FILOMENA BOCCHER NEL LAGER DI MITTERNDORF da VERSI IN VOLO
DIARIO DI UNA MAESTRA IN ESILIO NEL "LAGER" DI MITTERNDORF : FILOMENA BOCCHER
La maestra FILOMENA BOCCHER nacque a Roncegno il 4 luglio 1879. Diplomata presso l'Istituto magistrale di Trento nel 1900, iniziò subito la professione di insegnante. Prestò servizio a Monte di Mezzo (frazione di Roncegno), a Viarago di Pergine, a Vattaro, a Mitterndorf (dove chiese di essere assegnata per assistere gli anziani genitori profughi) e a Roncegno, nella cui scuola svolse la sua attività ininterrottamente dal 1920 al 1949, anno di collocamento a riposo. Per i suoi 49 anni di insegnamento il Ministero della P.I. le assegnò il Diploma di prima classe con il diritto di fregiarsi della Medaglia d'oro. Morì a Roncegno il 22 maggio 1968. Con la sua personalità dotata di vasta cultura, di profonda religiosità e dirittura morale, scrisse la storia di anni così tragici tenendo in vita, in quel terribile mondo di sofferenze che fu il "Lager", l'anelito alla giustizia, alla pace, alla speranza, alla libertà, alla patria: messaggio di fede in Dio e nell'uomo per le generazioni successive.
Questo libro è riportato per intero sul sito:
Lenina Boccher ho avuto modo di conoscerla personalmente, quando ci ha ricevuto a casa sua. Una dolce signorina non più giovane, che fu dipendente del Comune di Roncegno per lungo tempo. Filomena Boccher l’ha adottata quando era piccola dandole il suo cognome, ma non conosco come e quando sia accaduto. La famiglia di mio marito, dove il padre svolgeva l’attività di medico condotto, ha avuto modo di conoscere sia Filomena che Lenina. Non conoscevo per nulla la storia drammatica che ha vissuto Filomena, una dolce e bella maestra. E mi sono chiesta il motivo per cui fu profuga, con tanta altra gente compresi i suoi genitori, in quello che lei definisce “Lagher - Lager” in Austria, dove ha patito fame e freddo.
Abbiamo, attraverso il suo diario, uno spezzone di Storia relativo alla Prima Guerra Mondiale, raccontato in prima persona da chi lo ha vissuto sulla propria pelle.
Trovo che il Diario di Filomena sia paragonabile al Diario di Anna Frank, simili seppur diversi, quali testimonianze di una vita che non si può definire tale, tanto è dolorosa, assurda e intollerabile.
Entrata all'accampamento profughi (proprietà G. Cipriani )
L'Italia entra in guerra contro l'Austria.
Incominciano i giorni più tragici della storia trentina.
Dopo il triste viaggio verso l'esilio,
la sistemazione nelle baracche.
I primi patimenti: fame, freddo, angoscia.
Dietro il fronte su suolo austriaco.
20 maggio. Vattaro. Nel villaggio c'è un movimento insolito che sa d' inquietudine angosciosa. Tutti dicono che ci sarà guerra con l'Italia.
Dopo la lezione del pomeriggio mi sono fermata nella scuola con alcuni bimbi che avevano scritto 'troppo male il compitino: forse mai come oggi ho avuto nelle mani pagine così scarabocchiate: s'indovinano le manine sudice e nervose.
Me ne stavo tranquilla sorvegliando i piccoli reclusi, quando l'uscio si apre e vedo papà. Viene a prendermi per condurmi a casa (La famiglia dell'Autrice risiedeva a Roncegno).
Mi domanda: "Non hai avuto nessun ordine dai tuoi superiori? Non sai che oggi i treni cesseranno di funzionare regolarmente, che forse è già troppo tardi per poter andare a casa? Vieni, partiamo subito". Io non mi sono scomposta punto. Dai miei superiori non ho avuto nessun ordine. Sono al mio posto e non intendo abbandonarlo senza il loro permesso. Andrò a casa sabato.
21 maggio. Tutti sono affaccendati a nasconder quello che hanno di meglio
22 maggio. Da Il risveglio austriaco e da Il Trentino si apprende che l'alleanza con l'Italia sta per rompersi. Papà ed io abbiamo riposto le cose che più ci premono nella cameretta più remota. Abbiamo chiusa la casa e consegnate le chiavi al Capo comune.
