In ricordo di MARIA BOLLA. GIORNATA DELLA MEMORIA 2008, relazione di Samina Zargar

 


La signora Maria Bolla, presidente ANED, aveva dato la possibilità, come ha fatto sempre con tanti e tanti giovani, a mia figlia Samina Zargar, appena diciottenne, di essere relatrice presso la Sala Rossa del Comune di Savona (un grandissimo onore) e di parlare delle sue esperienze relative ai pellegrinaggi ai Campi di Sterminio. 
La signora Maria Bolla è stata un riferimento forte per molti giovani, quando li accompagnava nei viaggi non risparmiava mai di spiegare, di far comprendere quelle tristi realtà ma anche quelle dei nostri giorni. È stata molto importante per le mie figlie.

(RRZ)

RELAZIONE GIORNATA DELLA MEMORIA, Sala Rossa 28-1-2008

 

Sono Samina Zargar e frequento Liceo Scientifico. Il mio percorso di conoscenza della Shoah è cominciato con il libro “La casa delle bambole” di Ka-tzetnik 135633 che mi è piaciuto moltissimo, nel  senso che l’ho trovato interessante e sono venuta a conoscenza di cose che non sapevo e non potevo neppure immaginare. Il titolo ingannava. Infatti, subito, pensavo che sarebbe stato un libro piacevole. Non avevo capito, nella mia innocenza di allora, cosa si intendesse per “casa delle bambole”.  Prima di tutto, l’autore Ka-tzetnik 135633 è stato prigioniero per due anni ad Auschwitz, dove i componenti della sua famiglia vennero invece tutti uccisi. Quando Yahiel De-Nur scrisse, scelse di firmare i suoi lavori con il nome comune a tutti i detenuti, Ka- Tzetnik n°..., seguito dal numero che i nazisti gli avevano tatuato sul braccio: 135633.  Occorre quindi dire K.Z. (Ka-tzet nella pronuncia tedesca) sono le iniziali di Konzentration Zenter (Campo di Concentramento in tedesco). Ogni prigioniero di un K.Z. era soprannominato “Ka-tzetnik”, numero, il numero personale di matricola tatuato sul braccio sinistro.

La storia di Casa di Bambole parlava di una ragazza che lavorava in una fabbrica; in seguito aveva perso suo fratello maggiore, a cui era molto affezionata. Col passare del tempo, durante un rastrellamento notturno, venne portata in un campo di lavoro e poi in un campo di prostituzione. Là conobbe quel terribile mondo e assistette ai terribili tormenti delle compagne.

Vi leggo qualche frase dal libro, tanto per farvi capire cosa facevano i tedeschi per obbligare le ragazze ad essere collaborative: “Hentschel aveva un sistema collaudato, da applicare. Sapeva che, prima di ogni altra cosa, doveva far capire alle nuove venute che cosa egli intendesse per lavoro. Sapeva che la sola sorgente di forza, in quel posto, era la paura. La paura era una leva capace di smuovere ogni cosa. ….   Sul terreno erano stati posati dei binari provvisori, sui quali venivano sospinti vagoni carichi di pietre. Quei binari dovevano essere spostati… Hentschel diede un ordine. Un gruppo di deportate si misero fra i binari e si disposero in fila, per tutta la lunghezza delle rotaie. I binari erano imbullonati a delle spesse traversine di legno, che si erano affondate profondamente nel terreno per la continua pressione esercitata dal passaggio dei carrelli carichi. … I dorsi delle ragazze erano inarcati, le dita serravano le rotaie. Ma i binari non cedevano. Il peso del ferro era di per se stesso superiore alle loro forze: oltre a ciò, si doveva tener conto del peso delle traversine e del fatto che queste erano profondamente incassate nel terreno. 
Tese com’erano nello sforzo, per poco non si accorsero di nulla. Ma finalmente gli urli richiamarono la loro attenzione. Alzarono gli occhi e videro: Hentschel si ergeva sopra Hanna di Chebin e continuava a colpirla con un manico di badile; con il viso raccolto, come se stesse compiendo una santa azione, con metodica determinazione. Come se suo solo scopo fosse quello di picchiare. Hanna si era abbattuta sulle rotaie e Hentschel picchiava sui piedi, sulla testa, sulle braccia. Hanna urlava implorando Dio, si attorcigliava sul terreno, conficcava i denti nella sabbia. Si strappava i capelli. Dalla bocca fuoriuscivano i denti spezzati, i bulbi oculari le erano schizzati dalle orbite: la Luna incombeva sopra di lei, placido, tranquillo, niente affatto incollerito e senza sforzo apparente continuava a calare il manico del badile fra le scapole, sulle caviglie, sui polsi, picchiando, picchiando. Hanna voleva morire. Chiedeva di morire: “Dio del cielo prendimi! Dio del cielo, prendimi! Prendimi!.. Dio” Ma Hentschel non la lasciava morire. Stava combattendo una battaglia all’ultimo sangue con “il Dio del cielo”. Non avrebbe permesso che Hanna tornasse troppo presto al creatore. Hentschel era ostinato come la terra recalcitrante che si rifiutava caparbiamente di lasciare andare i binari. Hentschel voleva che Hanna, prima di morire, gridasse ancora a lungo, selvaggiamente. Tutte le nuove deportate avrebbero così continuato a sentire quegli urli inumani, per tutto il tempo che fossero rimaste affidate alle sue cure.”

