IL PRETE di Gordiano Lupi, EBOOK GRATUITO da NON PERDERE!!!!!
PARZIALI RITRATTI D’AUTORE
Gordiano Lupi
Oggi si va a vela, amico mio… Noi non pubblichiamo per denaro, spero che l’abbia capito anche lei, mi spiega Lupi, mentre beviamo un caffè comodamente seduti nella piazza centrale di Piombino; altrimenti ho sbagliato proprio tutto nella vita, la letteratura nasce con la lirica.
Gli avevo chiesto un’intervista, da lui accettata con malcelata ritrosia. Quando gli chiedo perché scrive, lui mi guarda sottecchi e da buon toscano mi sorride compiacente.
Ho nostalgia di tutto, dice, pure delle cose che per me non significavano niente ma in ogni modo è la mia vita… i luoghi come questo e che conosco mi danno sicurezza, certezze, i volti conosciuti mi rendono sicuro, sono il simbolo della mia vita e mi tolgono la tristezza di torno; solo per questo ho accettato di rispondere alle sue domande, qui nel bel mezzo dei respiri della mia città.
Lei parla spesso di suo padre nei tuoi libri. Lupi ha un attimo di smarrimento, forse non si aspettava in prologo una domanda così secca, così intima, così personale.
Scuote la testa e poi risponde. Mio padre, sì, venivamo qui in questo bar, mio padre era un tipo all’antica, farfuglia mentre gli occhi gli si illuminano. Poi distoglie lo sguardo e fissa la tazzina del caffè. Il caffè non è più buono come una volta, dice balbettando nel ricordare l’infanzia … l’infanzia, i ricordi, le lunghe passeggiate, continua Lupi mentre ordiniamo un altro
1
Don Carlo spense il computer e si
preparò per la notte. Restava il tempo per riordinare le sue carte prima di
recitare il compieta, un’abitudine presa in seminario che non
abbandonava mai. Riviste di teologia facevano bella mostra su uno spartano
tavolo di truciolato che il prete usava per studiare e lavorare. Era da quel
posto che scriveva le sue omelie, leggeva un consunto messale e
ogni tanto sfogliava qualche pagina di una vecchia edizione del Vangelo. Il Tirreno,
che non dimenticava mai di acquistare dal solito edicolante del centro storico,
era ancora aperto sulle pagine della cronaca locale. L’articolo riferiva che
avevano appena liberato un folle individuo che dodici anni prima aveva
sterminato la sua famiglia. Aveva scontato la pena, diceva il giornalista, la
buona condotta era stata un aiuto decisivo e adesso il killer di un tempo
pareva persino che studiasse teologia.
“Incredibile”, mormorò Don Carlo,
ripensando a quella triste vicenda che aveva gettato Piombino nello sconforto.
Lui non era ancora parroco all’epoca dei fatti, frequentava il seminario e
studiava davvero teologia, come sempre aveva fatto, ma conosceva quella triste
storia per filo e per segno: una famiglia sterminata con la bombola del gas.
Un’esplosione che distrusse un intero palazzo ma non le prove d’un gesto
finale. Tre persone erano state massacrate a colpi di coltello. Il ragazzo era
colpevole, ma gli inquirenti non lo capirono subito, in un primo tempo venne
trattato come un sopravvissuto, un miracolato dall’esplosione. E invece era
stato lui a uccidere. Incapacità di intendere e di volere, recitava la perizia
medico - legale. Il ragazzo non comprendeva il senso delle sue azioni e viveva
in uno stato di dissociazione.
Una famiglia distrutta -
pensò Don Carlo - e noi preti siamo chiamati ad assolvere persone simili.
Ricordò per un attimo le foto
dell’eccidio che un giorno un amico avvocato gli aveva mostrato. La piccola
riversa in un lago di sangue, la moglie massacrata dai colpi di coltello e la
sorella priva di vita sul tavolo di marmo. Scene indimenticabili.
2
Don Carlo era un giovane parroco,
da poco chiamato a ricoprire un difficile incarico in quel lembo di terra
toscana da sempre poco propensa a mostrare segni di fede. La sua parrocchia era
una chiesa francescana del centro storico, un suggestivo duomo a una navata, la
facciata scolpita in mattoncini rossi e un rosone che raffigurava il Salvatore.
La chiesa si apriva su poche scalinate che conducevano a una larga piazza che
portava al mare. Un chiostro laterale era sede di mostre di pittura,
manifestazioni culturali e conferenze, un luogo che prendeva vita durante
l’estate. La casa del prete era proprio accanto alla chiesa, un locale di poche
stanze, ma più che sufficiente per lui che abitava solo. Erano soltanto tre anni
che Don Carlo viveva a Piombino, ma aveva assistito a troppi eventi spiacevoli
e aveva dovuto vedere tante cose che non gradiva.