23 maggio. L'Italia ha dichiarato guerra all'Austria.
24 maggio. Dal Capitanato distrettuale di Borgo m'è venuto un decreto in cui mi si partecipa "che i maestri delle scuole popolari di questo distretto, che a cagione delle presenti eccezionali circostanze vengono chiuse, sono considerati come in permesso, per cui è necessario che la loro dimora sia dietro il fronte militare su suolo austriaco non occupato dal nemico, affinché sia possibile un altro eventuale impiego degli stessi, e la contabilità provinciale possa versare loro regolarmente il salario ".
25 maggio. Verso le quattro ci svegliammo al rombo del cannone.
26 maggio. Di buon' ora dal Pizzo e dalla Panarotta si fecero sentire i cannoni e a brevi intervalli rombarono tutto il giorno, fin verso le quattro. Si dice che gl'Italiani sono a Rovereto. Papà è andato a Borgo, per comperar lastre di zinco, con cui vuol coprire la porta.
27 maggio. Domani devo partire.
28 maggio. Mi pareva di non poter staccarmi dai miei genitori, neppure per poco tempo. Non sarebbero momenti di separarsi dai propri cari! Li ho lasciati con la speranza di rivederli presto. Sono arrivata a Trento verso le 7. Ma come fu triste il viaggio! Mentre Levico era quasi deserto, Pergine rigurgitava di soldati e di gente dei paesi vicini che ivi venuta per i suoi affari si vedeva poi sbarrata la via del ritorno. Dappertutto era un vociare, un lamentarsi a voce bassa, un muoversi irrequieto. A Trento la stessa moltitudine di soldati, ma pochissimi cittadini.
29 maggio. Dappertutto tristezza. Abbiamo visto trasportare i malati dall'ospedale alla stazione. Qui lo spettacolo era ancora più triste. V' era molta gente fuggita da Rovereto e da Mori. Dove erano diretti? Non sapevano neppure essi. Domani partirò per Bressanone.
30 maggio. Bressanone. Sono partita da Trento alle 12 e mezzo col treno celere, e sono arrivata a Bressanone alle 3 e un quarto. Ho subito trovato una stanza presso una modesta famiglia. Il padre fa il portalettere; sua moglie mi usa molta gentilezza e i bambini mi mostrano affetto. Ma io sono triste e angosciata.
5 giugno. Ho letto sul giornale che di questi giorni vengono sgombrati Levico, Barco, Selva, Santa Giuliana, Caldonazzo, Calceranica, Vattaro, Bosentino, Centa, Castagnè, Vignola, Ischia e Tenna.
6 giugno. Sono andata in chiesa e invece di pregare ho pianto.
Tornando alla mia abitazione incontrai più di cento automobili, arrivate allora in città.
Mi fu detto che dovevano servire a trasportare in fretta le truppe sui confini del Tirolo.
8 giugno. Meglio morire di fame presso i miei cari piuttosto che venir a morire di nostalgia in questi paesi.
22 giugno. Stasera si fece gran festa in città. Furono suonate le campane del duomo, la banda militare fiancheggiata e seguita da molti cittadini percorse la città. Ci furono discorsi di non so chi, molti evviva e musica ancora. Pioveva su tanta festa.
E le gocce di pioggia mi sembrava sentirmele cadere sul cuore, quasi fossero le lacrime degli umili prodi caduti per Leopoli. Si festeggiava la liberazione della capitale galiziana, e quella festa mi pareva uno strano ufficio funebre, in cui i versi dei salmi fossero alternati da cupe voci ammonitrici, imploranti, imponenti tregua, pace, giustizia.
E mi pareva vedere le vedove e gli orfani nascondersi nell'angolo più remoto della casa deserta, e piangere senza lacrime, colla testa fra le mani, i denti stretti, e il cuore lacerato.
23 giugno. Oggi la città era imbandierata. I giornali son zeppi di questa parola: Leopoli.
28 giugno. Domani cambierò dimora. Non posso più reggere qui. In casa la signora e i bambini mi vogliono bene, ma il padrone mi urta, pur usandomi del resto molti riguardi. Parla degl'Italiani con gran disprezzo. E mentre io resto offesa, non posso alla mia volta esprimermi come vorrei circa i Tedeschi. Andrò ad Mers (frazione di Bressanone).
