ITALIANO A META'

 

GIORNATA DELL’AFRICA: RAPHAEL, STORIA DI UN ITALIANO A METÀ

di

Raphael si mette a nudo per parlarci di Africa, musica, famiglia e religione. (qcultura.com)


L’artista originario di Savona si mette a nudo per parlarci di Africa, musica, famiglia e religione.

In occasione della Giornata dell’Africa, Raphael ci ha aperto le porte del suo studio per raccontare di sé e presentare in anteprima l’album Time Out soffermandosi sul singolo di prossima, Italiano a metà.


Puoi parlarci del tuo rapporto con la musica, quando è nato e come si è sviluppato?

Sicuramente è iniziato da subito. Penso che la musica faccia parte di noi proprio dal momento in cui si è ancora nel pancione della mamma. È questo battito, il ticchettio del cuore della mamma che guida inconsapevolmente le nostre giornate. Si può dire che noi nasciamo a ritmo.

Raphael

In realtà i primi ricordi legati alla musica risalgono ai tempi dell’asilo, ovvero della scuola materna. Già a tre anni avevo manifestato qualcosa, una predisposizione, tanto che le maestre dissero a mia madre e mio padre di farmi fare qualcosa di legato alla musica. A questo proposito ricordo una sorta di festa di arrivederci insieme ai miei compagni dell’asilo. Era stata organizzata proprio durante l’anno scolastico perché dopo pochi giorni sarei andato per sei mesi in Inghilterra coi miei. Ho questo flash di me in piedi su un banco che canto No Vasco di Jovanotti, quindi parliamo indicativamente del 1989. Avrò avuto tre o quattro anni, non di più. Questo è un po’ il ricordo del mio primo live.           
Musicalmente ho sempre assorbito tutto quello che mi capitava. In casa, essendo ancora un’era pre-digitale, c’erano i dischi dei miei genitori, in questo caso mio padre, che grazie al cielo era un ascoltatore veramente avido. Lui ascoltava di tutto, da Venditti a Bob Marley passando da Fela Kuti. Vedi, non era quell’africano che arriva in Italia, non ascolta generi al di fuori dei suoi, non si adatta e non si integra. Tutt’altro, lui era molto aperto, non a caso si era integrato in maniera ottimale e la musica è sicuramente stata la prima ancora in questo suo processo d’integrazione; tanto che tra i dischi di mio padre ho dei Cocciante, dei Venditti… lui ascoltava veramente di tutto.

Raphael gioca a palla con suo papà

È ovvio che in questo modo da bambino ascoltavo quello che girava in casa ed essendo molto recettivo ho potuto creare una mia cultura musicale. Quando c’era mio padre ascoltavo passivamente i vari Barry White, un po’ di soul e funk, ma la vera ricerca scattava quando trascorreva dei periodi all’estero. Così quando lui stava per esempio un anno in Nigeria, io andavo a cercare la mia identità in giro. È chiaro che allora c’era anche la televisione, per non parlare della radio.   
La prima consapevolezza musicale è però nata intorno agli otto anni. A quel tempo giocavo già a pallone e mi ricordo di alcune cassette di Bob Marley. Posso onestamente dire che in lui avevo individuato una figura in cui riconoscermi, mezzo bianco e mezzo nero proprio come me. Poi arrivando da una famiglia molto religiosa, i miei erano mormoni, mi piaceva il fatto che lui fosse tanto Rock’n’Roll quanto santone. Con Bob Marley mi sembrava di raggiungere un compromesso, ribellarmi come è giusto che sia a quell’età senza però allontanarsi troppo dal seminato… insomma parlare di Dio facendosi le canne; e poi anche mio padre lo ascoltava.

Raphael e la squadra di calcio

Arriviamo così ai sedici anni, in un’epoca dove eri o truzzo o punk. Nei punk rientrava tutto ciò che era alternativo, quindi skater, hip hop, reggae e così via mentre gli ignavi ascoltavano Gigi D’Agostino, si vestivano Essenza e andavano a fare tunztunz in giro. Chiaramente non potendo riconoscermi in quel mondo, anche se a dire la verità lì c’erano le ragazze più carine, ho deciso di fondare una band. Siccome c’erano già tanti gruppi punk rock e non mi riconoscevo nei vari Marrakash, Mondo Marcio e Club Dogo, sono andato a prendere un genere musicale già vecchio di quarant’anni, dove però potevo davvero sentirmi me stesso. Così nell’estate del 2002 ho fondato gli Eazy Skankers, nell’estate del 2003 i primi concerti e adesso che siamo nel 2023 sono esattamente vent’anni di percorso musicale.

