Per il 25 aprile, un racconto di Renata Rusca Zargar: FRANCESCO GIUSEPPE FU LORENZO DETTO ZIO APU
FRANCESCO GIUSEPPE FU LORENZO DETTO ZIO APU
Francesco
si era alzato sul letto.
Con la
testa e le braccia appoggiate alle lenzuola, sua moglie Rina continuava a
piangere disperata. Intorno, solo persone tristi. Naturalmente lei, Zarina, la
sua nipotina preferita, non c’era. Quello era un giorno di scuola ed ella, che
frequentava la prima elementare, sarebbe uscita solo alle sedici. Da quando era
iniziato l’anno scolastico, pensava lo zio, egli non era mai potuto andare a
prenderla. Fino all’anno precedente, invece, quando la mamma delle nipotine era
impegnata nel lavoro, lui e sua moglie attendevano prima Zarina alla scuola
materna e, poi, Samina, la sorella, che frequentava già la seconda, alla scuola
elementare. Quindi, accompagnavano la più grande dalla zia Mariuccia e
portavano a casa propria la piccola.
Allora,
dopo la merenda, cominciavano i giochi. -Batti cinque!- Zarina batteva le
manine, poi, con la mano destra batteva la destra dello zio Giuseppe, indi
batteva ancora le mani e con la sinistra quella dello zio. Ambedue ridevano
fintantoché Zarina lo abbracciava felice.
-Lo abbraccio –aveva confidato alla mamma-
perché mi vuole bene e anch’io gli voglio bene!
Giochiamo sempre, sai mamma? Qualche volta io sono la mamma e lui il
papà, oppure lo zio, e cambiamo il pannolino ai pupazzi. La zia diventa zia dei
miei piccolini. Il cagnolino, l’orsetto, l’enorme bambolone, la bambolina Oplà,
dalla testa pesante, si sporcano sempre! A volte zia Rina fa il gatto:
“Miaooo!” strilla oppure lo zio è l’Uomo nero, si nasconde e poi dice: “Sono
l’uomo nero e ti mangio in un boccone!” -
Quanto si divertivano
insieme tutti e tre! A cena, infine, le preparavano le tagliatelle al sugo con
la carne tritata che le piacevano tanto. -Non mangia niente! - si lamentava
sempre la madre. Ma lì, la birichina divorava tutto (specialmente perché loro
facevano tutto ciò che piaceva a lei!).
Appoggiato
ai cuscini, tra una visita e l’altra dei parenti, chiudeva gli occhi.
Masenga
Francesco Giuseppe fu Lorenzo nato a Rocca d’Arazzo in provincia di Asti l’11
settembre 1919.
Asti,
una volta antico villaggio ligure, arroccato su un'altura tra il fiume Tanaro e
il torrente Borbore era circondato da un territorio dolce e armonioso: il
saliscendi delle verdi colline si stendeva tutt’intorno specchiandosi nei corsi
d’acqua. I contadini raccoglievano nei campi a piene mani il frutto del loro
lavoro: Francesco aveva visto, infatti, fin da bambino, le distese di cereali e
i filari di uve pregiate dalle quali si ricavavano vini profumati e inebrianti,
mentre le mucche pascolavano tranquille nei prati.
Ora,
invece, guardando fuori dalla finestra dell’ospedale, si potevano percepire le
colline scure che scendevano al mare e qualche vela bianca sulla liscia
superficie blu. Ma egli, allungando lo sguardo, rivedeva sempre un altro
paesaggio che amava tanto: lo sfondo del cielo azzurro sulle colline intorno ad
Asti, le mura della città e le case dei suoi vicini di allora.
Ricordava
i grappoli in fase di maturazione della sua infanzia, quando si udiva il gallo
cantare e l’alba sorgeva nel cielo. Gli uccellini cinguettavano festosi, mentre
le mucche si avviavano al pascolo. Il profumo del pane fresco di forno saliva
dalla cucina: breve tempo quello, perché lui e i suoi fratelli erano rimasti
ben presto orfani. Poi, il lavoro nell’officina della vetreria dove si facevano
gli stampi per le bottiglie, mentre sua sorella Gemma, più grande, era
impiegata nell’ufficio del direttore.
Un
colpo di fortuna, infine!
-Vai, Giuseppe! - gli aveva detto un giorno
Gemma- accetta questo trasferimento a Savona. La proprietà ha rilevato la
vetreria di Savona e cercano quattro capiturno da mandare là. Avrai uno
stipendio più alto, potrai mettere da parte un po’ di soldi per sistemare la
casa, staremo tutti bene! –
Così era
partito: solo in una città sconosciuta ma contento di avere un posto di lavoro
migliore. L’energia non gli mancava e poi, così puntuale e serio -pignolo
dicevano adesso i nipoti! - si era impegnato ad accettare nuove regole di vita.