Mi si dice che la posizione del luogo è molto bella e che c'è un albergo ove si parla italiano.
4 luglio. Mers. L'albergo dove mi trovo si chiama "San Giorgio", La casa è albergo e canonica e anche osteria. C'è il parroco, una cuoca, una "sottocuoca" ch' è nipote del reverendo, e una cameriera, che in estate sta qui a servire i villeggianti e d'inverno fa scuola non so dove. La nipote del parroco e la maestra-cameriera mi sono estremamente antipatiche, quasi odiose. Dall'alba alla sera alternano il loro lavoro con canti che mi lacerano i nervi e mi urtano l'anima. Cantano sempre invocandola benedizione del cielo sulle armi dei "nostri" e l'attendono con una fiducia unica. E ridono.
Ciascuna di esse ha perduto in guerra un fratello, ma cantano e ridono sempre.
8 luglio. Sono andata a Bressanone ... Di ritorno ero sola. Avevo paura. La strada attraversa per lungo tratto un bosco. Io singhiozzavo, e mormoravo: "Oh, l'esilio, l’esilio!"
17 luglio. Per risparmiare qualche corona devo limitare di molto le mie pretese a tavola. La sera, non posso concedermi che una minestra, e la ricevo lunga lunga. Quasi ogni sera mi corico con un appetito che non mi concilia il sonno.
3 agosto. Dopo un’attesa tanto lunga e angosciosa, oggi ho ricevuto una lettera della mia mamma. Non avevo notizie dei miei genitori da due mesi.
20 agosto. Sono stata a trovare il mio compaesano ... L'ospitale in cui si trova è la casa d'un collegio. Ora ci si trovano soldati ammalati e soldati convalescenti. Mi narrò i suoi patimenti fisici e l'angoscia che prova pensando ai suoi cari. Teme che debbano partire da Roncegno perché ... gl'Italiani si avanzano.
27 agosto. Ho ricevuto la terza lettera della mia mamma. La posta non funziona più in Valsugana per i borghesi, ma la mamma può farmi pervenire sue notizie per mezzo di un soldato.
4 settembre. Comincia a far freddo. Nella stanza del primo piano riscalda la stufa. Ma io sto sempre qui nella mia stanzetta. E i giorni passano rapidi, benché fasciati d'angoscia, di buio, di freddo. Mi rifugio nella mia stanza col cuore grave di desolazione e di disprezzo. Sì, di disprezzo, per questa gente calma nel suo egoismo, fiduciosa nella vittoria, senza viscere di pietà per chi, della guerra cui costoro inneggiano, sente il peso, il danno, lo strazio.
7 settembre. Ho ricevuto una cartolina di mamma da Salisburgo. Han dovuto fuggire da Roncegno (i Tedeschi intimarono ai Roncegnesi l'evacuazione e la sollecitarono gettando, ai 27 di agosto, tre bombe che appiccarono il fuoco nella parte orientale del paese). Li raggiungerò.
8 settembre. Ho letto su Tiroler Anzeiger: (C Roncegno in fiamme)). Dio, Dio! Il settembre. Ho ricevuto una cartolina dalla mamma: sono a Landegg presso Pottendorf, nell'Austria inferiore, in una baracca.
12 settembre. Ho preparato la valigia perché partirò presto, per raggiungere i miei genitori.
13 settembre. Ultima sera. Silenziosa cameretta, addio! Pallido Crocefisso sanguinolento che sai la mia croce, e dall' alto della tua, col capo chino su me, ascoltasti miei singulti disperati, addio! Caro tavolino che invitandomi al lavoro mi rendesti meno triste qualche ora, addio! Povero letto, che sai le ore insonni del mio esilio, i sogni angosciosi, addio! Ancora una notte passerò fra queste pareti; domani me ne andrò sulle tracce dei miei genitori, per la via dei profughi.
14 settembre. Afers, addio!
Per la via dei profughi.
14 settembre. Innsbruck. Sono arrivata a Innsbruck alle 6.
