Se
vuoi la pace prepara la pace
Data: 03
Giugno 2022
Autore: a
cura della redazione
Per
la terza volta consecutiva dedichiamo
l’editoriale alla
pace. Non
era nelle nostre intenzioni ma la
guerra che
continua con i suoi tragici
e inquietanti eventi e anche
la
critica di un nostro abbonato giunta in redazione
(vedi
pag. 21), ci spingono in questa direzione,
sperando di fare
un servizio utile a
tutti i nostri lettori e a noi stessi,
che continuiamo
a confrontarci con questo argomento
divisivo
e dirimente come pochi altri.
Come diceva Freud, l’umanità
da sempre
ha dovuto confrontarsi tra le pulsioni di
morte
(thanatos) e le forze vitali (eros), e la
sua
evoluzione, come quella del singolo, consiste
appunto
nella lotta per sconfiggere le pulsioni
mortifere. Si tratta
in sostanza di un cammino
di civiltà evidentemente
tutt’altro che
compiuto.
Ognuno di noi ha avuto un
rapporto con la
guerra sulla base della propria età:
attraverso
l’esperienza personale oppure attraverso i
racconti
di coloro che l’hanno vissuta direttamente.
Gli
esiti disastrosi, in termini di morti, delle
due guerre
mondiali del novecento, i racconti
dei morti e delle
sofferenze patite, con
l’enorme sproporzione tra vittime
civili e vittime
militari, hanno costituito uno spazio
molto
importante nell’immaginario collettivo, tanto
che
ormai la coscienza collettiva percepisce
la guerra come
crimine, prima di ogni singolo
atto criminoso. Eppure la
coazione a ripetere
continua, anche in quest’occasione,
e
desta ancora stupore e angoscia il
coinvolgimento
massiccio della popolazione civile
impotente,
con morte e sofferenza di bambini,
vecchi,
donne e uomini dei due fronti. I servizi
dei giornalisti
inviati sul campo descrivono
quotidianamente l’orrore di
questa guerra. Che
cosa c’entrano i vecchi e i
bambini?
PUTIN E OCCIDENTE:
VINCERE E VINCEREMO!
Forse
per questa ragione pensavamo ingenuamente
che non ci
sarebbero state altre guerre,
almeno nel nostro vecchio
continente, ma
ci siamo purtroppo sbagliati. La guerra,
scoppiata
il 24 febbraio scorso con l’invasione
dell’Ucraina
da parte della Federazione russa,
ce lo sta ampiamente
dimostrando. Perché è
successo? Pur riconoscendo
l’importanza della
sindrome di accerchiamento patita da
Putin,
le violenze e le discriminazioni inferte ai
russofoni
nonché le numerose provocazioni da
parte della Nato nei
confronti della Russia, non
riusciamo a concepire l’attacco
russo all’Ucraina
solo in questa chiave, ma ritorniamo
a
quanto alcuni di noi hanno conosciuto nella
giovinezza
riguardo alla volontà di rifondare
una Unione Sovietica -
versione 2.0 (invasione
dell’Ungheria, della
Cecoslovacchia,
condizionamento pesante della Polonia, la
cui
invasione fu evitata solo dal “colpo di Stato”
di
Jaruzelski). E non riusciamo, di contro, a
comprendere
questo improvviso interesse dell’Occidente
che non era
stato manifestato, per
lo meno a questo livello, per i fatti
del 2014
sempre in Ucraina, nel Donbass, cui molti
analisti
fanno risalire l’inizio della guerra. Inoltre,
a
proposito di teoria neo-sovietica, non si capisce
la
differenza di reazione occidentale tra
l’invasione
dell’Ucraina, e quella nei confronti
degli interventi
bellici in Cecenia, con la distruzione
di Groznyj, in
Nagorno-Karabakh e,
in ultimo, delle ingerenze politiche in
Bielorussia: tutto
fa pensare che ci siano in ballo ben
altri interessi economici
(materie prime, energia, prodotti
alimentari, ...).