“Non mi sono fatto prete per
assistere alla vittoria del male, ma per contrastarlo”, mormorava tra una
preghiera e l’altra; persino quando leggeva il Vangelo e le parole di Gesù
suggerivano che era suo dovere assolvere e perdonare. Il suo pensiero
ricorrente era che la debolezza umana spesso distruggeva le perfette
creazioni di Dio. E questo non poteva permetterlo.
Don Carlo ripensò agli anni del
seminario. Aveva abbandonato l’Università e una facoltà di giurisprudenza che
non faceva per lui. Si era messo di buona lena a studiare teologia, abbinando
la teoria religiosa allo studio di psicologia e informatica. Pensava che un buon
parroco dovesse capire a fondo l’animo umano, la psiche di un individuo non
avrebbe dovuto avere segreti per lui, se voleva comprendere l’origine del
peccato e tentare di arginarlo. Era giovane, amava usare il computer per
studiare e approfondire argomenti, ma aveva imparato anche a programmare
sistemi informatici che utilizzava per semplificare il lavoro. Programmi applicazioni e internet erano il
suo pane quotidiano e non esistevano lavori che non fosse capace di realizzare
con il mouse.
L’incarico a Piombino era
arrivato quando lui aveva solo ventisette anni, adesso che aveva compiuto i
trenta sentiva dentro di sé un grande senso di sconforto.
Ho fallito la mia missione
- pensava sempre più spesso - ogni giorno che passa la situazione peggiora.
Don Carlo prese il libro delle
preghiere e salì le scale interne alla canonica che conducevano alla sua
abitazione. La sua casa era una parrocchia affacciata sul vecchio porticciolo
davanti all’Isola d’Elba. Viveva solo da quando i suoi genitori erano morti e non
voleva donne che si occupassero delle faccende domestiche. Sapeva badare a se
stesso sin dai tempi del seminario e poi non voleva persone estranee che
decidessero i tempi della sua vita. Se una sera voleva restare fino a tardi al
computer e non cenare era libero di farlo. In fondo la cosa migliore di essere
un prete era il fatto di non aver padroni. A parte Dio…
Don Carlo spense il riscaldamento, in un gesto abitudinario che faceva prima di mettersi sotto le coperte. Fuori pioveva e faceva freddo, un rigido vento di tramontana percuoteva le imposte e si faceva largo tra i vicoli bui della città vecchia. Tra non molto sarebbe stato Natale. Il solito ipocrita Natale di provincia, pensò. E si mise con diligenza a recitare il compieta.
3
Don Carlo non amava confessare.
Non sopportava di dover sentire una serie di peccati recitati da persone che
attendevano parole di conforto e soprattutto assoluzione. Non tutti la
meritavano. Lui era convinto che anche il Signore avrebbe praticato diversi
distinguo. E poi nel periodo natalizio le confessioni aumentavano. Tutti volevano arrivare al giorno di festa
con la coscienza pulita, pensavano che fossero sufficienti poche preghiere
mandate a memoria per risolvere ogni problema. Piombino era un paese di
miscredenti, ma la tradizione esigeva rispetto, anche se quel posto era stato
un covo di comunisti mangiapreti e adesso apriva le braccia ai culti
orientali e alle superstizioni di ogni tipo. Gli atei e gli indifferenti erano
molti, ma lui comprendeva più loro dei falsi cattolici, di chi veniva a
chiedere un’assoluzione solo per Natale. Non tutto poteva essere perdonato. Dio
era giusto e misericordioso, ma quando era il caso sapeva punire.
Quella mattina Don Carlo aveva
dovuto ascoltare una serie di confessioni che andavano oltre il consentito.
Troppe rivelazioni inaccettabili che passavano il segno, fatti turpi e
atteggiamenti amorali che il suo animo non era capace di trattenere.
A tutto c’era un limite…
Il segno della degenerazione dei
costumi andava di pari passo con il correre del tempo. Ma lui avrebbe voluto
fermare il tempo. Voleva tornare indietro, ai sogni di ragazzino, e viverli con
la stessa forza di quei giorni in cui aveva deciso che sarebbe diventato prete
e avrebbe abbracciato la fede come unico scopo della sua vita.
Francesca Poggi, una giovane
parrocchiana che sembrava così devota e timorata di Dio, aveva confessato la
sua volontà di abbandonare la famiglia. Si era innamorata di un marinaio di
passaggio e subito dopo il Natale sarebbe scappata con lui.
Marco Acerbi, imprenditore che
dava lavoro a molti piombinesi, aveva confessato che da tempo conduceva una
doppia vita e manteneva una seconda moglie a Santo Domingo, dove spesso si
recava per lavori edili.
Romolo Fanetti, un parrocchiano
che non perdeva una funzione, gli aveva confidato che da un po’ di tempo si
sentiva attratto dalle ragazzine che passavano sotto casa per andare a scuola;
le spiava e si eccitava alla vista di membra seminude, dei pantaloni a vita
bassa che scoprivano natiche acerbe.