Ho bevuto una tazza di birra e un po' di caffè; poi sono andata alla cassa dove si vendono i biglietti. Ho avuto un bisticcio col distributore, che mi rimproverò di avergli parlato in lingua italiana. Mi scusai dicendo che so poco il tedesco. Pure vedendo che egli non capiva italiano, gli domandai le carte che mi accorrevano parlando nella sua lingua. Egli rispose adirato: "Sie kònnen ganz gut deutsch sprechen; Sie wollen nicht deutsch sprechen!" ("Lei sa parlare molto bene in tedesco; Lei non vuole parlare in tedesco!"). Quasi ridevo.
15 settembre. Salisburgo. Partii da Innsbruck ieri sera alle dieci e sono arrivata a Gnigl stamattina alle 6 (Gnigl, alla periferia di Salisburgo; scalo dei treni provenienti dal Sudtirolo). Alla stazione c'erano due soldati che attendevano l profughi. Il conduttore mi fece scendere con parecchi altri italiani. I soldati ci condussero a una piccola casetta dove si trovava la "Perlustrierungskommission " ("Commissione di controllo"), e di lì ad un misero albergo, ove un soldato mi diede subito un cucchiaione di caffè quasi freddo. A pranzo ho ricevuto una minestruzza lunga lunga e a cena un po' di caffè di cicoria e un pezzo di pane.
16 settembre. Ho dormito tanto male, coricata su di un pagliericcio posto sul pavimento, vestita, in uno stanzone dove sono ricoverate dieci altre profughe. Di notte passano fra i letti i militari che sorvegliano il nostro sonno. Bisognerà aspettare ancora qualche giorno prima che ci trasportino alla nostra destinazione. Ho scritto ai miei genitori che sono in viaggio per raggiungerli.
19 settembre. Sono andata in chiesa per ascoltare la S. Messa: non potevo pregare. Pensavo alla chiesa del mio paese, sentivo il cuore stretto d'angoscia e d'ira.
21 settembre. Linz - Vienna - Pottendorf. Sono partita da Gnigl ieri alle 3 pomeridiane e sono giunta a Linz alle 9 di sera. Ottenuto il permesso di staccarmi dal trasporto degli altri profughi, scesi alla stazione. Un caporalmaggiore (Zugfùhrer) mi guidava dove si distribuivano i biglietti e mi fece dar un biglietto per Vienna. Sono giunta a Vienna stamattina alle 6. Qui i Tedeschi sono più cortesi. Una buona donna mi aiutò a trasportare i pacchi e mi accompagnò alla stazione "Sùdbahn". Giunta a Pottendorf verso le 9, domandai dove fosse l'accampamento dei profughi. In quel mentre, vidi il mio papà che traversava la strada, senza avvedersi di me. Camminava svelto, un po' curvo, ma sempre fiero. Chiamai: "Papà, papà!" Si volse, mi vide, mi corse incontro. Io credevo di sognare. Piangevo, ridevo, guardavo il povero vecchio, esule. Corremmo dalla mamma. Pallida e triste la povera cara sedeva sul suo lettuccio, nella baracca. Fu felice di vedermi, si rianimò tutta. Signore Iddio, Vi ringrazio!
21 ottobre. È un mese che sono qui. Si sta male. E i miei genitori mi dicono che, prima ch'io venissi, stavano peggio. Il cibo è cattivo: a papà fa male, la mamma può mangiar pochissimo. Papà ed io andiamo spesso a far provviste nei paesi vicini (siamo ai confini dell'Ungheria. Andiamo talvolta a Ebenfurt). Comperiamo generi alimentari e qualche oggetto di vestiario presso un negozio di Ebrei che si san mostrati gentili e leali con noi. Abbiamo provvisto un macinino ch' è la delizia di papà, e molte altre cosucce. Nell'accampamento ci sono 40 baracche ma san destinate per i profughi del Litorale, non per noi Trentini. Curatori d'anime: un monsignore goriziano e un Curato di Terragnolo.