Così come indigna la totale indifferenza,
se non l’ammirazione,
verso le numerose invasioni degli
ultimi
trent’anni da parte dell’Occidente (l’Iraq, il
Libano, l’Afghanistan,
Gaza, la Libia, l’ex Jugoslavia),
senza contare
il disinteresse ormai consolidato per tutte le
altre
guerre ormai endemiche, come Yemen, Eritrea,
Etiopia,
Sudan, Congo, Centro America e così via.
In
sostanza, smentendo spudoratamente le enunciazioni
di
principio sfociate nelle carte dell’Onu, si continua
a
cercare di risolvere le controversie internazionali
con
l’uso della forza, nonostante gli esiti deludenti
sperimentati,
come si diceva la scorsa volta.
Evidentemente
esiste, non solo a livello di governi, ma
nelle profondità
dell’animo umano, la convinzione che la
vittoria
possa sempre portare dei vantaggi al vincitore e la
sconfitta
una perdita. “Fa parte della cultura di guerra
l’idea
che l’uomo si realizza soltanto quando riesce a
trionfare.
L’uomo si realizza anche quando è sconfitto.
La
sconfitta come momento solo apparentemente negativo
fa
parte della cultura della pace” (Ernesto Balducci ne
“Il
cerchio si chiude”).
È mai possibile che le controversie
tra Stati siano ancora
regolate dalla forza bruta delle
guerre e delle distruzioni?
La storia pare non insegnare
niente, la storia
piuttosto sembra essere storia di guerre,
quale principale
strumento di relazione tra popoli, tra
esseri umani.
La guerra è il fallimento della ragione di
fronte alla violenza
e, al tempo stesso, è noto che
rispondere alla violenza
con la violenza aumenta il rischio
di guerra.
È frustrante vedere che le logiche di potere si
ripetono
uguali a sé stesse negli anni e nei secoli. Come
se
fossimo inseriti in un ciclo vizioso che, di fronte a
problemi
sempre più complessi, ha sempre le stesse
risposte:
rapporti di forza, armi, violenza. E la
nonviolenza,
che pure avrebbe “armi” di
interposizione
molto importanti, viene vista, più che come
utopia,
come illusione. Se si parla di pace si è dei poveri
illusi.
“È come svuotare il mare con un cucchiaino!”,
ti dicono.
Qualcuno pensa che fermare “i signori della
guerra”
lo si debba fare per forza con le armi. Certo è
che i
“mercanti di armi” fanno soldi a palate! Guai a
parlare
di diplomazia, di mediazione. Ti prendono per
scemo.
L’italiano medio dunque, di fatto, è
guerrafondaio? I
sondaggi più recenti però fanno sperare
del contrario.
La posizione della maggioranza della
popolazione
mondiale (o meglio dei loro governi - Cina,
India, maggioranza
dei Paesi Africani) sulla guerra in
Ucraina è
diversa rispetto a quella dei Paesi Occidentali.
Che si
fa? Esportiamo anche lì la nostra democrazia con la
certezza
che la verità sia dalla nostra parte o finalmente
si
potrà pensare a iniziative diplomatiche di dialogo e,
in
qualche forma, di cooperazione? In India c’è stata
la
visita della Commissaria europea Ursula von der Leyen
per
colloqui con il governo locale. L’India importa l’80%
degli
armamenti dalla Russia, e questo la pone, secondo
noi
occidentali, in una posizione ambigua in merito
al conflitto
in corso. Quale la proposta della Commissaria?
“Ma le armi
ve le possiamo dare noi”! Magari
con forti sconti...
Oggi
nell’Europa occidentale (compresa la Germania
dove i
grünen, che tanta speranza avevano suscitato, si
rivelano
più bellicisti di tutto il governo) si respira
un’aria
favorevole ad un sostanziale riarmo per interessi
di
strategia politica immediata, con investimenti molto
importanti
nel mercato delle armi, invertendo la rotta
che sembrava
portare verso il blocco della produzione
e del commercio
delle armi e alla riconversione dell’industria
bellica
stessa. E anche noi italiani siamo sulla
stessa linea. Così
facendo, l’articolo 11 della nostra
Costituzione, con il
suo ripudio della guerra, viene nei
fatti depotenziato e
umiliato, mentre la ragione e il diritto
sono condizioni
sempre aperte alla pace e possono
quindi essere credibili e
concrete alternative alla guerra.