Carlo Romei era proprietario di
una piccola azienda ben avviata, ma aveva deciso di farla fallire per poter
passare il resto della sua vita lontano dai problemi, in una villa sul mare che
si era comprato a Porto Rico. Avrebbe messo sul lastrico centinaia di famiglie,
ma a lui la cosa sembrava non toccarlo più di tanto. Era sufficiente che il
prete lo assolvesse dal suo peccato.
Don Carlo pensò che non era
questo il lavoro che avrebbe voluto affrontare. Confessare era il suo dramma
quotidiano, perché era stufo di ascoltare storie di tradimenti e di piccole
truffe, ma soprattutto non voleva più assolvere persone che disprezzava.
“Ho scelto di fare il prete e ho
accettato tutto di questa vita. Persino il celibato. Persino la mancanza della
compagnia di una donna. E devo ascoltare persone che non accettano neppure
l’impegno di non abbandonare una famiglia e che fuggono dai doveri. Perché
dovrei assolvere? Dio sa essere buono, ma quando punisce diventa inflessibile”,
mormorava sfogliando il messale, tra una preghiera e l’altra, ricordando le
parole ascoltate al confessionale.
Il vento di mare soffiava
inclemente sulle scogliere del promontorio roccioso. Don Carlo aveva terminato
le confessioni del mattino e si era spinto verso la piazza che si affaccia sul
mare e scopriva un panorama di isole lontane. Faceva freddo. Lui alzò il bavero
al cappotto nero che indossava sopra la tonaca da prete e si lasciò sconvolgere
i capelli dal maestrale. Non sopportava i cappelli. Non li aveva mai portati.
Don Carlo si fermò di fronte alla balaustra in marmo bianco, luogo consueto di
coppie innamorate e di ragazzini che si scambiano i primi baci, sedette sopra
una panchina e osservò il volo radente di un gabbiano. In lontananza il fumo
nero che saliva in cielo dalla ciminiera delle acciaierie realizzava un
singolare contrasto con il colore del mare in burrasca. “Non meritano il mio perdono”, mormorò. “Dio
non lo farebbe”, concluse. In lontananza l’Isola d’Elba mostrava un aspetto
imbronciato, sotto un nero manto di densa pioggia mista a neve che imbiancava
la cima del monte Capanne. Il prete pensò che era tempo di rientrare. Un
importante lavoro al computer lo attendeva.
4
Sapevo che mi sarebbe servito
studiare informatica. Adesso è troppo importante. Molti miei colleghi non usano
il computer, ma sono fuori dalla realtà. Oggi è impossibile farne a meno,
pensava Don Carlo.
Il computer era acceso davanti
alle sue mani che armeggiavano frenetiche tra mouse e tastiera. Era tanto che
ci pensava, ma adesso era venuto il momento di passare all’azione. Avrebbe
costruito delle trappole informatiche dove i suoi parrocchiani peccatori
non avrebbero potuto fare a meno di cadere. Era l’unica cosa possibile per
aiutare il suo Dio a fare giustizia.
“Troppo tardi punire nell’aldilà.
I peccati vanno scontati vivendo”, mormorava mentre lavorava di buona lena tra
formule matematiche. Ricordava le lunghe lezioni impartite da un tecnico di
laboratorio del seminario. Il programma ufficiale non prevedeva informatica, ma
lui aveva voluto approfondire perché sapeva che non avrebbe potuto farne a
meno. Era stato proprio il tecnico a renderlo partecipe di un programma proibito,
un marchingegno diabolico che ipnotizzava l’utente finale sino a renderlo privo
di ogni volontà. Gli studi di psicologia avevano fatto il resto: Don Carlo
sapeva come suggestionare la psiche di un uomo.
Il lavoro al computer lo impegnò
per buona parte della giornata, in pratica tutto il tempo libero dalle funzioni
previste dal Santo Natale. Non ricevette neppure i volontari per la costruzione
del presepe, ma delegò i parrocchiani più anziani. Era più importante quello
che stava facendo, perché tra breve sarebbero state pronte le sue trappole
informatiche, meccanismi punitivi di una comunità corrotta, che aveva smarrito
la strada di Dio e andava castigata senza pietà.
Una parola d’ordine. Bastava una
parola d’ordine. Era importante inserirla nel contesto giusto e fare in modo
che il soggetto la scaricasse nella memoria del suo computer. Poi ci avrebbe
pensato lui ad attivarla, telefonando al cellulare della persona interessata,
inviando un SMS o una mail.
Don Carlo sorrise e si scoprì a
pensare che Dio sarebbe stato contento della sua scoperta. Il suo programma
avrebbe ripulito quel lembo di terra affacciato sul mare da tanta lurida feccia
che non meritava di vivere.
In fondo lo faccio per lui.
Sto solo semplificando il lavoro finale, pensò.