28 ottobre. Mitterndorf. Stamattina è venuto un impiegato ad avvertirei che bisognava subito far bagagli e partire per Mitterndorf, il baraccamento destinato ai Trentini. Siamo partiti stasera alle 5 e alle 6 siamo giunti alla stazione di Mitterndorf. Quando arrivammo era già buio. Nessun lume rischiarava la via fangosa; come pecore che vanno al macello camminavamo silenziosi gli uni dietro gli altri. Giungemmo a un baraccone, l'alloggio destinatoci. Si entrò per una porta che faceva paura, si salì una scala stretta e ci si spalancò dinanzi un uscio. Vedemmo uno stanzone, sul pavimento del quale stavano duecento pagliericci disposti in quattro file. Bisognò entrare e starci 223 persone. Deponemmo mesti i nostri bagagli e ci sedemmo sui pagliericci. Ci portarono un pò di minestra, e poi coperte. Il frastuono era indescrivibile; il pavimento traballava. Abbiamo domandato quanto tempo dovremo fermarci in questa babilonia, e han risposto: "Due o tre giorni".
7 novembre. Da undici giorni languiamo in questo "stallene". La mamma è esasperata; deperisce a vista. La mattina mi alzo presto e preparo un po' di caffè con non poco disagio. Devo uscire con la macchinetta a spirito, col pentolino del caffè, col lume. Uscendo devo passare fra una doppia fila di pagliericci, sui quali i compagni di sventura giacciono ancora. Passo fra i pagliericci e le schifezze e vado a preparare la olimpica bevanda. Poi la porto alla mamma che si ristora tutta. Verso le 8 ci si porta il caffè-broda, alle 12 la minestra per il pranzo e alle 6 quella per la cena. E la notte ritorna, lunga, orribile, asfissiante ... Un supplizio! E non siamo delinquenti; siamo solo poveri profughi. Oggi sono andata con papà all'ufficio d'ispezione, e domandai se non sarebbe possibile trasportare almeno qualche famiglia, tra le più sofferenti, in un’abitazione in cui si possa vivere: L'Ispettore fu gentile: ci prese in nota, e mi disse: "Se domani non mando a lei qualcuno prima delle 11, a quest' ora ella venga da me".
Stanza 6, baracca 46.
8 novembre. Sono andata dall'Ispettore per udire la risposta. Mi assegnò la stanza 10 nella baracca 36. Ma questa stanza è occupata da carpentieri tedeschi, e non vogliono sgombrarla. Dovremo rimanere ancora nello stallone.
9 novembre. È venuto l'Ispettore delle baracche, con un altro impiegato, a visitare i profughi rinchiusi nello stallone. Mi avvicinai a lui e gli domandai: "C'è speranza di poter uscir presto di qui?" E soggiunsi che bisogna poter uscire, perché qui non si può vivere, e non si vuol vivere qui. L'Ispettore obiettò un poco, poi disse: "Domani, o al più tardi posdomani, uscirete".
10 novembre. Ho ricevuto il mio stipendio mensile. Intanto si tira avanti. Potrò comperare qualche cosa con cui sostentare i miei genitori. Il burro costa 10 K il kg, l'olio 9 K, la farina 1 K, un’aringa 50h (K# Krone (corona); 5 h# heller (centesimo di corona)). Dopo pranzo, alle 2, ci hanno liberati dallo stallone. lo ebbi la stanza 6, nella baracca 46. Sono con me i miei genitori, mia cognata, sua madre con due nuore e tre bambini, e due altre famiglie: insieme 17 persone. Nella stanza non ci sono lettiere, non stufa, non tavola. Sentiamo tanto freddo ma ringraziamo Dio di essere qui. li capo-baracca ci portò qualche coperta, e ci promise di farei aver presto le lettiere.
14 novembre. Domenica. Dacché sono a Mitterndorf non ho ascoltato ancor una volta la S. Messa. Nell' accampamento c'è bensì la chiesa, ma non ancora compiuta, e non vi si celebra ancora. La chiesa del villaggio è piccola (Mitterndorf contava allora poco più di 150 abitanti) e ci si raccomanda di non andarci noi: è dei Tedeschi.
17 novembre. Han portato in baracca, nella nostra stanza una stufa, ma non si può servirsene, perché mancano i tubi. E venuto il medico, e ha scritto un biglietto perché possiamo ottenerli.
18 novembre. È venuto il fabbro a mettere a posto la stufa e vi ha messo i tubi.