Mai aveva mancato, nella sua esistenza, di rispettare le regole! Ancora
conservava nel cassetto, a casa, il libretto di paga della S. A. Nuova Vetreria
Savonese Viglienzoni. Era capoturno e guadagnava bene: fino a 511 lire alla
quindicina e, comunque, nell’ultimo anno, mai meno di 300...
Il suo amico
Giovanni, un operaio semplice, viveva con la famiglia in una casa in società e
pagava 100 lire al mese d’affitto. La moglie preparava i pasti sul fornello a
carbone e, nella stessa cucina, un’altra famiglia cucinava su di un altro fornello
a carbone. Poi, tutti (erano cinque adulti e sei bambini chiassosi!) mangiavano
allo stesso tavolo. Certo, un operaio semplice non poteva permettersi di
affittare una casa da solo, a quei tempi costava troppo, ed era obbligato a
dividerla con altri. Ma non sarebbe stato così per lui: stava mettendo via i
soldi per la “sua” casetta, dove lui e la futura moglie avrebbero iniziato
senza ostacoli una vita insieme!
In quel
faticoso dormiveglia, emergeva allora la Vetreria Savonese come era stata dopo
la guerra. Per lunghi anni, il suo edificio era rimasto là, lungo il Corso
Ricci, abbandonato e in rovina: qualche piccola officina meccanica, un
gommista, un elettrauto, un’agenzia di vendita di automobili usate occupavano
alcuni locali.
Da
qualche tempo, però, il Centro Commerciale “Il Gabbiano” aveva preso il suo
posto: un vero inferno! Una volta, era entrato in quella confusione: gente che
andava e veniva, rumore, carrelli, luci… Non ci si orientava, tutti sembravano
correre qua e là, tra gli scaffali zeppi di ogni ben di Dio, chiacchierando e
spingendo carrelli colmi all’inverosimile di ogni tipo di cibo e oggetto. Non
aveva voluto tornarvi mai più.
Invece,
ai suoi tempi, le ciminiere svettavano snelle verso il cielo: il loro fumo
denso significava lavoro per uomini e donne, il fracasso che rimbombava nella
testa era attenuato dall’orgoglio di produrre quelle eleganti bottiglie verdi
da spumante e champagne.
La
sera, poi, la luce della fabbrica illuminava tutto il Corso Ricci e permetteva
ai passanti di vedere la strada perché i fuochi dei forni, infatti, non
venivano mai spenti.
-Masenga,
la pastiglia! - l’infermiera lo stava chiamando.
Era quasi mezzogiorno e sarebbe arrivato il
cibo, ma lui non si sentiva di mangiare. I vicini di camera raccontavano, gli
uni agli altri, le loro malattie, i precedenti ricoveri… Seduti al tavolo, con i loro tovaglioli e le
posatine di plastica, si consolavano reciprocamente e aspettavano il carrello
fumante di odori. I parenti, anch’essi, parlavano a voce alta, si scambiavano
informazioni sulle cure e la presunta maggiore o minore competenza degli
infermieri, attendevano con ansia di parlare con il medico…
Chissà
cosa dicevano i medici di lui, aveva bisogno di un ricostituente, ecco! Tra
poco, ragionava ancora, quando sua nipote (la mamma di Zarina) fosse arrivata,
le avrebbe chiesto di parlare con il medico. Si sentiva debole, non riusciva
più ad alzarsi dal letto neppure per andare al bagno, se continuava così, non
avrebbe più camminato! Certo, ci voleva un bel ricostituente.
I suoi compagni di stanza, intanto, stavano
già mangiando. Egli non aveva voglia di nulla per il momento; le infermiere
avevano posato il vassoio sul tavolino, poi si sarebbe visto... magari un po’
di budino al cioccolato... In fondo, era stato sempre goloso: ogni giorno,
davanti alla televisione succhiava qualche caramella e, se andava a pranzo dai
nipoti, portava sempre le paste che gli piacevano tanto! Lo stomaco funzionava
bene, era il cuore che faceva i capricci, ma lì, nell’ospedale lo stavano
curando, sarebbe tornato a casa com’era successo altre volte e avrebbe ripreso
la stessa vita tranquilla.
Ormai,
il periodo della vita lavorativa che gli aveva causato tante ansie,
specialmente negli ultimi anni, era concluso: Giuseppe era in pensione e poteva
stare in pace.