5
Don Carlo era un prete moderno,
possedeva uno schedario aggiornato con indirizzi telematici e recapiti di
cellulare dei parrocchiani più fedeli. Fu così che cominciò a inviare e-mail
trappola ai parrocchiani che avevano confessato peccati orribili. Ogni
messaggio conteneva l’esca adatta alla persona da colpire. Il prete organizzò
tutto con grande cura per evitare di essere individuato. Le mail partivano da
un Internet Point della periferia cittadina (così da non far tracciare il suo
computer) e ogni destinatario veniva colpito dal messaggio che lo riguardava.
Francesca Poggi ricevette una
comunicazione inquietante con un oggetto che recitava: conosco il tuo
segreto. Era impossibile non aprire una mail introdotta da una frase così
sibillina, anche perché lei sapeva di nascondere un segreto. Il contenuto era
soltanto una parola: Puttana. La ragazza non conosceva il mittente,
pensò fosse uno scherzo e cestinò il messaggio senza dare peso alla cosa.
Marco Acerbi ricevette una mail
che aveva come oggetto: Santo Domingo. In un attimo aprì il documento e
lesse la parola: Bastardo che campeggiava all’interno. Marco fissò a
lungo l’espressione offensiva, ma non riconobbe il mittente. Persone che
fanno scherzi di pessimo gusto, pensò.
Si liberò del documento senza starci troppo a pensare.
Romolo Fanetti si vide recapitare
una foto di una ragazzina che indossava un costume seducente, introdotta dalla
promessa di minorenni sexy. All’interno della mail, accanto alla foto in
formato jpg, solo una parola: Pervertito.
Carlo Romei lesse una mail con un
titolo inquietante: So cosa vuoi fare, ma non ti conviene, all’interno
campeggiava solo una parola: Truffatore.
La seconda parte del piano
prevedeva l’acquisto di tre cellulari usa e getta. La tecnologia aveva
mosso passi da gigante negli ultimi anni e aiutava, soprattutto in certe
situazioni. Don Carlo ricordava ancora i primi modelli di cellulare che erano
così grandi da dover essere portati attaccati ai pantaloni in un’apposita
fondina, come fossero pistole. Ora, con trenta euro, si poteva comprare un
cellulare da utilizzare una volta e poi gettare per sempre. Puro consumismo che
normalmente il prete avrebbe disprezzato, ma in quel frangente l’innovazione
tornava molto utile.
Don Carlo fece la prima
telefonata a Francesca, modificando la voce in un respiro affannoso, ma in ogni
caso doveva pronunciare soltanto la parola che faceva scattare il comando
ipnotico: Puttana. Don Carlo mormorò l’espressione offensiva con
soddisfazione.
In fondo questo sei,
pensò.
La parola d’ordine trasformò
Francesca in una schiava ubbidiente e la spinse a uccidere il suo amante e a
suicidarsi con lui nel letto ancora caldo d’amore. Francesca avrebbe dovuto
preparare un caffè, ma invece di disporre la moka sul fuoco lasciò il
gas aperto, libero di diffondere esalazioni mortali per tutta la casa. Il
marito sarebbe rientrato il giorno dopo da un viaggio di lavoro e l’avrebbe
trovata priva di vita tra le braccia dell’amante nel letto del tradimento.
Marco ricevette una telefonata
simile e una voce che sembrava provenire dall’oltretomba recitò il nome del
paese dove sarebbe voluto andare a vivere per sempre. La sua punizione fu un
suicidio esemplare: il prete lo spinse a tagliarsi vene e gola, proprio mentre sfogliava l’album
segreto contenente le foto della sua famiglia dominicana. La moglie
avrebbe scoperto in un solo momento il corpo privo di vita e le prove del
tradimento, evitando di piangere troppo sul destino di un marito fedifrago.
Romeo venne costretto a
suicidarsi tagliandosi il pene e morì dissanguato in mezzo alle foto delle
ragazzine che aveva appena scaricato da siti pedofili.
Carlo udì la sua ultima
telefonata e subito dopo corse trafelato nel magazzino della sua azienda. Prese
una sega elettrica, la posizionò verso il basso ventre e praticò un profonda
incisione che fece uscire fuori buona parte delle interiora. Il suo corpo privo
di vita venne ritrovato da alcuni lavoratori con la materia intestinale tra le
mani, proteso in un inutile, disperato tentativo di porre rimedio al male che
si era provocato. Accanto al corpo trovarono la sua confessione e la volontà di
far fallire l’azienda e di licenziare tutti gli operai. I suoi dipendenti non
avevano motivo di rimpiangere un simile padrone.
Don Carlo era molto soddisfatto
del lavoro svolto. Alla vigilia del Santo Natale la sua giustizia inflessibile
si era abbattuta sugli uomini, come la scure di un Dio vendicativo. Il Tirreno
del giorno successivo sarebbe uscito con un titolo a caratteri cubitali: Un
Natale rosso sangue - ondata di suicidi a Piombino.