Vicino al campo di lavoro c’era, però, il Campo della Gioia dove le ragazze più carine dovevano diventare strumento di piacere delle SS in licenza premio, quelle stesse SS che martirizzavano i loro amici e parenti. Dopo La casa delle bambole, un altro romanzo di Ka-tzetnik 135633 ambientato nei campi di sterminio nazisti è “Piepel”. Il protagonista è Moni, un Piepel, come erano chiamati i ragazzini che divenivano anch’essi strumenti di piacere dei capi-blocco. Attraverso questo e altri libri, compresi le sofferenze che si dovevano sopportare in un campo di sterminio.

Così, qualche anno fa, anch’io ho partecipato al viaggio ai campi di concentramento organizzato dall’ANED per gli studenti delle Scuole Superiori. Sono stata a Mauthausen, Dachau, Ebensee e Gusen. Ho potuto vedere ciò che avevo letto sui libri. Ma quando si vedono le baracche pulite e ordinate, è difficile immaginare che ciò che sentiamo sia successo veramente. Infatti, il punto più significativo del viaggio sono i deportati, che seguono i ragazzi per tutto il percorso spiegando ciò che avveniva. Ci si rende anche conto però quanto soffrano i deportati a tornare in quei luoghi in cui sono stati. Dobbiamo infatti ringraziarli per il loro sforzo. Ogni anno ripercorrono i luoghi dello sterminio per far conoscere a noi giovani il passato perché non si ripeta più oppure raccontano nelle scuole, in pubbliche conferenze, come oggi il dottor Salmoni, scrivono libri perché tutti sappiano.

Se pensiamo meglio, ci accorgiamo che i deportati sono persone sopravvissute per miracolo. Loro hanno sofferto, e deve essere stato difficile, una volta usciti da là, riprendere la vita di sempre dopo aver visto morire i compagni. Oggi, ad alcuni di loro fa piacere raccontarci le loro avventure, è forse una liberazione comunicarci tante emozioni molto intense. Ma è triste pensare che prima o dopo moriranno anche loro, e nessuno potrà più raccontarci nulla. Lo stesso viaggio di oggi, senza loro, non avrà più lo stesso significato anche se, piano piano, qualcuno deve iniziare a prendere il loro posto, a tramandare la loro esperienza, perché il ricordo continui senza fermarsi mai.

Un particolare che mi ha colpita molto durante il viaggio è “la scala della morte” di Mauthausen. Molti prigionieri erano impegnati nelle cave di pietra, il loro compito era trasportare grossi blocchi, molto spesso pesanti fino a 50 chilogrammi, lungo i 186 scalini della cava, uno dietro l'altro. Ogni sera, al tramonto, i prigionieri li percorrevano per l’ultima volta (perché interrompevano il lavoro fino alla mattina successiva) esausti, magari malati, trascinando le loro ossa per quella scalinata ripida. E così, mentre i lavoratori delle cave percorrevano la scalinata c’era chi non era ancora soddisfatto! I militari delle SS si ricordavano, qualche volta, che non si erano divertiti abbastanza quel giorno e ponevano subito rimedio. Spesso sparavano su uno dei prigionieri e si divertivano a scommettere su come sarebbe precipitato. Inoltre, io, che ho percorso la scalinata della morte, ho compreso che, a causa dei gradini molto piccoli (non si riesce ad appoggiare tutto il piede su di essi) e ripidi, è faticoso sia salire che scendere, ma soprattutto è facile inciampare e quindi rischiare di rotolare giù. Siccome i lavoratori della cava dovevano stare molto vicini tra loro nel tragitto (i Tedeschi lo ordinavano apposta), rischiavano che, al cadere di uno, morissero in molti, perché trascinati dagli altri. Questo era solo un esempio di perfidia nazista.

Quest’anno ho partecipato al concorso sulla Risiera di San Sabba che, a differenza dell’altro, necessitava di uno studio sui campi di concentramento italiani e dell’unico di sterminio italiano, la Risiera, appunto. Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso, costruito nel 1913 nel periferico rione di San Sabba, venne dapprima utilizzato dall'occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l'8 settembre 1943. Verso la fine di ottobre, esso venne strutturato come Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.
Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze attestano che la cifra delle vittime sia stata tra le tre e le cinquemila persone soppresse. Ma in numero ben maggiore sono stati i prigionieri e i "rastrellati" passati dalla Risiera e da lì smistati nei lager tedeschi o al lavoro obbligatorio.

A seguito di questo concorso, ci recheremo a Trieste proprio in occasione della giornata del ricordo, il 10 febbraio. Oltre a visitare la Risiera di San Sabba, andremo alla grande Sinagoga, costruita al posto di 4 piccole sinagoghe per una comunità che era di 6 mila ebrei nel 1938. Devastata nel 1942 dalle squadre fasciste, sotto l’occupazione nazista è stata adibita a deposito di opere d’arte e libri. Oggi, a dimostrazione di quanto fatto proprio dagli italiani contro gli ebrei, la Comunità ebraica di Trieste consta solo di seicento iscritti. I seimila di prima della guerra non esistono più!