Le sue
giornate erano piacevoli: le partite a carte con gli amici presso la Società di
Mutuo Soccorso, la spesa in un piccolissimo supermercato e, soprattutto, quei
pomeriggi con Zarina... Giocavano, scherzavano.
Se lui
si sedeva sulla poltrona a guardare la televisione, Zarina si nascondeva nel
cucinino, poi spuntava fuori urlando: -Buuuh! –
Egli
fingeva di spaventarsi, poi diceva: -Va
bene, vado a comprare il gelato.-
Ma
Zarina non voleva, perché preferiva giocare con lui.
Gli
occhi si chiudevano, pesanti…
Spesso,
tanto tempo prima, sul Corso Ricci, vedeva passare una bella signorina: capelli
neri, alta, formosa, dall’andatura dritta... L’aveva fermata. -Non posso
passeggiare con nessuno, - aveva risposto lei- vado a cucire e non esco mai da
sola ma con mia madre e mia sorella. – Poi, un altro giorno, gli aveva spiegato:
-Siamo di Castino, in provincia di Cuneo, avevamo una bella fattoria, mio padre
era “benestante”, poi è morto che noi figli eravamo piccoli. Mia madre non
poteva governare la terra e il bestiame con quei parenti che non la volevano...
Sì, perché era povera prima di sposarsi, andava al pascolo con le pecore e loro
non glielo avevano perdonato! Mio fratello, intanto, voleva vivere in città e
abbandonare la campagna, come fanno molti. Insomma, siamo venuti a Savona. Ora
mio fratello lavora come macellaio e io sarò sarta. –
Aveva
accettato, infine, di incontrare Pierina, detta Rina, con madre e sorella
(Palmina che poi sarebbe stata la nonna di Zarina). Non si era pentito mai. Si
era preoccupato sempre per lei e aveva cercato di risparmiarle, per quanto
poteva, i dolori della vita.
-Zia
Rina ci rimane male- diceva ai nipoti quando si usava qualche parola un po’
brusca -dai, lasciate perdere! –
Zia
Rina, infatti, aveva un carattere bonario e sensibile.
Ad
esempio, si raccontava in famiglia che, quando Pierina e la sorella erano ancora
ragazze, la madre comprasse per loro due tagli di stoffa per confezionare un
abito per ognuna di loro. Pierina, che aveva imparato a cucire, preparava prima
quello di Palmina, che non vedeva l’ora di indossarlo, e ritardava il proprio,
spesso molto presa dal lavoro. Qualche tempo dopo, però, Palmina insisteva
tanto che Rina le cuciva anche il secondo vestito, accontentandosi, quindi, di
riaggiustare qualcosa di vecchio per sé!
Anche
per questo ora era preoccupato: se lui fosse andato via, lei sarebbe rimasta
sola, abituata com’era che ad occuparsi di tutto fosse sempre lui: la banca, i
pagamenti, i versamenti... Rina non ci capiva nulla!
Poi, era
scoppiata la guerra... Aveva dovuto lasciare Savona, la vetreria...
In una busta verde un po’ strappata
indirizzata “Al Lavoratore Masenga Giuseppe Aubach 10 Acheuse Dolomit 12 B.
Jembach Tirol Deutschland (Germania)” conservava ancora alcune cartoline
postali. “6-9-44 Mio carissimo Giuseppe sempre tutti bene come altrettanto
speriamo di te. se puoi scrivi più sovente, io continuo il mio solito lavoro da
casa e non avere cattivi pensieri tutti ti attendiamo stai tranquillo e abbiati
riguardo alla salute tante cose avrei da dirti ma è impossibile con speranza
daverti presto ti abracio e cari saluti da tutta la famiglia Tua per sempre Rina”
Numero
di matricola 5084 era scritto nel foglio di congedo illimitato per
“smobilitazione” rilasciato dal distretto di Casale Monferrato nel dicembre
1945: arte o professione: vetraio, sa leggere e scrivere, arruolato di leva: 11
dicembre 1939, chiamato alle armi: 12 marzo 1940, rinviato in congedo
illimitato il 15 novembre 1945, campagna balcanica.
Negli
ultimi due giorni aveva trascorso lentamente il tempo in un vigile dormiveglia.
Aveva persino paura di addormentarsi, per paura di non potersi più risvegliare.
Spesso controllava l’ora, chissà, quasi un presentimento di un momento preciso
per un appuntamento inderogabile. A tratti i pensieri lo trasportavano alla
vita che lui desiderava ancora fare: accompagnare Zarina a scuola, andarla a
prendere, affrontare con lei il primo anno di studio, quando avrebbe imparato a
leggere e a scrivere...