Nessuno poteva sospettare la
tragica verità.
Non c’era miglior modo di santificare il Natale secondo il prete. Aveva punito chi non meritava di vivere, facendo in modo che il castigo finale provenisse dalle mani di chi aveva peccato. Una pena del contrappasso - di dantesca memoria - che mieteva vittime come una falce implacabile. La parrocchia contava quattro peccatori in meno, finalmente si cominciava respirare aria pulita.
6
Il Natale passò tranquillo. A
parte la stampa che si occupò a lungo della strana epidemia di suicidi e tenne
desta l’attenzione del pubblico. I giornalisti locali, che secondo Don Carlo
erano gente da quattro soldi, patetica parodia del vero giornalismo, usarono
proprio quella strana espressione: epidemia di suicidi.
“Come se potesse esistere un
virus che impone di uccidersi. Non siamo in un film di fantascienza di terza
categoria…”, mormorava il prete.
Un virus non esisteva, ma un
programma dotato di una parola d’ordine aveva fatto giustizia. In ogni caso né
la stampa né la polizia riuscirono a trovare un denominatore comune che
riunisse quei singolari eventi. In fondo non interessava a nessuno far luce
sull’accaduto, perché le persone che erano morte non venivano rimpiante dai
loro familiari. Il loro oscuro passato e i loro peccati erano di dominio
pubblico. Come sempre accade, anche la
stampa cessò di parlare dell’argomento, le acque si placarono e nessuno si
interessò più del caso. Tutto venne archiviato nel contenitore dei fatti
insoliti che di tanto in tanto vengono a funestare la sonnolenta vita di
provincia. I giornalisti intervistarono medici e psicologi che si trovarono
concordi nel dare la colpa alla depressione, vero male del secolo, alla noia di
giornate sempre uguali, all’angoscia di una vita in provincia lontani dalle
luci sfavillanti delle città, che può far passare la voglia di vivere. Don
Carlo era il solo a conoscere la verità e mostrava un ghigno feroce e
soddisfatto mentre mormorava “Il male del secolo non era la depressione, ma
il peccato”. E quei suoi poveri parrocchiani si erano trasformati in
vittime inconsapevoli dei loro peccati.
Il prete riprese la sua vita
ordinaria a contatto di una comunità miscredente e ipocrita che non riusciva
più a capire e ad assolvere. Le giornate si susseguivano monotone le une alle
altre. L’inverno lasciava il posto a una dolce primavera e alle giornate che
anticipavano la celebrazione della Santa Pasqua. Piombino prendeva i colori
della bella stagione, tra scogliere dipinte dal rosso intenso e profumo di
salmastro dopo giornate di scirocco. Don Carlo sognava un mondo perfetto dove vivevano soltanto
famiglie felici, privo di peccatori da redimere e pieno di ragazzi che si
impegnavano a costruire una famiglia e un futuro. Purtroppo si rendeva conto
che i suoi sogni restavano quasi sempre tali e la realtà lo feriva con
situazioni che non avrebbe voluto conoscere. I peccatori erano in aumento
esponenziale, persino quella sperduta landa di provincia aveva i suoi elementi
indesiderabili, persone che non meritavano la misericordia divina. Don Carlo si
sentiva accerchiato da una ridda di violentatori, pedofili, serial killer e
sterminatori di famiglie. Non che tutti vivessero a Piombino, certo, ma la
televisione portava nelle case resoconti disarmanti di una provincia assassina
che generava soggetti capaci di uccidere senza pietà. La provincia, un tempo
riparo tranquillo dalle tempeste della vita, era diventata d’un tratto il covo
dei delinquenti più efferati, il catalizzatore delle depressioni più feroci che
spingevano al massacro. Niente a che vedere con quel cantuccio d’ombra
romita che aveva studiato in seminario nelle poesie del Pascoli. La
provincia di oggi era terra violenta di peccatori e di giovani sfaccendati che
non sapevano vivere, capaci soltanto di cercare finte emozioni all’interno di
un computer.
Don Carlo si rendeva conto che
Piombino riproduceva in piccolo i vizi assurdi della grande città, forse pure
peggiori, perché proliferavano in un contesto più morboso e ristretto, in un
territorio limitato dove il vicino di casa conosceva vizi e difetti del
prossimo. La sua chiesa era sempre più deserta, le povere panche di legno si riempivano di finti credenti solo in
occasione delle feste di precetto. Per il resto dell’anno restava uno
sconfortante panorama di beghine che non perdevano neppure il rosario
delle cinque e qualche anziano che aveva trovato nella chiesa un rifugio sicuro
per la sua solitudine. Adesso che la Pasqua era vicina quel popolo di ipocriti
miscredenti avrebbe fatto ritorno in chiesa, confondendo come sempre fede e
tradizione, cercando di mettere a posto la coscienza con il gioco torbido delle
confessioni.