Per questi aspetti è
utile riprendere in mano l’Enciclica
“Pacem in terris”
di Giovanni XXIII di 59 anni fa.
INVIARE ARMI ALL’UCRAINA
E
FARE PACE?
Nelle ultime settimane è emerso un importante e
interessante
dibattito su cosa fare rispetto all’invio di
armi
all’Ucraina nell’ambito delle forze politiche,
degli intellettuali
e nel campo ecclesiale, in Italia e non
solo. È
giusto mandare armi perché l’Ucraina possa
difendersi?
Oppure no? E, in caso negativo, che cosa fare
per
fermare la guerra? Proviamo a entrare nel merito
anche
per tentare di rispondere alla domanda, più ardua,
quella
del nostro lettore: “Come rispondiamo agli
ucraini
invasi, bombardati, uccisi quando ci dicono: vanno
bene
le sanzioni, gli appelli al confronto, ma dateci
anche
armi per difenderci?”.
In ambito NATO la
posizione è favorevole all’invio e
di conseguenza i vari
governi hanno deciso di inviare
armi sempre più pesanti in
Ucraina e di incrementare il
livello della spesa per la
cosiddetta difesa. È difficile,
per noi cittadine e
cittadini normali, capire la differenza
sostanziale tra armi
di “difesa” e di “offesa”.
Perché inviare armi
all’Ucraina?
Lo si può fare per due motivi distinti. Il
primo è perché
possa difendersi da un’odiosa
aggressione. La seconda,
per combattere la Russia e far
cadere Putin. Probabilmente,
il motivo vero è il secondo
perché, se fosse
per difendere un aggredito da un
aggressore, l’avremmo
fatto anche con la Siria, con lo
Yemen, con i palestinesi,
con i curdi. Perciò, con gli
Stati Uniti come capofila,
stiamo sostenendo una guerra per
procura, come
per molte altre guerre. Stiamo usando
l’Ucraina per
combattere la Russia di Putin. Se all’inizio
si poteva
tollerare, se non consentire, l’invio di queste
armi per
aiutare i combattenti ucraini invasi, ora che
paiono evidenti
sia la forza dell’esercito ucraino, sia il
vero obiettivo
della Nato (sconfiggere la Russia per
detronizzare
Putin), come si può sostenere una posizione
del genere?
È cobelligeranza vera e propria!
E ancora,
di più, sul piano ideale. Non possiamo tirar
fuori il
miracolo come un coniglio dal cappello solo
quando ci fa
comodo. L’utopia, cioè il miracolo
(transustanziazione,
incarnazione, rivelazione,
creazione,
ecc.), o funziona sempre o dobbiamo non tirarla
in ballo
mai. L’Apocalisse, parlando della caduta di
Babilonia,
simbolo di tutti gli imperi della storia, e del
sorgere
della Gerusalemme celeste (cc. 18 e 21), non
esprime
una profezia sul futuro ma una filosofia di vita
valida
per interpretare il presente. Le armi non
appartengono
al mondo del miracolo ma al mondo della
menzogna
(dell’inganno, dell’illusione, come strumenti
del potere,
che è esso stesso illusione). L’obiezione
all’uso delle
armi non è una scelta facoltativa, ma una
condizione
per preservare la vita sulla terra, come la
conoscenza
e la cura dei viventi, ambiente compreso (vedi
i
danni della guerra all’ambiente, a pag. 24).
Ma
queste osservazioni, che parrebbero inoppugnabili
all’uomo
che si pone come essere morale, non soddisfano
ancora la
domanda sul “che fare” per arrivare
alla pace. Se i
pacifisti in tempo di pace si fossero preparati
adeguatamente,
una risposta di massa non violenta
poteva essere messa in
atto con forti probabilità
di successo all’inizio del
conflitto. Il movimento pacifista
però, dopo la mattanza
perpetrata a Genova, ha
faticato a risollevarsi, e anche nel
resto d’Europa le
delusioni hanno tarpato le ali di troppe
persone, facilitando
il compito alle forze belliciste che
ora dispiegano
tutto il loro potenziale distruttivo. Ciò
non di meno
crediamo che una risposta pacifica possa ancora
trovarsi
a condizione di uscire dal pantano in cui
siamo
caduti. A proposito, stupisce la scarsa reazione, se
non
l’acquiescenza, di fronte all’incredibile risposta
del segretario
della Nato alla timida apertura di
Zelens'kyj
riguardo alla Crimea. Lui ha risposto: “Non se
ne parla”.