Tra le
vecchie carte conservava ancora la sua pagella di quinta elementare. Sì, perché
a Lubiana, presso il R. Ginnasio e Scuola Elementare annessa, l’11 luglio 1942,
gli avevano fatto prendere la licenza di quinta elementare. Religione: suffic.,
Canto: suffic., Disegno e bella scrittura: buono, Lettura espressiva e
recitazione: buono, Lettura ed esercizi per iscritto di lingua
italiana-ortografia: suffic., Aritmetica e contabilità: buono, Geografia:
suffic., Storia: suffic., Scienze fisiche e naturali e nozioni organiche e
d’igiene: suffic., Nozioni di diritto e d’economia: suffic., Educazione fisica:
buono, Lavori donneschi e lavoro manuale: suffic.
Certo,
il miracolo di un bimbo che, adagio, riconosce le lettere, i segni, era ben
diverso dal suo studio affrettato e tardivo. Avrebbe tanto voluto seguire il
ditino della bimba sul libro illustrato o sull’alfabetiere dai disegni
brillanti... Qualche volta, insieme, avevano giocato con “Sapientino”:
rispondevano alle domande e, se la risposta era giusta, si accendeva la luce
rossa. Che gioia allora! E quando, ricordava, con lei più piccola, avevano
imparato ad aprire gli spazi di un contenitore con chiavi e forme diverse, non sapeva
chi si trastullasse maggiormente!
Lui non
era stato molto a scuola neppure prima della guerra, orfano com’era, forse
faceva qualche errore nello scrivere, ma avrebbe letto insieme a lei, sfogliato
quei libri tutti colorati che usavano nei bei tempi moderni.
A quei
pensieri, la sua mano si alzava un poco sul lenzuolo e si riabbassava con un
moto di ribellione. Cercava con lo sguardo gli occhi di zia Rina che lo
assisteva e la fissava intensamente: le parole non dette erano proprio là, in
quelle occhiate!
“Carissimo
Giuseppe- gli scriveva Rina il 28-2-44- Non so come ringraziarti di un cosi
lungo tuo scritto dopo tanta attesa. Caro Giuseppe mi fa molto piacere saperti
in ottima salute e piutosto bene…. Non preocuparti di noi la nostra vita
continua regolare, e il mio solo e unico pensiero e di attendere con
rassegnazione il tuo desiderato arrivo, con fedeltà le mie preghiere sono tante
e spero che il signore anche in questo momento cosi triste ci voglia aiutare.
Dimmi se posso scriverti anche con altra carta se ai ricevuto dei miei scritti
che io sempre ti o risposto. Stai tranquillo pensa solo alla tua salute e
abiati ogni riguardo se ti occorre qualcosa faccelo sapere, in questo mese vado
da tua sorella e ti faremo un pacco tutti i miei ti salutano come pure tuo
filioccio comincia camminare e sa quasi dire padrino Beppe vedrai quanto e
grazioso. Se puoi sai che i tuoi scritti li desidero tanto. Pensando di poter
presto dirti tante altre cose e poterti abraciare ti saluto caramente con mille
abraci e bacioni Tua per sempre Rina stai tranquillo e pensa che non sei solo
non dimenticato tutti abiamo un solo pensiero di averti presto con noi Bacioni
e ricordati santa Rita.”
Rina,
allora, si recava spesso a pregare nella piccola chiesetta di Santa Rita, proprio
in fondo al Corso Ricci. Durante la prigionia, egli la immaginava là,
inginocchiata con le lacrime che scendevano sulle sue guance delicate pensando
a lui nel freddo, alla fame, in pericolo di vita…
Giuseppe
non aveva mai mancato di andare a trovare i parenti e gli amici in ospedale
durante le loro lunghe e crudeli malattie. Arrivava con quelle sue gambe lunghe
e rigide a causa dei piedi congelati al tempo di guerra, un po’ curvo sulla
schiena. Portava il suo conforto, quelle parole dal tono burbero, e poi se ne
andava via triste e preoccupato.
Ma
adesso era malato, inutile, mentre avrebbe voluto essere a casa a dividere
molti altri giorni con sua moglie, ritornare a guidare l’automobile ferma da
mesi in strada (e chissà se sarebbe ripartita senza difficoltà, chissà se
nessuno, vedendola sempre nello stesso punto, non le aveva fatto qualche dispetto!),
essere vivo tra gli altri. Proprio ora che la vita non sarebbe stata più dura,
ci sarebbe stata solo quella serenità, quella gioia di accompagnare una nipotina
che lo adorava e che aveva bisogno di lui...