Almeno i musulmani hanno una
vera fede, pensava Don Carlo. Noi non possiamo contare neppure sui
giovani, perché sono peggio dei loro padri.
Era proprio vero. I giovani che
popolavano quel lembo meridionale della provincia toscana si tenevano lontani
dalla chiesa come dalla peste. Non solo. Avevano rinunciato a ogni tipo di
impegno e il loro mondo ruotava attorno a un computer. Passavano dai
videogiochi a Facebook, comunicando a colpi di sedici caratteri su Twitter.
Don Carlo cominciò a pensare che
anche loro dovevano essere rieducati.
“Il mondo è privo di futuro se i
figli non correggono gli errori dei padri”, mormorava tra una preghiera e una
pagina di Vangelo che ripassava ogni giorno.
Forse furono proprio quelle
letture solitarie a convincerlo che il suo Dio aveva tenuto in serbo per lui
un’altra missione fondamentale: i ragazzi di quella provincia sonnolenta
dovevano compiere qualcosa di importante. Non potevano continuare a vivere come
esseri privi di volontà e lasciarsi trascinare dagli eventi.
7
Don Carlo aveva sempre amato i
Cavalieri Templari, un ordine religioso che lottava - con le armi - per
proteggere i pellegrini durante i viaggi in Terra Santa. Era sempre stato un
assiduo lettore delle loro imprese e delle storie di un ordine religioso che,
all’occorrenza, sapeva trasformarsi in esercito e combattere. Lui sarebbe stato
un novello Ugo Di Payns e avrebbe fondato un nuovo ordine di laici
inconsapevoli. Lui sarebbe stato il Gran Maestro Telematico e i suoi discepoli
avrebbero combattuto le battaglie decisive in difesa della moralità.
Piombino ne aveva bisogno.
Il mondo intero ne aveva bisogno.
Se funziona in questo posto
sperduto posso ampliare il meccanismo. I Cavalieri Templari si diffusero in
tutta Europa, così i miei cavalieri, spinti dalla mia volontà, potranno
purificare il mondo, pensava.
I suoi Templari però non
sarebbero mai finiti al rogo, perché lui non avrebbe commesso errori. Non era
certo il denaro che lo spingeva ad agire, ma la voglia di punire chi usciva dal
percorso indicato da Dio. Perché il Signore sapeva essere inflessibile con chi
lo meritava. I nuovi Cavalieri Templari sarebbero stati il braccio armato di
Dio, un esercito personale al servizio della fede e soprattutto di Don Carlo,
la sola persona al mondo in grado di interpretare la volontà di Dio.
Il prete mise ancora una volta a
frutto le sue conoscenze informatiche. Quei ragazzi che amavano passare il
tempo su internet sarebbero stati il suo nuovo obbiettivo. “Non hanno più tempo
per sognare, ma in fin dei conti non hanno sogni”, mormorava sconfortato mentre
navigava in rete e cercava di carpire i segreti di un mondo giovanile che
percepiva inutile e vuoto.
“Riempirò di sogni le loro teste
vuote”, diceva.
Il compito di Don Carlo
consisteva nel dare un futuro ai giovani che sembravano disinteressarsi alla
vita reale, redimere soggetti alla deriva, scegliere per loro un futuro eroico
da giustizieri. Lui sapeva bene come programmare quelle coscienze annebbiate da
un’esistenza quotidiana priva di significato.
L’esperienza dei suicidi natalizi
andava perfezionata.
Bastava piazzare qualche chat che
promettesse incontri erotici, foto di ragazze che si esibivano in web cam,
veline televisive che dimenavano il sedere, spezzoni dell’ultima edizione del
Grande Fratello, filmati da Zelig e Colorado, cloni di cantanti alla moda e via
di questo passo. Con l’ausilio di wordpress Don Carlo creò un paio di
blog e creò falsi commenti con falsi profili. I ragazzi sarebbero caduti nella
rete a frotte, avrebbero cliccato su quelle icone che nascondevano una trappola
a base di ipnosi. Questa volta la parola d’ordine non poteva essere che Templari.
Un esercito di esseri inconsapevoli, moderni zombi privi di volontà, stava per
scendere in campo a difesa della fede. Don Carlo era il Grande Maestro, perché
soltanto le sue parole potevano indicare gli obiettivi da colpire e
distruggere.
8
I Cavalieri Templari cominciarono
a colpire. Don Carlo era al settimo cielo, perché sapeva di aver fornito un
valido motivo per cui lottare a dei ragazzi privi di ideali e di sogni.
Il primo obiettivo del prete fu
proprio quel ragazzo colpevole di aver sterminato la famiglia molti anni prima,
che adesso era stato liberato per buona condotta dopo aver usufruito dei
benefici previsti dalla legge.
“Dio punisce per sempre.
Vendicate gli innocenti in nome di Dio”, intimò ai suoi Cavalieri ridotti a
larve umane prive di volontà, capaci soltanto di eseguire ordini efferati.