Hai parlato di Bob Marley e della sua influenza, perché non ci racconti di Time Out, il tuo ultimo album, e in particolare di Italiano a metà, il singolo appena uscito.

Time Out è stato concepito al rientro da due viaggi in California. In questi vent’anni la musica reggae mi ha portato a esibirmi in giro per il mondo. Cantare in inglese mi ha aiutato, ma anche questo network, di nicchia ma molto apprezzato e diffuso a livello mondiale, mi ha permesso di toccare diverse parti d’Europa e persino un pezzo d’America. Proprio la California mi ha in realtà aiutato a capire quanto fossi legato all’Italia, seppur inconsapevolmente. Noi siamo portati a sognare l’America a idealizzarla, poi quando ci arrivi e sei sulla Walk of Fame di Hollywood e ti sembra di essere all’Outlet di Serravalle, piuttosto che al famoso Whisky a Go Go non così diverso dal Crazy Bull di Sampierdarena —prendimi con le pinze—, per non parlare dell’oceano al quale continuo a preferire la mia spiaggetta di Savona (lui ride, n.d.r.), con l’isoletta di Bergeggi lì davanti e il mare cristallino… beh incominci a riflettere. Caspita tutto bello, ma il mio paese non ha nulla da invidiare al resto del mondo. Sono sempre stato troppo esterofilo, senza mai soffermarmi sulle bellezze della mia terra, a partire dalla lingua. Proprio in quel momento credo di aver realizzato di poter cantare anche in italiano.
Sarà stato il fatto di essere esposto ai raggi solari per tre mesi in più rispetto agli altri, siamo andati in California a febbraio e tornati in Italia in piena primavera, ma il 2017 è stato un anno assolutamente proficuo. Ho preso la chitarra e iniziato a scrivere in italiano ripartendo esattamente da dove ero rimasto. A questo periodo risale per esempio Figli delle lacrime, un brano che abbiamo presentato nel 2018 per quello che sarebbe stato Sanremo 2019 e che mi ha permesso di arrivare tra i sessantanove finalisti scelti da Claudio Baglioni, al tempo direttore del festival. Una cosa iniziata quasi per scherzo, ma diventata una splendida realtà. Dopo pochi mesi è stato anche il turno della mia partecipazione a The Voice of Italy, il talent musicale di casa Rai, che per me ha rappresentato una vetrina di assoluto prestigio.           
Posso dire con certezza che cantare in italiano è progressivamente diventata una necessità, anche per meglio esprimere aspetti più intimi e profondi della mia stessa persona. Canzoni libere da tutto, dai vincoli autoimposti, da stilemi tematici che lo stesso reggae, come tutti i generi, impone. Qualche singolo appartenente a questo periodo è uscito, alcuni anche in maniera sfortunata, mi riferisco per esempio a Vento e Fuoco, singolo r&b che trovo bellissimo ma uscito una settimana prima del lockdown e quindi assorbito dalla tragicità di un periodo oserei dire surreale. Tutti questi brani, sia quelli già usciti che gli inediti, troveranno finalmente una dignità nell’album Time Out; titolo scelto proprio per mettere in risalto una condizione di stallo totale, che tra eventi personali —una separazione— piuttosto che globali —una pandemia— hanno bloccato questi ultimi cinque anni.

Cover del singolo Italiano a metà, Raphael ft. Tommy Kuti

Parlando invece del brano Italiano a metà, sono molto contento di condividerlo con Tommy Kuti perché è sempre più un simbolo degli afritalians. Lui è arrivato qui da piccolo, quando lo senti parlare ha un forte accento bresciano è infatti cresciuto lì anche se adesso vive a Milano, ed è un ragazzo molto in gamba. Il messaggio che vogliamo lanciare è molto importante, specie in questo periodo. Ricordo che da piccolo non percepivo dall’ambiente intorno a me del disagio. Un po’ perché c’è quella bolla dell’infanzia che ti scherma da tante brutture della società, e poi perché l’ambiente provinciale da cui provengo —Savona— mi ha protetto. Il tuo quartiere è un po’ il tuo castello, tutti si conoscono e tu sei di lì, non importa se sei bianco, nero o giallo, quella è la tua casa e la tua famiglia. Quando sono cresciuto le cose hanno però iniziato a mutare. Negli ultimi anni il vento è cambiato, la Lega è diventata più forte, il salvini-pensiero si è insinuato nei social e ancor più nel modo di esprimersi della gente, la Meloni è diventata premier e io ho iniziato a sentirmi sempre più spesso straniero in casa mia, cosa che prima non era mai successa.            