Porteremo poi il nostro omaggio alla Foiba di Basovizza. Le foibe sono cavità carsiche anche se, invece, Basovizza era un pozzo minerario. Questi baratri sono stati usati dopo la fine della guerra dall'esercito jugoslavo o da formazioni che con esso collaboravano per l'uccisione e conseguente occultamento dei cadaveri di migliaia di italiani, durante le repressioni avvenute nella città di Trieste e nelle regioni nord orientali italiane. Per il momento gli studi sugli effettivi infoibamenti non sono ancora conclusi, certo è che insieme a molti fascisti che furono massacrati per vendetta per ciò che di terribile avevano fatto durante il periodo del loro potere, furono colpite anche molte persone innocenti, spesso gettate vive nelle foibe, che nulla avevano a che vedere con la dominazione fascista di quei luoghi.

L’Aned si occupa con questi concorsi e con molte altre iniziative di mantenere vivo il ricordo perché queste tragedie non si ripetano più. Ma cosa vuol dire “Non si ripeta”?

Anche attualmente le ingiustizie sono innumerevoli. Gli Europei tanti anni fa hanno deportato gli africani per farli lavorare in America come schiavi e hanno eliminato le popolazioni indigene dell’America. Poi hanno continuato con lo sfruttamento delle risorse coloniali altrui e questo non è ancora finito perché la decolonizzazione spesso è continuata nella protezione di dittatori “amici” che permettessero, in cambio del loro potere, di sfruttare le risorse altrui, senza contare le guerre per l’esportazione della democrazia, ecc. Gli Europei hanno eliminato e continuano ad eliminare dalla terra centinaia di milioni di persone! 

Le ingiustizie sono diventate una catena alimentare della natura.

Io che sono stata in Africa, ad esempio, mi sono ben resa conto che la schiavitù africana non è ancora finita, perché il mondo europeo continua a sfruttare tutte le risorse dell’Africa lasciando la gente a morire di fame, di sete e di malattie che non hanno il denaro per curare! Che differenza c’è tra questo e i campi di concentramento? Me lo chiedo.

Sicuramente un punto in comune è l’indifferenza.

Ognuno pensa per se stesso, mai  volge lo sguardo verso chi ha bisogno, oggi come allora. Quando si viene a conoscenza del terribile passato, non è sufficiente credere che sia solo passato, ma occorre pensare seriamente al presente e alle diverse forme in cui il male ancora oggi si presenta. Spesso non vogliamo parlarne perché si dice siano cose troppo brutali.

A questo proposito, mi viene in mente un episodio significativo. Il mio insegnante di pianoforte Mitidieri, qualche anno fa, ha ideato e poi messo in scena un spettacolo teatrale intitolato “Le farfalle non stanno nel ghetto” dedicato ai bambini del lager di Terezin. In seguito alcuni genitori avevano protestato per il lavoro svolto perché ritenuto troppo crudele per dei bambini così piccoli. Questo per dire che oggigiorno si cerca di non pensare alle cose brutte per continuare la vita di ogni giorno in serenità e senza pensare agli altri.

E’ meglio che noi ragazzi apriamo gli occhi, e cerchiamo di cambiare queste orribili realtà.

Spesso non siamo neppure molto informati. Tanto per citare una notizia, ho letto un po’ di tempo fa sul quotidiano “La Stampa”, che vengono fabbricati cosmetici ricavati dalla pelle dei condannati a morte cinesi!

Pensate che di nuovo l’essere umano viene usato, commercializzato, sfruttato, persino nella morte! E’ assai vergognoso che permettiamo  che vengano messi in commercio dei cosmetici di questo tipo!!  I dipendenti delle aziende coinvolte dichiarano che sia una tecnica usata da sempre e permetta di risparmiare sui costi. Tutto questo è solo un grande orrore!

La scuola deve impegnarsi di più e anche le istituzioni. Le occasioni come questa devono moltiplicarsi, anche i giovani devono collaborare ad informare.

Ritornando al viaggio-pellegrinaggio ai campi di concentramento e sterminio, che è un viaggio tra conscio e inconscio, nelle sofferenze e testimonianze delle  vittime, la nostra anima ne esce più forte. Non resta altro che prendere provvedimenti. Bisogna cambiare atteggiamento già nella vita di tutti i giorni, essere più disponibili, sinceri, soprattutto senza odio. Così che tutte quelle vittime dei campi di concentramento, morti dopo atroci torture e sofferenze, possano riposare in pace, certi di un mondo migliore.

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Nella foto, mia figlia Zarina, a quel tempo diciottenne, con la signora Maria Bolla.

Ella era sempre presente alle nostre manifestazioni, agli eventi della nostra famiglia.


In un precedente post:

UN RICORDO DI MARIA BOLLA di Renata Rusca Zargar (senzafine.info)

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