Che cosa c’entra la Nato dal momento che
l’Ucraina
non ne fa parte? Non solo: anche se ne facesse
parte,
la Nato è un organismo sovranazionale, e
nessun
segretario può arrogarsi il diritto di parlare per
uno
Stato membro. Dal che si può capire quale libertà
possano
avere i membri della Nato, specie un Paese
indebitato
e storicamente dipendente come l’Italia (a
proposito
della conclamata e rivendicata libertà di
autodeterminazione
dell’Ucraina).
Ma, al di là di
tutto ciò, la pace si potrebbe perseguire
se ci fosse buona
volontà da ambo le parti, come continua
a chiedere il Papa.
Come? Lo dicono da tempo molti
analisti non allineati:
aprendo un negoziato sotto l’egida
dell’ONU tra Russia,
Ucraina e Unione Europea (i
diretti interessati, visto che
la guerra si fa in Europa,
come sempre, non negli USA!) dove
ciascuno cede all’altro
qualcosa. E, parallelamente,
aprire una trattativa
coinvolgendo gli attori citati insieme
a Stati Uniti e Nato
da una parte, e anche la Cina
dall’altra, per realizzare
un disarmo graduale concordato
e controllato.
L’Unione Sovietica fu messa in ginocchio ed
economicamente
dissanguata dalla politica di corsa agli
armamenti
avviata da Reagan. Memore dell’esperienza
sovietica
Putin, che fatica a reggere l’impatto delle
spese
militari sul bilancio a detrimento di altri settori
dell’economia,
che languono e abbisognano di forti risorse
da
investire, potrebbe venire a patti con i suoi
nemici.
Questo potrebbe paradossalmente essere facilitato
dalla
incontestabile supremazia bellica americana che
attualmente
investe in armamenti circa dieci volte più
della
Russia, mentre la Cina potrebbe aderire anche
considerando
il suo core business imperniato sul
commercio
internazionale che, con il protrarsi della guerra,
sarebbe
gravemente danneggiato. E, per converso, gli
Stati
Uniti potrebbero evitare che la Russia e la Cina si
alleino
definitivamente a suo svantaggio.
L’Europa
infine, ponendosi come entità di pace, potrebbe
trovare
nuovo prestigio e trarre vantaggio sul piano
delle risorse
energetiche, dell’occupazione, dell’accoglienza
dei
profughi che, alla lunga, potrebbe diventare
impopolare e
troppo onerosa ed evitare di dipendere
in toto dagli Stati
Uniti. L’Italia, in particolare, dovrebbe
fare delle
istanze di pace il proprio vanto, e iniziare
a incarnare
anche nella politica economica, insieme
con gli altri Paesi
mediterranei, la cultura della collaborazione
solidale verso
il Medio Oriente promuovendo
l’“economia civile” non
predatoria, alternativa
al neoliberismo dominante. Win win
come dicono i giovani
d’oggi! Il realismo che viene dalla
cultura di pace
è meno realistico di quello dei
bellicisti?
Comunque la si pensi siamo contenti di essere in
compagnia
di Papa Francesco nella difesa dei valori
della
nonviolenza e della pace e dire un NO deciso alla
guerra,
perché la guerra è un male in sé, perché la
violenza
richiama sempre violenza. La diplomazia ha già
perso
troppo tempo e sembra impreparata a intervenire
efficacemente,
paralizzata da veti reciproci, ma non
può
restare in attesa degli esiti dello scontro armato,
pena il
fallimento. Mettiamo in campo e diamo credibilità
alla
via diplomatica per giungere ad una pace
negoziata
duratura: tregua, ricomposizione del conflitto,
disarmo.
Ci ricordiamo ancora di Padre Balducci quando
affermava
che “se vuoi la pace prepara la pace”: un
insegnamento
che richiama la responsabilità di tutte le
donne
e di tutti gli uomini di buona volontà.
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