A
Lavagnola, il quartiere savonese dove ormai egli abitava da trent’anni, i
commercianti di Via Crispi li conoscevano tutti: “Papaleo abbigliamento”, ad
esempio, dove andavano insieme. La signora mostrava molti capi di abbigliamento
e la nipotina rispondeva sempre di no a tutto, per non fargli spendere soldi,
così come le aveva insegnato la mamma. Ma gli zii qualcosa le compravano
sempre, magari un paio di calze (collant, come le chiamava lei).
Poi
c’era il giornalaio che vendeva quelle accattivanti buste con piccoli giochi e
libretti da colorare con la “penna magica”, la drogheria, meraviglioso regno di
caramelle, confetti da gustare uno per uno e cioccolati…
Quando
Giuseppe passava nella strada da solo, la mattina, gli chiedevano notizie di
lei, ricordandogli tutte quelle frasi che Zarina, con la più grande spontaneità
e serietà tipica dei bimbi, rivolgeva loro. La bocca dello zio si allargava in
un sorriso sdentato e allegro:
-Oggi
lavoro: andrò a prenderla a scuola e poi la terremo fino a sera! –
Lo
chiamava “lavoro” quello, così come le partite a carte in Società anzi, se,
qualche volta, la madre veniva a riprendere la figlia prima di sera protestava:
-Voglio tenerla di più, altrimenti poi cosa faccio? In Società non posso più
andare, ormai le coppie di gioco sono state fatte e devo rimanere in casa. –
Le
faceva trovare l’ovetto Kinder (assolutamente proibito dalla madre!), i
biscotti Krumiri e Bucaneve, l’acqua minerale Fiuggi. Con loro Zarina stava
bene, mangiava, beveva, rideva… e aveva reso la sua vita felice. Egli si
sentiva ancora pieno di energia, voleva impegnare il suo tempo, un bel tempo,
con attività piacevoli: la mattina la spesa, qualche commissione, il pomeriggio
i bambini o le partite a carte. Poi, la sera, c’era la televisione, qualche
volta trasmettevano le partite di calcio che egli amava molto.
A casa
sua, nel piccolo soggiorno, ognuno aveva il suo posto a tavola: zia Rina dal
lato cucinino, lui verso la finestra e Zarina nel posto d’onore da dove poteva
vedere anche la televisione. La mamma a casa, infatti, seguiva il telegiornale
e non le lasciava vedere i cartoni animati. Ma là, nel regno degli zii, tutto
era possibile!
Qualche
volta, i genitori la lasciavano anche a dormire: allora, dopo essersi lavata i
dentini, si sistemava nel lettino e zia Rina le raccontava la favola di
Cappuccetto Rosso. –Non la racconti giusta! Invece lo zio me la racconta
giusta. -la rimproverava la nipotina che la ricordava meglio. La zia, al
contrario, l’aveva un po’ dimenticata, ma non aveva importanza. -Me la racconti
ancora zia? - E, alla fine: -Di nuovo, zia!- Per tante e tante volte fintanto
che il sonno non chiudeva i suoi grandi occhi verdi.
In una
Krieggsgefangenenpost (corrispondenza dei prigionieri di guerra)
Antwort-Postkarte (cartolina postale di risposta) An den Kriegsgefangenen (al
prigioniero di guerra) il 6 dicembre 1943 sua sorella Gemma gli scriveva: “Caro
Beppe, sono tanto contenta che stai bene, noi stiamo bene, per ora tutto è
normale, ma la nostra preoccupazione è per te. Perché non mi scrivi di più? Se
hai bisogno vito e vestiario fammelo sapere che te lo mando subito. Ho mandato
a Rina le tue cartoline, sta bene e attende con noi il tuo desiderato ritorno.
Spero avrai ricevuto le prime due nostre cartoline. Tutti uniti ti salutiamo.”
“Carissimo Giuseppe,- era la sua fidanzata
Rina a compilare il messaggio per il
geniere Masenga Giuseppe Gefangenennummer (numero del prigioniero):
36013 Lager-Bezeichnung 20512/g. W. M.-Stammlager 317 (XVIII C) Markt Pongau
(Gau Salzburg) Deutschland (Germania) datato 11-9-44 - Noi sempre tutti bene,
come speriamo sempre di te. La nostra decisione è di rimanere qui in qualunque
caso. Ti raccomando te che ai chi ti attende, quindi abiati riguardo più possibile
e stai tranquillo se anche non ricevi noi stiamo sempre bene in settimana
scrivo a tua sorella. Tanti saluti dai miei un forte abracio Bacioni Tua per sempre
Rina”
Parole
ingiallite e consumate dal tempo: tua per sempre, diceva allora Rina e così era
stato... L’aveva aspettato fino alla fine della guerra e della prigionia, il 17
marzo 1946 si erano sposati nella chiesa di San Francesco da Paola a Savona e
ora, ormai anziani, avevano un po’ di sicurezza: qualche piccolo risparmio in
banca, un appartamentino in affitto.