Il ragazzo venne ritrovato
sepolto dalle macerie di una casa cadente nella zona del porto industriale, ma
la sua morte non fu rapida. Al suo rientro dal lavoro era stato braccato da un
gruppo di Cavalieri che lo avevano trascinato in una casa disabitata per
crocifiggerlo con lunghi chiodi di ferro applicati a piedi e mani.
“In questo modo espierà i suoi
peccati, ma dovrà soffrire le stesse pene di Nostro Signore”, aveva detto il
prete. E i suoi Cavalieri lo avevano torturato per un giorno intero, estirpando
in lenta successione unghie, bulbi oculari, dita dei piedi, delle mani e denti.
Il ragazzo aveva sofferto a lungo prima di morire sotto una scarica di violente
pugnalate nel costato, che realizzavano una perfetta pena del contrappasso. Era
proprio in quel modo che lui aveva ucciso i suoi familiari. La morte era stata
quasi un sollievo ed era giunta accompagnata dall’esplosione della casa
provocata da una bombola di metano lasciata aperta.
Ha fatto la fine che meritava,
pensò il prete quando la polizia ritrovò il corpo.
La stampa dette molto risalto al
caso. Le prime pagine dei giornali furono occupate per giorni da un terribile
omicidio che ricordava un simile evento accaduto molti anni prima. Adesso,
però, era lui la vittima…
9
Don Carlo collaborò con la
polizia e raccontò le cose che sapeva sulla vicenda del ragazzo. Non era un suo
parrocchiano. Non andava mai a messa, anche se la stampa aveva scritto che
studiava teologia e che voleva farsi prete. O perlomeno non frequentava la sua
parrocchia.
“Secondo me sono tutte balle
inventate dai giornalisti. È uscito per buona condotta, ma che si fosse
convertito mi sembra troppo…” disse.
Mario Saltutti era un commissario
di polizia di fresca nomina, inviato in provincia per farsi le ossa. Non si era
mai trovato a fare i conti con un omicidio così spietato e deliberato. Ascoltò
il prete con attenzione, gli disse di tenersi a disposizione per ogni evenienza
e di venire a raccontare qualsiasi cosa venisse in mente.
“Certamente”, rispose Don Carlo.
Tutto meno che la verità,
pensò mentre usciva dagli angusti uffici di quella palazzina del centro storico
che sfoggiava un’alta palma africana davanti all’ingresso.
Don Carlo aveva già pensato di
allargare il raggio d’azione del suo esercito in difesa della fede. Aveva
trovato il modo di entrare nelle liste nere diramate dalla polizia che
contenevano nomi di presunti pedofili. Si trattava di una criminalità aberrante
che intendeva debellare a suo modo. Altro che malattia da curare…
Un pedofilo di Grosseto fu il suo
primo obiettivo. Uno dei suoi Cavalieri, reclutato tramite un sito -
trappola che prometteva di scaricare gratis tutti i libri e i film di
Giuseppe Moccia, viveva proprio in quella zona. Il ragazzo, diventato un essere
privo di volontà, venne spinto ad attrarre il pedofilo a un finto appuntamento
dal quale non sarebbe uscito vivo. Il Cavaliere colpì il pedofilo in testa con
un nodoso bastone, lo trascinò in casa privo di sensi e lo legò alla spalliera
del letto. Attese che si svegliasse per prendere un lungo coltello e aprirgli
il sedere praticando un taglio preciso e netto che raggiungeva i genitali. Il
pedofilo morì dissanguato, perché il ragazzo affondò il coltello nel basso
ventre e lo squartò con un colpo ben assestato che fece uscire fuori le
viscere.
La polizia di Grosseto non
collegò il nuovo episodio violento ai recenti fatti di Piombino. Non sembrava
che fosse stata la stessa mano a colpire, ed erano due delitti troppo diversi
anche se il denominatore comune era la violenza
efferata.
10
Il prete cominciò a ripulire la
città dai peggiori delinquenti, selezionati dalle liste della polizia che era
riuscito a reperire. Il commissario Saltutti era sconcertato da un tale vortice
di omicidi che coinvolgeva la feccia di Piombino. Non riusciva a capire chi
fosse il colpevole e non comprendeva il movente. Sembrava che tutto fosse opera
di un misterioso vendicatore, che eliminava soggetti pericolosi e individui
socialmente riprovevoli. Il commissario poteva essere soltanto grato a chi
agiva nell’ombra, ma ufficialmente doveva indagare e cercare di scoprire il
mistero. Quando era solo e non doveva rendere conto a superiori delle sue idee
si trovava a pensare che quel folle omicida fosse il suo miglior aiutante o
addirittura un collega.
Altri delinquenti vennero
barbaramente massacrati nei modi più macabri. Alcuni furono ritrovati nei
cassonetti della spazzatura con la testa mozzata e il corpo fatto a pezzi,
altri con i genitali tagliati e fatti ingoiare, altri ancora con le interiora
fuori dal corpo gettate come cibo per gatti randagi.
