RUSSIA E OCCIDENTE


IL COMMENTO 
di LUCIANA CASTELLINA


 


Spero non dover chiarire che ritengo la scalata di Putin al vertice della Russia una sciagura e, sebbene sia tutt’altra storia, anche su Xi Ping avrei qualcosa da ridire. Ma quando hanno detto la loro sull’Ucraina ho pensato: menomale che ci sono.

Perché la cosa più insopportabile che ormai silenziosamente subiamo è l’arroganza del nostro Occidente nel presentarsi come il modello ottimale di società e per questo il garante della democrazia nel mondo, nonostante i disastri seminati in tutto il Medio Oriente, in Afghanistan, ma anche dalle nostre parti dove la disuguaglianza cresce ogni giorno di più.

MERAVIGLIA LA MERAVIGLIA di chi si allarma perché Putin ha schierato tanti carri armati al confine ucraino: e cosa si aspettavano che facesse uno come lui, cui così è stata regalata la possibilità di conquistare popolarità nel suo paese – e di usarla per il peggio – vista la scellerata politica dell’Occidente nei confronti della Russia? Dopo la caduta del Muro si sarebbe finalmente potuto dare avvio a un processo inclusivo, graduale adesione dell’Europa dell’est e collaborazione con la Russia, europea solo a metà, è vero, ma difficilmente separabile dal nostro contesto storico-culturale. E invece si è imboccata la strada opposta, in parte annettendo, in parte costruendo un lebbrosario dove isolare la Russia.

Di cosa la accusiamo? Di aver ammassato carri armati ai suoi confini, sempre in terra russa, con l’Ucraina? Ma gli Stati Uniti, per conto loro o con gli alleati, non hanno forse riempito da decenni il mondo di centinaia basi militari e guerre ma a migliaia di chilometri dalle proprie frontiere?

RICORDO BENE COME fu avviata la politica dell’Unione Europea quando il Muro cominciò a vacillare, in quegli anni ero a Bruxelles nell’Europarlamento. A capo dell’ Unione sovietica c’era finalmente un uomo come Gorbaciov che generosamente offrì il ritiro delle sue truppe dai territori del Patto di Varsavia in nome di un superamento della guerra fredda e dunque con l’impegno che si facesse altrettanto, di non estendere all’est il Patto Atlantico. In favore di una simile ipotesi c’era un grande movimento pacifista, il solo grande movimento realmente europeo che ci sia stato, che lottava per «un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali»; c’erano molti leader socialdemocratici di sinistra alla direzione dei loro rispettivi partiti che l’appoggiavano (Foot, Palme, Kreiski, Papandreu, molti Spd; in Italia, ma isolato nel suo stesso partito, Berlinguer). Si sarebbe potuto tentare un nuovo assetto che seppellisse la guerra fredda.

E INVECE QUELL’OCCASIONE fu sepolta e siamo oggi difronte a un rischio molto peggiore. Perché prima c’erano le grandi bombe atomiche di cui i presidenti avevano le chiavi, ora il nucleare è diventato componente di munizioni maneggevoli alla portata di molti, matti o umani che sbagliano. Ricordo quando, nel ’93, l’Europa, avendo già appiccato con gli americani il fuoco nel Medio Oriente, passò ufficialmente da Comunità, alla più impegnativa Unione, e per Costituzione al famigerato Trattato di Maastricht.

NON ERANO STATE ANCORA rimosse le bandiere disposte a ornamento della Sala dove si era tenuto il battesimo che uno dei suoi membri più autorevoli, la Germania, si affrettava a intervenire, inizialmente da sola poi seguita da tutta l’Unione, nelle vicende jugoslave riconoscendo, in barba ad ogni norma internazionale in vigore, l’indipendenza della Croazia che si proclamava tale su base etnica. Soffiando così sul fuoco che stava divampando con un ridicolo richiamo persino alla comune appartenenza al cattolico Impero Austroungarico, comunità storica da contrapporre a slavi e ortodossi.