Fino a
pochi anni prima avevano dovuto lavorare nel loro magazzino di vini
all’ingrosso e dal lunedì al sabato erano sempre impegnati. Finalmente la vita
si faceva quieta, qualche visita ai nipoti, qualche giretto per la città, il
gelato della famosa “Casa del gelato” (Zarina ne andava matta, specialmente per
i gusti crema e stracciatella!), chi poteva stare meglio di loro?
“Caro
Giuseppe. -era suo fratello il 5-10-44 e
sulla missiva, proprio come in tutte le altre, spiccava il timbro nero VERIFICA
PER CENSURA - Abbiamo ricevuto la tua cartolina postale siamo contenti che la
tua salute e sempre ottima. In questi giorni ti abbiamo fatto il pacco
vestiario, entro il 20 ottobre te ne facciamo un altro mangiativo. Se ai
bisogno di altro scrivici noi faremo tutto il possibile per accontentarti. Noi
di salute tutti bene, anche la bambina ti manda tanti bacioni, in attesa di
vederci presto sempre ricordandoti tuo fratello Battista Masenga” oppure “Caro
Beppe, Ho ricevuto la tua del 23/4 sono contenta della tua ottima salute e del
buon trattamento che ricevi dai Tedeschi. Credimi Beppe caro non sei esagerato
nella tua richiesta, sono felice di poterti accontentare. Domani ti spedisco il
pacco con: pane-frutta- marmellata-foto-fruttarelli- (biscotti e tabacco della
tua Rina) spero avrai già ricevuto un altro pacco. Noi tutti stiamo bene anche
la piccola. Ringrazia Rina delle sue gentilezze. Ti saluto con un grande
desiderio di vederti 9/5/44 Bacioni tua Gemma”.
Le sue
nipotine, Ornella figlia di Battista e Miretta figlia di Gemma, erano nate che
lui era lontano.
Ora, a
loro volta, erano donne e avevano dei figli già grandi! In quelle cartoline postali, alcune le aveva
conservate, c’erano tanti ricordi familiari ma dicevano sempre “tu stai bene,
noi stiamo bene”. Non si poteva,
infatti, dire la verità, c’era la censura e già era una fortuna che giungessero
a destinazione, anche con qualche vistosa cancellatura blu, e che, attraverso
la Croce Rossa del Vaticano, arrivasse qualche pacco. Le scatole di sardine,
poi, erano una vera leccornia: con il loro olio si poteva condire l’erba strappata
di nascosto sotto il reticolato in qualche angolo del campo con la paura di
essere frustati. Le sigarette, invece, confondevano la fame che attanagliava lo
stomaco. Nel campo di concentramento aveva imparato a cercare nel fumo l’aiuto
per sopravvivere e, forse, era proprio ciò che aveva rovinato il suo corpo:
enfisema polmonare, dicevano ora i medici.
-Masenga!
- ecco di nuovo l’infermiera con un carrellino e un medico
-l’elettrocardiogramma.-
Quante
volte avevano curiosato con quei fili colorati nel funzionamento del suo cuore:
le coronarie, egli aveva imparato a riconoscere i loro capricci quando sentiva
un certo fastidio al torace. I suoi compagni di stanza, nell’ospedale San
Paolo, leggevano il giornale e ciarlavano. Il suo vicino di letto aveva avuto
un infarto poco tempo prima e gli chiedeva consigli perché Giuseppe, di
infarti, ne aveva già avuti tre!
“Caro
Beppe, -ancora una volta aveva chiuso gli occhi e il passato riprendeva vita-
Proprio alla vigilia di San giuseppe ho ricevuto tue notizie, figurati sono
state per me graditissime, specie quando si riceve notizie tue non chiare: Come
da tua cartolina pensavo che ti avessero trasferito, invece pare rimani sempre
al solito posto. Sono contenta che hai ricevuto il pacco e nostre notizie.
Beppe caro, devi credere alle nostre buone notizie e non stare in pensiero per
noi perché tutto prosegue bene come prima. Io lavoro sempre in Vetreria e il
lavoro credimi non mi manca. Mi raccomando Beppe di mandarmi a chiedere tutto
quello che ti manca perché io ben volentieri te lo spedisco e stà tranquillo
non è sacrificio per me. In settimana te ne mando un altro; al ricevere di
questa mia spero avrai già ricevuto il nostro pacco. Gianni e Tessy stanno
molto bene. La piccola Ornella cresce sana e bella, appena avremo fotografie te
le mando. Senti, Beppe, se la tua salute ne risente non ti pare meglio far
domanda di rimpatrio nell’Esercito Repubblicano?…. almeno sei più vicino a
noi!…questo non è un consiglio, fa come credi…. La Rina non è ancora stata da
noi. Le spedisco una tua cartolina perché ti possa mandare sue notizie. Bacioni
cari e tanti affettuosi abbracci tua sorella Gemma 20/3-1944”
No, non
aveva fatto domanda di rimpatrio, come non l’avevano fatta tantissimi italiani
che avevano scelto di rimanere in campo di concentramento: non voleva far parte
dell’esercito della Repubblica di Salò.
