la via che asìntote non fosse
in Val d’Inferno.
Non sono una capitana di marina
Che prende il largo
con il vento e con il sole
Che verso nuove mete spinge
El Vagamundo
per te virando tra isole
di nere foreste primitive,
Arrivo anch’io con un saluto
Salpo anch’io col vento
sento anch’io della tenera ora
il turbamento
e della sera al dolce navigar
il sonno
In me dilegua ogni sorriso
E intenerisce inevitabilmente
Il core.
Sarei salita in cielo
Fossi santa o profeta
Se avessi la lingua frivola
Del chiappadiavolo
E apostata,
mi fermai invece a un rivolo
E monaca neofita, non solo
Mi bagnai dell’acqua
D’amore il capo,
ma lanciai una moneta
per sapere,
acqua mia cheta,
ciò che la fede non puote.
Insomma, mia cara, per far finita
Scorgiamo un sorriso, e questo tributo
Buttalo dentro a un imbuto,
un tagliapasta, una ghigliottina
e fanne una polpettina
di fiele e d’amarezza
anche se fuori il sole splende chiaro
e porta per il mondo il girotondo
di gioia e di dolor, d’amore e pena
che sono gli anelli
di una solida catena.
14 -
E’ così forte la Fantasia da vincere su qualsiasi disgrazia! Ci fa vedere cose che non avremmo visto mai, ce le fa immaginare, ci fa immaginare luoghi che non sono ancora percorribili e, così, sopravviviamo seguendo un’idea, una piccola idea, pallida, trasparente e fantastichiamo con la speranza che vive in noi, che prende i colori del mondo. E’ forte la Natura tanto da vincere su qualsiasi disgrazia. Trovavo in me ricordi famigliari, nomi di nonni e nomi di zii: la forte Natura mi faceva allontanare dal deserto della solitudine, che per me è l’inferno. E allora, ora, davanti a un prato verde, al ciglio di un fiume, a un groviglio di rami,
Mi chiedo se la Natura si colora dei miei pensieri,
Sono io natura o sono i miei pensieri
Come tenue verde esangue
Delle prime foglie, che s’insinuano tra i rami?
Crescono i pensieri come cuculi,
Come le foglie del calicanto
Sbucano da groppi nodosi sul ceppo
Robusto delle ossa
Uscendo dalle ferite invernali dei rami
E sono ancora gelidi pensieri
Segnati di memoria
Crescono tra i fiori rapidi della magnolia
E cadono sul tappeto del vento di marzo
Scivolano sulle flessuose erbe di aprile
Alla danza dei merli
E ai loro infiniti strilli d’amore.
15 -
Quelle immense, improvvise cadute di foglie, so già com’è l’autunno, le ho calpestate quelle foglie, hanno attutito i miei passi, sono state amiche calde e comprensive, conosco quel senso sperduto che allaga il cielo alla luce saettante del sole, traversa agli occhi, e la terra acida e l’erba lucida di rugiada nelle membra di settembre, in una terra lontana penetra il senso della fine, ma cosa mi fanno leggere ancora oggi: gli araldi del sonno sono questi giorni assolati che frenano le nuvole come mostri in agguato sui monti… “vedete quel fumo? Il nostro nome è già scritto lassù” in cieli meno tersi i venti fra poco scorreranno la pianura e verranno ricordi, ma adesso è silenzio e luce dorata e ogni foglia ricorda, ogni fiore si piega e i gambi lentamente recedono nel terreno e mentre il buio li affloscia sul far della sera vedo una primavera, vedo la mia terra, che la tua anima la raccolga, che si ricucino i fili spezzati dopo lunghi cammini e grandi assenze, rimarrà un segno dopo tanto cammino, dopo tanto fuggire da inverni lontani, il giorno arrivò di riconoscere terre conosciute, arrivai davanti ai nostri monti e dal cuore mi uscirono parole che dedico a te, Aurelia, tra le mie braccia,
Ritorno alla mia terra
Le braccia di monti all’orizzonte
Si tendono come braccia di madre,
Le punte bianche che si elevano
Isolate, dietro, più lontane, allungano
Lo sguardo,
ritorno ai miei torrenti
Ai tremiti di fronde, ai gelsi bianchi
Ai lunghi ponti su fiumi sassosi
E caldi d’estate, al tempo cangiabile
delle basse Alpi frustate dal vento,
alle gelide mattine,
Ritorno alle mie vie, ai ciottoli per le strade
Ai muri di sasso, agli angoli improvvisi
Da dove s’apre un riquadro di cielo
Per un falco che vola, agli stracci di nuvole
Stese ai piedi dei colli, ai cortili tra case
Racchiusi, intravisti in un caleidoscopio,
quanti camini in cielo ardono!