Il tutto accompagnato da una campagna di lusinghe per rendere più infuocata l’ossessione nazionalista e così smontare l’intrusa Repubblica jugoslava, corposo ingombro nel rapporto fra est e ovest. E così fin dall’inizio, l’«allargamento» comandato da Bruxelles, è diventato reclutamento di chi poteva presentare più similitudini con l’Occidente, nel bene e anche nel male.

UFFICIALMENTE la lungimirante linea venne lanciata a un summit a Copenaghen, nel 1999, nuovo Presidente della Commissione Ue Romano Prodi, appena reduce dalla presidenza del Consiglio italiano. Una operazione presentata come caritatevole, e a chi, come la nostra sinistra obiettava, il rimprovero di non esser generosi e perciò di voler escludere i poveri dell’est dall’accesso alla bella torta con la panna che l’Ue rappresentava.

Una carità avvelenata: lunghe trattative preliminari per obbligare i candidati all’ingresso ad ingoiare tutto quello che era stato stabilito senza di loro nei quarant’anni precedenti – “l’acquis communautaire” (“il diritto comunitario acquisito”) – in buona sostanza le regole del libero mercato: la privatizzazione di banche, servizi pubblici, libera competitività e il libero scambio e dunque l’esposizione alla libera concorrenza internazionale, abbinata alla proibizione di sostegni statali alle aziende. Più o meno come in Africa: ottimo per una nuova borghesia compradora, ulteriore miseria per i più poveri (è bene guardare i dati completi, per capire cosa questo regalo ha prodotto).

IL VELENO PIÙ MORTALE è stato tuttavia quello le cui possibili nefaste conseguenze si vedono oggi: nell’“acquis communautaire”, mai ufficialmente validato da un atto formale, c’è di fatto la Nato, la libertà, dunque, di piantare missili nucleari ovunque arrivino le frontiere dell’Unione. Fin sotto il naso della Russia. Con che faccia possiamo protestare per la Crimea quando abbiamo riconosciuta una dopo l’altra l’indipendenza di tutte le nazioni della federazione Jugoslava, nonostante l’accordo postbellico di non toccare i confini di nessuno stato senza un negoziato fra tutte le parti?

Perché mai adesso non riconosciamo uguale diritto alla Russia che ha almeno qualche ragione in più per appoggiare la scelta della grande maggioranza degli abitanti della Crimea, russa da secoli e poi, per un gesto di cui nessuno poteva allora valutare il peso, regalata all’Ucraina, allora federata, dall’ucraino Krusciov e che oggi, con un voto al 95 %, è tornata ad essere parte del paese cui è appartenuta per secoli?

NEL 1947 HENRY WALLACE, ministro e ex vice del presidente Roosvelt, disse in un grande raduno popolare a New York che bisognava condividere con l’Urss i segreti nucleari e garantire ai suoi confini, in qualche modo come la dottrina Monroe di cui godevano gli Stati Uniti: fu estromesso dalla sua carica entro 12 ore. E 15 anni dopo, in nome di quella dottrina, rischiammo la guerra perché la piccola Cuba, concretamente minacciata come sappiamo, per via di quattro missili impiantati a sua difesa veniva ridicolmente accusata di voler attentare all’impero americano, un azzardo per il quale da più di 60 anni paga il prezzo altissimo delle sanzioni.

PURTROPPO L’EUROPA unita non è nata a Ventotene, ma a Washington: il primo voto in suo favore non fu di un Parlamento europeo, ma del Congresso americano, il 10 marzo 1947, su proposta di John Foster Dallas, Segretario di Stato e fratello di Alan, potente capo della Cia. La guerra fredda era appena cominciata e l’Occidente aveva bisogno di garantirsi una forza politicamente e militarmente unita lungo la Cortina di Ferro. Quell’impronta è rimasta sempre, e la nostra battaglia è recuperare l’ispirazione dei prigionieri antifascisti che mentre la guerra ancora infuriava avevano disegnato tutt’altro progetto.

Dio mio che fatica continuare ad essere europeisti! Se insistiamo è solo perché l’idea di affidarsi al proprio Stato nazionale sarebbe infinitamente peggio.





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