Italiano a metà vuole un po’ essere un riassunto di un percorso interiore e di una presa di consapevolezza verso certe tematiche. Spesso c’è una sorta di enfatizzazione sulla questione dello ius soli perché chi lo promuove sa di punzecchiare l’altro e l’altro sa di poter fare affidamento sulla moltitudine dato il forte richiamo mediatico. Un argomento spinoso che però distoglie l’attenzione da un altro grande problema, ovvero la presenza di migliaia di persone nate in Italia —cittadini e non—costantemente accusate di non essere italiane. È ovvio che in un momento in cui c’è chi dice “non esistono neri italiani” e chi spara alla gente di colore —mi viene in mente l’attentato commesso da Luca Traini, per non parlare dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte— l’aria che si respira non è forse delle migliori. Parlare d’integrazione non è mai semplice, è una questione delicata e controversa, sono il primo a diffidare dai proclami di chi sostiene di volere aprire le porte a tutti. L’integrazione è una cosa che va fatta, ma deve essere fatta bene e al momento attuale mancano sia le risorse che la cultura. Quello che mi spaventa è che il popolo italiano è sempre meno consapevole e quando tu non sei consapevole del valore della tua cultura hai paura delle altre, paura di essere invaso e soprattutto sostituito. Sinceramente mi fa un po’ sorridere che quello che fu l’impero più grande del mondo adesso abbia paura di essere sostituito, perché significherebbe non essere più consapevoli di quello che è la tua cultura.

Che rapporto hai con l’Africa? Pensi abbia avuto un’influenza importante sulla tua crescita?

Sono stato in Africa soltanto una volta nel ’95. Avevo nove anni e sicuramente l’ho vista con gli occhi di un bambino privilegiato, appunto perché in quanto italiano che andava a visitare il paese di origine.
È sempre stato un rapporto che ho mitizzato proprio in nome della distanza. Sicuramente il tema del ritorno in Africa o comunque del panafricanismo promosso dagli artisti reggae mi ha spinto in quella direzione.
Purtroppo il mio rapporto con l’Africa è legato a doppio filo con mio padre e la mia situazione famigliare. I miei si sono separati nel 2000, ormai 23 anni fa e di fatto cinque anni dopo quel viaggio. Ricordo che già a partire dagli anni ’90, mio padre è andato e tornato più volte in Africa da solo e per me non c’è mai stata una vera continuità con quel viaggio. Pensa che tra 16 fratelli e sorelle che erano, Io di tutti questi zii ne ho conosciuto soltanto uno. Si può dire che è sempre stato un rapporto spezzato a metà.      

Raphael insieme alla sua famiglia

Poi è arrivata la musica, la Giamaica era la Mecca del reggae e io in qualche modo l’ho sempre preferita alla mia terra d’origine. Vi sono tornato spesso anche quando sarei potuto andare in Nigeria. Diciamo che in Giamaica potevo trovare tutta l’Africa di cui avevo bisogno, e se ci pensi bene in fondo non è che un pezzettino d’Africa staccata nei Caraibi. Adesso però le cose sono cambiate e la voglia di tornare è forte, anche perché negli ultimi anni sono stato contattato da svariati operatori radiofonici e figure importanti nel panorama musicale africano. Insomma c’è qualcuno che inizia a guardare le mie cose anche lì e questo mi fa molto piacere. Devo anche dire che in questo senso mio padre cerca di dami una mano promuovendo quando può la mia musica.        
Sicuramente voglio tornare in Africa, ma avendo due figli piccoli adesso non posso. Non avrebbe senso andarsene via un paio di settimane, la volta che andrò voglio fermarmi almeno sei mesi, quando avrò magari più di quarant’anni e tutto quel tempo per perdermi alla ricerca di pezzi di me che sono un po’ sparsi e che adesso iniziano a mancarmi.

La religione sembra aver avuto un certo peso nella tua vita. Sei cresciuto in una famiglia mormone, in un paese a maggioranza cristiano cattolica, per avvicinarti con Bob Marley al rastafarianesimo. Pensi che queste esperienze ti abbiano aiutato a trovare un tuo personale percorso spirituale, magari fondendo aspetti di religioni diverse, o hai invece seguito strade già battute da altri?

