IL FOGLIO LETTERARIO EDIZIONI, RIVISTA GRATUITA N. 19: Brandelli di uno scrittore precario di Mirko Tondi

 


BRANDELLI DI UNO SCRITTORE PRECARIO 
di MIRKO TONDI
Apologia della forma breve 
Una delle questioni sempreverdi in ambito letterario, per quanto sia già stata affrontata ripetutamente e sotto molteplici aspetti, è l’eterna diatriba tra racconto e romanzo. Talvolta pare quasi che le due diverse possibilità non possano neppure coesistere, come se non facessero parte della stessa immensa materia. Si sente spesso dire, infatti, che «No, i racconti non mi appassionano perché non faccio in tempo nemmeno ad affezionarmi ai personaggi» oppure qualcosa di generico come «Avrei voluto saperne di più». Di solito, all’inizio dei miei corsi di livello base, mi capita di chiedere quale sia la familiarità dei partecipanti con i racconti, premettendo che quel particolare corso prevederà soprattutto la lettura di storie di poche pagine (di solito comprese in un arco di lunghezza che va da una a circa una ventina) e l’obiettivo sarà proprio quello di scrivere racconti brevi. Tralasciando quella ridotta porzione di preferenze che va nella direzione del saggio o della poesia, una delle risposte che mi viene data più di frequente è che non vengono letti molti racconti, anzi risulta schiacciante la predilezione per i romanzi. Eccettuate le reminiscenze di lontani anni scolastici, suppongo che sia mancata probabilmente un’educazione letteraria al racconto. Ma potremmo spingerci anche verso un’altra facile spiegazione: il mercato impone una presenza massiccia di romanzi nelle librerie, negli Autogrill, nelle edicole e in qualsiasi altro luogo in cui si vendano libri, per cui viene a mancare proprio una sostanziale proposta al lettore, che non vedendo fisicamente il volume non può conoscerne l’esistenza (stiamo parlando di quel tipo di lettore che magari non consulta inserti settimanali o riviste di settore, ma che acquista il volume un po’ per istinto e un po’ per conoscenza, senza molta curiosità o voglia di lanciarsi in esperimenti “rischiosi”). In biblioteca, invece, venuta meno l’esigenza di commercializzare il prodotto, trovo spesso esposti anche libri di narratori di racconti, che probabilmente – se non fosse stato per qualche recensione letta proprio su quegli inserti e su quelle riviste – non avrei mai scoperto, e mi riferisco ad autori del calibro di Denis Johnson, Nathan Englander, Chris Offutt, Lucia Berlin. Già, le recensioni. Non sempre hanno il coraggio di dire cosa davvero troveremo dentro a un libro. Qualche volta mi sono imbattuto in articoli le cui descrizioni ammantavano di fascino l’opera in oggetto, senza però dichiarare in maniera schietta che si trattasse di una raccolta di racconti, al contrario definendola “storia” o addirittura proprio “romanzo”, insistendo sull’esposizione di alcuni personaggi o situazioni ma non accennando mai alla sua vera composizione. Giocando un po’ sporco, l’obiettivo in questi casi è dunque quello di non compromettere in partenza le vendite del libro. Difatti le antologie di racconti non reggono il confronto con i cugini romanzi, in termini di incassi; a meno che non si parli di classici autori americani come Salinger, Hemingway o Carver (a tutti gli scrittori di racconti non mancheranno certo nelle proprie librerie i Nove racconti del primo, I quarantanove racconti del secondo e Cattedrale o altre raccolte del terzo), oppure autori contemporanei dall’usato garantito – quelli che qualsiasi cosa scrivano avranno successo, perché ormai ultranoti – come Murakami Haruki. Da chi non ha dimestichezza con i racconti, questi vengono considerati un po’ come letteratura di serie b, ed è un peccato enorme, anche perché in Italia abbiamo una tradizione gloriosa, in questo senso: Calvino, Moravia, Sciascia, Buzzati, e decine di altri nomi. Goffredo Parise vinse il premio Strega con i suoi Sillabari (il secondo volume, a essere precisi) nel 1982; in tempi più recenti, uno scrittore di racconti come Paolo Cognetti (autore peraltro del notevole Sofia si veste sempre di nero) deve passare necessariamente alla forma più lunga per ottenere lo stesso riconoscimento (lo ha vinto nel 2017 con il romanzo Le otto montagne). La stagione dei grandi narratori di racconti pare quindi sia stata sacrificata sull’altare del commercio, della vendibilità del prodotto. Che poi, diciamo la verità, mettere sullo stesso piano racconti e romanzi non è nemmeno possibile; come se si potesse stabilire un confronto tra complessità e lo spessore di un’opera rock rispetto a un singolo brano musicale. Al di là di qualsiasi genere si parli. Ecco, non è un fatto di genere, questo va detto: i racconti rappresentano una differenza in fatto di forma, una forma che – considerate le sue peculiari caratteristiche – non tutti sono in grado di gestire. Difatti, sarà facile imbattersi in alcune interviste nelle quali certi romanzieri si dichiarano del tutto incapaci nel condensare una storia in un numero ristretto di pagine o al contrario narratori di racconti che si definiscono inadatti a strutturare e portare a termine un romanzo. Raymond Carver scriveva solo racconti e poesie, per esempio; diventò padre in giovane età e dovette svolgere lavori umili e faticosi (come l’operaio in una segheria, il custode, il fattorino per una farmacia) per sbarcare il lunario, dunque conciliò lo scarso tempo a disposizione con limitate sessioni di scrittura nelle quali riusciva a portare a termine dei testi brevi ma completi (corretti e ricorretti anche fino a trenta volte, e poi passavano per le mani del suo editor Gordon Lish, che limava ancora e ancora, fino a concepire quello che fu definito “minimalismo”, a sua volta generatore di una lunga schiera di emuli che dura tutt’oggi). Anton Cechov (che era anche medico) non scrisse mai romanzi, ma tantissimi racconti, opere teatrali e un reportage di viaggio di taglio giornalistico, L’isola di Sachalin (una colonia penale nell’estrema Siberia, dove documentò le condizioni dei deportati nei campi di lavoro); Cechov era un maestro della forma breve, creatore di strutture perfette, personaggi con poche ma decisive caratteristiche, che sapeva – passando pure attraverso il non detto, l’implicito, il sottotesto – spaziare da un registro leggero e grottesco (numerosi sono infatti i suoi divertissement, con tono umoristico o persino da parodia, come il racconto Il grasso e il magro) fino a spingersi nel dramma più puro (non risparmia infatti attimi di vera commozione, come nello strepitoso Il violino di Rotschild). 

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