Quando,
finita la guerra, finalmente, era riuscito a tornare a casa, aveva deciso anche
di non parlare più di tutto quel periodo e di cercare solo di dimenticare.
Zio
Giuseppe non comprava più il giornale da diversi giorni: quando il carrello con
tutte le pubblicazioni passava nel corridoio del suo piano e si fermava davanti
alla sua stanza, egli si voltava con fastidio dall’altra parte perché proprio
non ce la faceva a leggere. Le vicende, anche quelle sportive che lo avevano
tanto affascinato, gli giungevano attenuate e lontane, poco interessanti: era
solo tanto stanco, si diceva, e prima di tutto doveva riprendere le forze.
“Carissimo Giuseppe ti spero sempre bene- era
ancora la sua Rina dell’11-6-44 a entrare nei pensieri- e ti raccomando di
scrivere più sovente e voglio sapere se sei sempre grasso uguale? non ai preso
rafreddore ai dei bravi compagni e stai tranquillo riguardo a noi sempre bene
in questo mese spero di andare sino da tua sorella tanti saluti dai miei e un
bacino da tuo figlioccio mille abracci con tanto desiderio di averti presto con
me bacioni tua Rina”
Grasso uguale?
Qualche
volta, nei pacchi, c’era anche qualche soldo italiano. Una donna tedesca,
Gretel, se la rammentava ancora vagamente un po’ curva e misera, si avvicinava
spesso ai reticolati del campo. Con gesti e poche parole tra il tedesco e
l’italiano gli aveva fatto capire che suo figlio era militare in Italia. Voleva
dei soldi da mandargli perché anche lui potesse stare un po’ meglio in quel
paese così lontano e sconosciuto. Forse, il figlio avrebbe potuto comprare un
pezzo di burro, una maglia calda, magari dei calzettoni pesanti... ma faceva
freddo o caldo in Italia?
-No,
non c’è sempre la neve, dipende dai posti. - rispondeva lui.- Al mio paese,
Asti, d’inverno c’è la neve ma a Savona, dove vive la mia fidanzata, d’inverno
fa molto meno freddo e la neve non c’è mai.-
In
cambio ella gli dava pezzi di pane e patate che lui e i compagni della camerata
dividevano e razionavano con cura.
“Caro
Beppe, Sono contenta che hai ricevuto nostre notizie. Spero riceverai anche il
pacco che ti abbiamo spedito. Te ne invieremo un altro contenente quello che mi
hai richiesto in data 19/1/44. Noi stiamo tutti bene. La piccola Ornella
ingrassa giorno per giorno. Sabato venturo la Tessy e la piccola andranno
nuovamente a Entracque perché oltre ad essere al sicuro, la campagna può
giovare a tutte e due. Mi raccomando di stare tranquilli a nostro riguardo che
per ora tutto è tranquillo, anzi ti dico che coi tedeschi si stà bene. Rina
un'altra settimana mi viene a trovare, sono contenta così posso sentire a voce
come stanno le cose laggiù e se è necessario la tengo qui con me. Va bene? Sei contento?… Appena avrai ricevuto il pacco
fammelo sapere così posso regolarmi per gli altri. Qualunque cosa che tu abbia
bisogna fammelo sapere. Ormai le Vetrerie sono tutte chiuse fin dopo la guerra
sarà ben difficile che si riprenda il lavoro. Il tuo direttore ha fatto domanda
per il tuo rimpatrio ma fin ora nulla di nuovo. Sta bene, e cerca di avere
riguardo più che puoi alla tua salute. Iddio ci protegga e ci assista. Ho tanto
desiderio di vederti. Ti bacio con tanto affetto tua sorella Gemma 2/2/1944”
Il 31
maggio 1946, una dichiarazione dell’Associazione Nazionale Ex Internati sezione
provinciale di Asti, lo aveva qualificato come Ex Internato Militare dei
nazi-fascisti proveniente dalla Germania campo XVIII_C Matr.N36013. È stato
internato, si diceva nel documento, il 9-9-1943 e rimpatriato il 10-5-1945.