Diciamo che in una religione come la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni o più semplicemente i mormoni, la vivi veramente al 100%, ed è un po’ una bolla. Tu cresci lì consapevole di essere nel mondo ma non del mondo, quindi da quando nasci loro ti separano dagli altri. Non dico che ti senti superiore, ma comunque diverso. Sentirsi al di sopra, in parte significa sentirsi superiori, anche se sei l’ultimo al mondo.

Raphael insieme alla sua famiglia

Non mi è mai piaciuto l’aspetto costrittivo delle religioni, credo non piaccia a nessuno, specie ai giovani. Quando ho però potuto iniziare a pensare con la mia testa, non ti nascondo che mi è piaciuta l’idea di questo Gesù Cristo che fondamentalmente predicava una parola d’amore, un messaggio costruttivo di collaborazione; insomma non faceva altro che predicare quelle che sono le buone regole di convivenza sociale, di vita. Poi è chiaro che è stato preso, mitizzato, sfruttato. Non tollero quando le religioni usano anche queste cose come ulteriore modo per dividere le persone. Nel rastafarianesimo ho trovato un simpatico modo di elaborare ed estrapolare alcuni passi dell’Antico Testamento. I giamaicani degli anni ’30 se la sono proprio costruita in base alla loro condizione. Quando in Etiopia hanno incoronato Hailé Selassié, loro hanno riconosciuto in lui il ritorno del Messia tanto atteso. È un grande equivoco credere che la seconda venuta di Gesù Cristo sulla Terra si sia avverata, ma è un equivoco che ha ispirato cose bellissime e quindi viva gli equivoci di questo tipo. Invecchiando mi risulta difficile credere a molte cose espresse dalle religioni, una cosa però ho capito, cercare di comportarmi sempre come gli altri vorrei si comportassero con me. Se vai a tirare le fila, puoi notare che alla fine sono sempre gli stessi insegnamenti di quel Cristo lì e se tutti seguissero questi consigli —senza i dogmi di ogni religione— sarebbe già un mondo migliore. Paradossalmente stiamo parlando di semplice educazione civica.

All’inizio abbiamo sfiorato il tema dell’integrazione, tu in quanto padre come affronti l’argomento coi tuoi figli? Credi la musica possa avere un qualche ruolo all’interno di un processo tanto complesso?

Loro hanno la fortuna di essere ancora in quella bolla della preadolescenza di cui parlavamo prima, quindi loro vedono il mondo che hanno davanti e davanti ai loro occhi hanno un mondo multicolore.
Sono in tanti, provenienti da mille paesi diversi, sono una realtà multietnica.  Non mi pare si pongano tanto il problema dell’integrazione perché loro già di fatto vivono un’integrazione. A scuola, seduto al tuo banco sei molto più uguale di quanto tu non possa esserlo al lavoro o per strada da adulto. Da questo punto di vista l’abbiamo anche notato durante i mesi di lavoro a Music for Peace (onlus genovese che si occupa anche di educare i giovani al rispetto dei diritti umani, n.d.r.), come i bambini siano inclusivi.  
Per la musica ho cercato di non imporre le mie visioni. È chiaro che gli ho fatto sentire quello mi piace, poi pur storcendo un po’ il naso ho ascoltato anche i loro Sfera Ebbasta quando me li proponevano, ma la cosa bella è che quando da soli hanno capito le differenze scegliere è stato più facile. È chiaro che poi vai a scegliere dove senti quel qualcosa in più e per fortuna i miei figli sentono maggiormente dove sentivo anche io, ovvero nella musica suonata, la musica di qualche decade fa. Diciamo che sto molto attento a non impormi perché sono in una fascia d’età delicata, in cui si rischia di esaltare l’opposto solo per fare il contrario di quello che dice tuo padre. Cerco di viverla accanto a loro più che sopra di loro.

Progetti musicali per il futuro?

Promuovere al meglio il mio nuovo disco. Stanno già arrivando diverse proposte per l’estate dove proporrò appunto vecchi e nuovi brani. Vorrei cercare di raggiungere maggiormente quella fan base che ha bisogno di quel mood, di quei temi e sonorità che io porto nelle mie canzoni. Sicuramente mi piacerebbe trovare un po’ una mia soletta in questo che ormai è il mare della discografia, dello streaming, dove le regole di una volta —anche per quanto concerne i parametri di valutazione di un artista— ormai non valgono più. Bisogna in qualche modo cercare di rimanere a galla trovare un’isoletta felice di ascoltatori senza mai perdere l’entusiasmo.

Raphael si mette a nudo per parlarci di Africa, musica, famiglia e religione. (qcultura.com)

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