sentori di pino e di rovere
che le narici prendono e il cuore,
ritorno da te, terra di rogge e di torrenti,
piccola terra, per la pace,
quanta solitudine massicce montagne
m’ispirate da lontano, così ho vissuto,
Altri mondi non sono stati miei,
voglio rivedere le curve del torrente Natisone
per il buon tempo di magie
come l’antico Giasone alla ricerca di velli d’oro,
e su campi curvi lievitanti e pregni
come un viandante, che pur saprebbe
Dove andare senza ritorno,
Che se prende un viottolo a fianco del prato
Si perde nell’ombra e nelle siepi
E tra grappoli d’uva fragola, vede piccoli dèi verdi
Sorridere nelle vaghe nebbie al giovane mattino
Mentre i venti dalla terra scura
alle bianche imprendibili cime
lacerano le porte del cielo
e tuonano grate di castelli tra le nuvole.
16 -
Lasciamo un’iscrizione, più salda di un ricordo, un segno perenne, uno zampillo d’acqua che scende e si profonde in una polla ferma, trasparente, pura, che ci dà l’idea di eternità, che ci fa essere oltre i limiti del mondo che abbiamo vissuto, in un luogo e in un momento dove ogni cosa si distilla: un sorso di quell’acqua ristorata fa dire parole che mai avremmo pensato di poter ancora dire, immersi nel dolore; lungo le strade dolenti che abbiamo percorso ti penso non ancora nata, Aurelia, un’ombra attesa che parla con tutte le lingue del mondo perché una lingua ancora non ti è data, e così dico quello che in me è iscritto, l’amore di una madre ancora “abitata” da incubi e fantasmi… sommersa dall’angoscia degli incubi: non mi hanno mai abbandonato i ricordi, spuntano quando vogliono. Non possiamo, Aurelia, essere sepolti dalla memoria. L’essenza di te è cominciare qualcosa di nuovo. Un bambino, “ogni mattina, quando si svegliava cercava di immaginare un mondo in cui c’era qualcosa di diverso: che non c’erano i nazisti, che incontrava qualcuno che gli regalava una caramella. Che senso ha fare questo quando tua sorella è stata uccisa davanti a te?” (Etgar Keret). Se sei capace di immaginare qualcosa significa che esiste, quando sei chiuso in un buco nel terreno il conforto migliore è immaginare che ci siano altre possibilità. La letteratura in fondo è questo, immaginare qualcosa che poi succederà. Io rimango, Aurelia, per ricordare, per raccontare, per far sì che memoria rimanga in giovani testimoni, memoria di chi sezionando cadaveri canticchiava opere liriche, memoria invece di una musica d’orchestra, maestro Toscanini, che si eleva in fratellanza universale,
Corrono, oh, come corrono
Le ombre dell’eternità!
Cammina
non come un semplice passante
non permettere a parole vaganti nel cielo
di entrare nella finestra della mente,
cerca il cuore segreto
cerca il mondo completo
dove esista il centro più vero
il cuore da leone, il coraggio
di una tigre, non guardare soli
che tramontano, né i vapori di zefiro
alla sera e quando viene la notte
guarda al tempo che rimane,
dove non ci sono ancora impronte,
là sta il futuro:
una morta crisalide
su un muro abbandonato?
no, guarda a occhi che sorridono, a capelli sciolti
guarda le mani, oh si, le mani
non più ramoscelli flessuosi
ma rami contorti dall’uso
e dal tempo, là potrai vedere
le ombre dell’eternità,
la musica che ancora fanno
è sublime, guarda alla visione
di occhi invecchiati, scopri l’immagine vaga
del dovere in quegli occhi, sono vissuti in solitudine
come i santi del tempo che fu
su montagne spaccate
dove la fuggente luce e la fuggente ombra
scorrono veloci
come fiocchi di neve e scompaiono.
Guarda a un volto appena nato
Il giorno in cui
Si dischiudono rosee labbra…
Perfezione! Per quanto tempo non ho visto!
Per quanto tempo,
stanze vuote di chiostri e mura solitarie
che hanno filtrato aria e colori mutevoli
cancelleranno i segni di passi,
ahimè dimenticati!
Ricorda che sono nato
Un giorno d’estate, di fronte a me
C’era un sogno, che ancora
Vive nei miei occhi
Iscriviti il suo nome,
Tu non sei un semplice passante,
quello che di quel sogno rimane
È eternità.
Commenti
Posta un commento