Alla
fine della guerra, dopo il lungo viaggio di ritorno, sua sorella si era presa
cura di lui. C’era voluto un anno per rimettersi a posto. Un po’ l’aveva
passato in montagna a Bardonecchia e un po’ a casa con Gemma.
Rimettersi
era stato difficile: dopo pochi giorni dall’arrivo, era diventato tutto gonfio
e poteva mangiare solo pochissimo. Eppure, la prima volta che si era trovato a pranzo
con i parenti, e il grilletto con la pasta per tutti era giunto in tavola, egli
se lo era preso e messo davanti a sé, incurante degli altri. Aveva dimenticato
quei sapori, quei colori del cibo di casa; la paura della fame gli era entrata
dentro e non ne sarebbe uscita che molti anni dopo.
La
Vetreria a Savona era stata bombardata e non funzionava più. Così Giuseppe
aveva perso il lavoro, era tornato ad Asti e, per un po’, dopo il matrimonio,
lui e Rina erano vissuti là. Infine, avevano deciso di aprire un magazzino di
vini all’ingrosso a Savona e vi si erano stabiliti definitivamente.
In quel
momento, a un paio di chilometri di distanza, nell’aula ampia e luminosa della
scuola elementare “XXV Aprile”, vicino alla vetrata dalla quale si scorgeva
l’azzurro chiaro del mare proprio fino all’orizzonte, una bimba di sei anni,
con gli occhi verdi, dopo aver attentamente copiato sul quaderno la data dalla
lavagna, 8 ottobre 1998, si impegnava, seduta nel banco, a completare un
disegno dai colori vivaci e allegri.
Un
pensiero veloce l’aveva colpita: “Chissà
come sta zio Apu...”
La
mamma andava sempre a trovarlo all’ospedale e, due sere prima, aveva portato
anche lei, di nascosto!
Certo,
i bambini non potevano entrare nell’ospedale e spesso, lei e sua sorella
attendevano nella sala d’aspetto quando la mamma non sapeva dove lasciarle.
Intanto, mangiavano un pezzo di focaccia (era così buona nel bar
dell’ospedale!) o un gelato.
Due
sere prima, però, approfittando della momentanea assenza delle infermiere dal
corridoio, la mamma l’aveva fatta correre un attimo, solo un attimo, a salutare
lo zio...
Egli
era là, abbandonato sui cuscini in un letto bianco, ma il suo sguardo, a
vederla, si era illuminato...
“Forse,
-pensava ancora Zarina- lo zio sarà a casa oggi. La mamma mi porterà là e
giocheremo a ‘rubamazzetto’. Barerò solo un poco, guarderò le carte dello zio,
quando lui le poserà sul tavolo e girerà la testa e così riuscirò a vincere!”
Le
voleva tanto bene lo zio: Zarina era la più piccola di un lungo numero di
nipoti, tra cui Enrico, il prediletto, per i quali l’abitazione degli zii aveva
rappresentato sempre un rifugio. “Mi pare proprio di vederlo lo zio, - lo
sguardo di Zarina si allungava là, nel cielo, dove il celeste dell’atmosfera si
faceva più sbiadito e lieve – però è spettinato! I suoi capelli sono tutti in
disordine! Bisognerebbe pettinarlo.”
A
malincuore, dunque, Francesco Giuseppe, detto zio Apu, conscio di perdere una
dolce stagione della vita, aveva dovuto lasciare quel letto d’ospedale, quella
speranza di ripetere ancora e ancora: -Batti cinque! -
Il suo
spirito si era alzato lentamente nella stanza. L’aria si era fatta più fresca e
nessuno riusciva più ad ascoltarlo. Ma lui poteva vederli ancora tutti.
Sua
moglie sarebbe rimasta sola giorno dopo giorno, nella loro casa, a misurarsi
con le difficoltà della vita...
Pierina,
Rina per tutti, si era accorta della sua partenza. I parenti si erano stretti
intorno a lei che singhiozzava disperata.
La
mamma di Zarina, invece, gli aveva riavviato dolcemente quei capelli un po’
spettinati.
Poi, velocemente, erano giunti gli infermieri e avevano trasferito il suo corpo sulla barella per trasportarlo, coperto dal lenzuolo bianco, un paio di piani più sotto, nelle fredde camere dell’obitorio.
La
storia qui raccontata è assolutamente vera in ogni particolare. Giuseppe
Masenga era mio zio ed è stato internato in campo di concentramento dopo l’8
settembre 1943. Gli stralci di lettere presenti nel testo sono copiate da
lettere in mio possesso, per questo motivo non ho ritenuto di togliere gli
errori di ortografia.
Commenti
Posta un commento