19 novembre. È venuto un fabbro tedesco, il capo, a ispezionare il lavoro fatto ieri. Trovò che erano stati adoperati troppi pezzi di tubo; disse con arroganza che deve bastar un solo pezzo, e che avrebbe mandato un uomo a disfare il lavoro. Lo pregai di lasciar tutto com' è, offrendogli di pagare i tubi che gli sembravano superflui, perché levandoli bisogna trasportare la stufa in un angolo della stanza e quelli che ne sono lontani coi loro letti, soffrono troppo freddo. Rifiutò. Un'onda di amarezza mi passò nel cuore, e mi parve poco l'epiteto "barbai".
20 novembre. I tubi sono stati levati. A nulla giovarono le suppliche e le proteste. Andai dall' Ispettore gli esposi il caso. Disse che i fabbri agiscono così per ordine della Direzione. Domandai se non c'era d'aver nessun riguardo per la malattia e per la vecchiaia. Replicò che l'ordine non faceva eccezioni. Grazie tante, illustri Ispettori! Ora comprendo quanto meritate che vi si affibbino certi titoli, di cui andate fieri, qui; ma che farebbero il vostro obbrobrio in paesi dove la nebbia fosse meno fitta e il sole più splendido e la terra più calda.
Languiamo in una condizione miseranda.
22 novembre. Sono andata a Vienna con papà. Il povero caro vecchio si sentiva poco bene ma ha voluto venire con me. In treno il suo malessere aumentò. Io ero accorata e quasi spaventata. Una povera donna tedesca che sedeva dirimpetto a me, mi domandò con premura: "Ist er krank? (È ammalato? "). "Ja" (Sì"), risposi io col pianto in gola. Ella guardò nella piccola sporta che portava con sé, e ne trasse una bella mela che mi porse, guardando pietosamente il mio papà. Grazie, povera cara donna! Dio ti benedica! Non siete dunque proprio tutti barbari voialtri. Alla stazione di Vienna scendemmo e ci avviammo per recarci al "Comitato pro fuggiaschi". Papà stentava a camminare. Io ero in pena per lui, e avevo paura delle automobili, dei tram, delle carrozze che gremivano piazze e contrade, rincorrendosi, incrociandosi, con un frastuono che mi sbalordiva. Salimmo in un tram, per la "Favoritenstrasse". Giunti al palazzo del Comitato scendemmo e trovammo subito dei nostri. Parlai con un segretario, esposi l'estrema miseria in cui ci troviamo nelle baracche, reclamai soccorso. L'impiegato scrisse ciò ch'io gli. dissi, e mi promise che si sarebbero prese disposizioni per migliorare la nostra condizione.
23 novembre. È venuto il dottore a vedere se ci sono ammalati in baracca. È giovane e cortese. Sembra anche molto buono. Ma è un tedesco. Mi ha interrogata circa papà. lo gli ho detto come si sente poco bene. Poi gli ho fatto vedere la polenta fredda e brutta che stavo mangiando, mentre egli entrava. Mi lamentai. Mi lamentai anche perché avevano levato i tubi della stufa, ciò rendeva impossibile riscaldare un po' la stanza. Il dottorino ascoltava serio, pietoso, ma non sapeva che dire, e non voleva dir nulla. Io ero irritata, esasperata. Ma è vano lagnarsi. Chi potrebbe rimediare e aiutare, nol vuole e chi il vorrebbe, nol può. Dio! ma Voi sì che potreste... Vogliate dunque aiutarci! Nel cuore sento venire la disperazione di cui vibrano frementi e cupi quei versi della mia Negri: "Fasciati di silenzio, o bocca pia; crocifiggiti in petto, o cuor dolente; non invocare Iddio, ché Iddio non sente. Così vuole la patria, e così sia".
24 novembre. Papà sta meglio. Invece mi sento poco bene io. Fame, freddo, angoscia.
26 novembre. Il giovane dottore che ci visita ogni giorno oggi mi ha detto che vuole imparare l'italiano. "Ich muss fleissig italienisch lernen" (Io devo imparare l'italiano con diligenza ), disse egli. E io pensavo: deve pur essere buono, se, per comprenderei, si mette a studiare una lingua in queste regioni esecrate.