Don Carlo era sempre più
soddisfatto del suo operato.
Un altro Natale stava per tornare
su quel lembo di terra sconvolto dai venti, ma lui aveva fatto un buon lavoro,
aiutando il suo Dio nel compito più difficile, quello di giudicare e
condannare. Quando si aggirava per le vie del centro storico e leggeva i
giornali che raccontavano gli eccidi, fingeva sorpresa e sconforto, ma dentro
di sé sorrideva e si lasciava prendere da un insano entusiasmo. Quei ragazzi
stavano finalmente facendo qualcosa di buono. Ed era tutto merito suo.
11
Don Carlo commise un solo errore,
purtroppo. Un errore imprevedibile, una disattenzione che gli sarebbe costata
molto. Lui avrebbe voluto far morire soltanto Franco Nobili, un ragazzo che
abitava vicino alla parrocchia - un individuo abietto e amorale - che i medici
dicevano fosse malato. Era un giovane privo di sentimenti, incapace di provare
per il prossimo sia sensazioni positive sia negative, ma portato ad agire solo
per soddisfare la sua volontà. Don Carlo pensava che fosse un potenziale serial
killer, perché crescendo la sua malattia lo avrebbe spinto a uccidere e a
compiere gesta efferate. Lui sapeva di fare del male ai compagni: violentava le
ragazze e minacciava i ragazzi più piccoli. Le confessioni che raccoglieva
erano più precise e veritiere di un verbale di polizia. Per questo si mise a
indagare sul suo passato e scoprì notizie preziose sul comportamento scolastico
e su violenze gratuite che aveva commesso ai danni di animali e di persone
deboli. Eliminare Franco Nobili voleva dire proteggere la comunità da un individuo
pericoloso, uno che non meritava la compassione di Dio. Franco non poteva
diventare Cavaliere, la sua mente era pervasa da una malattia che gli impediva
di provare emozioni. Don Carlo provò lo stesso a inviare una mail da un
Internet Point per fare in modo che il ragazzo si suicidasse. Confidava nella
forza ipnotica del suo programma assassino e nel potere della mail contenente
la parola d’ordine. Il piano non si concretizzò secondo la volontà di Don
Carlo, perché il ragazzo prima di suicidarsi sterminò la famiglia. Franco
afferrò un coltellaccio da cucina: la sua furia animalesca si abbatté prima
sulla sorellina di quattro anni, quindi sul padre e sulla madre mentre stavano
rientrando in casa.
Fu soltanto il giorno successivo
che Don Carlo si rese conto dell’errore di valutazione che aveva commesso. La
famiglia di Franco era devota a Dio, frequentava da anni la parrocchia, per cui
solo quel figlio era un frutto malato, generato da una pianta sana.
E lui aveva fatto sterminare
degli innocenti.
La colpa era soltanto sua…
Dio non sarà contento di me,
pensò il prete. Distrutto nel corpo e nell’anima, vagava come uno zombi per le
strade del centro storico. Il Tirreno si ergeva come un indice
accusatore dalle locandine esposte nelle edicole, con quel titolo a tutta
pagina che gridava: Strage familiare. Nessun superstite.
“La colpa è soltanto mia. Non
dovevo prendere il posto di Dio…” sospirava il prete.
I suoi passi stanchi lo
condussero verso la piazza che si sporge a picco sulle scogliere e scopre
l’Isola d’Elba, ma si lascia percuotere dai venti di mare.
“Ho sbagliato ed è giusto
pagare”, disse.
“Signore, abbi pietà della mia
anima”, furono le ultime parole che riuscì a pronunciare.
Don Carlo strinse forte tra le
mani il Vangelo che portava sempre con sé e raccomandò la sua anima a Dio. Si
lanciò dalla balaustra in granito verso le scogliere scolpite da vento e
rimorsi.
Un attimo dopo era tutto finito.
12
Il commissario Mario Saltutti fu
tra i primi a scoprire il cadavere del prete riverso sulle scogliere. Don Carlo
gli sembrava un uomo devoto e disponibile, una persona tranquilla, nata per
portare conforto agli altri. Ma dovette ricredersi.
Soltanto apparenza.
La vita non è mai semplice, pensò.
Le successive indagini in
parrocchia avrebbero condotto alla vera
personalità di Don Carlo. Il commissario ne avrebbe avuto piena conferma
analizzando l’hard disk del computer del prete, facendo luce su troppi misteri
degli ultimi tempi.
Analizzando il piano diabolico
del prete il commissario Mario Saltutti si trovò a pensare che non era niente
male.
Era in gamba Don Carlo,
pensò.
Ci sarebbe bisogno di qualcuno
che completi il lavoro…, aggiunse.
Tra non molto sarebbe stato
nuovamente Natale e i peccatori da redimere non mancavano.
Gordiano Lupi
15 - 24 dicembre 2009
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