28 novembre. Ho passata a letto quasi tutta la giornata. Ho mal di gola. Papà tossisce molto ed è costretto a stare a letto per ripararsi un po' di freddo. Mamma è debole e triste assai. Ci guardiamo l'un l'altro e ci leggiamo in viso le reciproche sofferenze. Si fanno spese enormi per i profughi, si mandano per essi vagoni di regali, e con tutto ciò noi languiamo nella condizione più miseranda, più umiliante. Stasera abbiamo ricevuto alcune briciole di formaggio, e una scodella di caffè che non è altro che broda sudicia. I bimbi però, che hanno mangiata la pagnotta scussa, son avidi anche di quella broda, e qualcuno di essi s'è presentato per riceverne ancora. Si era ai rimasugli, roba da gettar via, eppure la megera che distribuiva la torbida bevanda, alzò la voce, e ci accusò tutti di pretesa e di inganno; il capo-baracca poi vi aggiunse la minaccia di privarci interamente per alcuni giorni della "ménage ". Si sequestravano i giornali che dicevano l'Austria alle strette con la fame: perché non si puniscono i ribaldi che di fame ci fanno languire? Perché almeno non si bada a ciò che fanno? Perché non si controlla l'operato di coloro cui in questo baraccamento fummo consegnati? Ah! se ci è riservata la grazia di ritornare ai nostri paesi, un doloroso fardello trarremo con noi: la memoria di mille patimenti, molti dei quali sarebbero stati evitabili se chi presiedeva avesse saputo d'umanità e di giustizia, parimenti che imprimono nel nostro cuore un marchio più forte di quello della nostra nazionalità e innalzeranno fra noi e costoro una barriera più insormontabile di qualunque confine.
29 novembre. È terribilmente freddo: nei nostri paesi non avremmo mai saputo idearci un tal gelo. E siamo coperti insufficientemente: io indosso il vestito che indossavo in giugno. Che sarà di noi prima che l'inverno finisca? Finirà la guerra? O finiremo prima noi? Su di un pagliericcio, che posa sul pavimento è coricata una ragazza del mio paese. E malata, forse molto. Di parenti, non ha qui che il padre, ottantenne. Suo fratello è convalescente in un ospedale militare. L'angoscia e le privazioni struggono la povera ragazza. E lì immobile, e suo padre le gira attorno, accorato e silenzioso. Non hanno un soldo, né una speranza.
30 novembre. Sono andata all'ufficio d'evidenza a rispondere circa un lavoro cui fui invitata. Presso l'impiegato stavano due signorine. Scribacchiavano, ridevano, scherzavano. Stanno al caldo. Tutta raffreddata come sono, con la tosse e il mal di gola, pensavo: "Potessi portarmi il caldo che qui c'è di troppo nella mia povera baracca!" Stamattina nella stanza dove siamo installati, non c'era un metro quadrato su cui non piovesse: sul letto, sulle suppellettili, addosso, dappertutto pioveva. È venuto il medico accompagnato dal capo-baracca e da un altro. Alle sue domande, d'altronde cortesi, abbiamo risposto esasperati. Qual è la missione del medico in questo baraccamento? Mistero! Il medico viene e interroga, ma i poveri profughi rimangono sui miseri sacconi poverissimi di paglia e stesi sul pavimento; vi rimangono, benché ammalati, nell'umido e nel freddo, affamati.
1° dicembre. Sono andata a riscuotere la prima mesata dall'Amministratore. La presi tremando, come fosse un’elemosina.
3 dicembre. Piove a dirotto; le strade sono orribili. Bisogna star rinchiusi in baracca. Non ho un buon libro che mi sollevi, non ho un po' di filo da lavorare. Non ne posso più.
14 dicembre. Sono andata dal capo-sezione a prendere gli oggetti di vestiario. Abbiamo ricevuto camicie, mutande, sottovesti, un paio di scarpe e un vestito per papà che ne fu assai contento.
16 dicembre. Comincia la novena del S. Natale. Deh vieni, vieni Signore! Vieni o Principe della Pace, e consola i derelitti, umilia i potenti e riducili a una buona volontà di pace!
21 dicembre. Sono stata avvisata che domani devo incominciare la scuola. E sto proprio poco bene.
25 dicembre. Natale. Triste Natale! Oggi ho condotto le scolare a prendere il regalo di frutta nel magazzino.
1916
DAL 1° GENNAIO AL 4 GIUGNO
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