In ricordo di MARIA BOLLA. GIORNATA DELLA MEMORIA 2008, relazione di Samina Zargar
La signora Maria Bolla, presidente ANED, aveva dato la possibilità, come ha fatto sempre con tanti e tanti giovani, a mia figlia Samina Zargar, appena diciottenne, di essere relatrice presso la Sala Rossa del Comune di Savona (un grandissimo onore) e di parlare delle sue esperienze relative ai pellegrinaggi ai Campi di Sterminio.
Sono Samina Zargar e
frequento Liceo Scientifico. Il mio percorso di conoscenza della Shoah è
cominciato con il libro “La casa delle bambole” di Ka-tzetnik 135633 che mi è
piaciuto moltissimo, nel senso che l’ho
trovato interessante e sono venuta a conoscenza di cose che non sapevo e non
potevo neppure immaginare. Il titolo ingannava. Infatti, subito, pensavo che
sarebbe stato un libro piacevole. Non avevo capito, nella mia innocenza
di allora, cosa si intendesse per “casa delle bambole”. Prima di tutto,
l’autore Ka-tzetnik 135633 è stato prigioniero
per due anni ad Auschwitz, dove i componenti della sua famiglia vennero invece
tutti uccisi. Quando Yahiel De-Nur scrisse, scelse di firmare i suoi
lavori con il nome comune a tutti i detenuti, Ka- Tzetnik n°..., seguito dal
numero che i nazisti gli avevano tatuato sul braccio: 135633. Occorre quindi dire K.Z. (Ka-tzet nella pronuncia tedesca) sono le iniziali
di Konzentration Zenter (Campo di Concentramento in tedesco). Ogni prigioniero
di un K.Z. era soprannominato “Ka-tzetnik”, numero, il numero personale di
matricola tatuato sul braccio sinistro.
La storia di Casa di Bambole
parlava di una ragazza che lavorava in una fabbrica; in seguito aveva perso suo
fratello maggiore, a cui era molto affezionata. Col passare del tempo, durante
un rastrellamento notturno, venne portata in un campo di lavoro e poi in un
campo di prostituzione. Là conobbe quel terribile mondo e assistette ai
terribili tormenti delle compagne.
Vi leggo qualche frase dal
libro, tanto per farvi capire cosa facevano i tedeschi per obbligare le ragazze
ad essere collaborative: “Hentschel aveva un sistema
collaudato, da applicare. Sapeva che, prima di ogni altra cosa, doveva far
capire alle nuove venute che cosa egli intendesse per lavoro. Sapeva che la
sola sorgente di forza, in quel posto, era la paura. La paura era una leva
capace di smuovere ogni cosa. …. Sul
terreno erano stati posati dei binari provvisori, sui quali venivano sospinti vagoni
carichi di pietre. Quei binari dovevano essere spostati… Hentschel diede un
ordine. Un gruppo di deportate si misero fra i binari e si disposero in fila,
per tutta la lunghezza delle rotaie. I binari erano imbullonati a delle spesse
traversine di legno, che si erano affondate profondamente nel terreno per la
continua pressione esercitata dal passaggio dei carrelli carichi. … I dorsi
delle ragazze erano inarcati, le dita serravano le rotaie. Ma i binari non
cedevano. Il peso del ferro era di per se stesso superiore alle loro forze:
oltre a ciò, si doveva tener conto del peso delle traversine e del fatto che
queste erano profondamente incassate nel terreno. …
Tese com’erano nello sforzo, per poco non si accorsero di nulla. Ma finalmente
gli urli richiamarono la loro attenzione. Alzarono gli occhi e videro:
Hentschel si ergeva sopra Hanna di Chebin e continuava a colpirla con un manico
di badile; con il viso raccolto, come se stesse compiendo una santa azione, con
metodica determinazione. Come se suo solo scopo fosse quello di picchiare.
Hanna si era abbattuta sulle rotaie e Hentschel picchiava sui piedi, sulla
testa, sulle braccia. Hanna urlava implorando Dio, si attorcigliava sul
terreno, conficcava i denti nella sabbia. Si strappava i capelli. Dalla bocca
fuoriuscivano i denti spezzati, i bulbi oculari le erano schizzati dalle
orbite: la Luna incombeva sopra di lei, placido, tranquillo, niente affatto
incollerito e senza sforzo apparente continuava a calare il manico del badile
fra le scapole, sulle caviglie, sui polsi, picchiando, picchiando. Hanna voleva
morire. Chiedeva di morire: “Dio del cielo prendimi! Dio del cielo, prendimi!
Prendimi!.. Dio” Ma Hentschel non la lasciava morire. Stava combattendo una
battaglia all’ultimo sangue con “il Dio del cielo”. Non avrebbe permesso che
Hanna tornasse troppo presto al creatore. Hentschel era ostinato come la terra
recalcitrante che si rifiutava caparbiamente di lasciare andare i binari.
Hentschel voleva che Hanna, prima di morire, gridasse ancora a lungo, selvaggiamente.
Tutte le nuove deportate avrebbero così continuato a sentire quegli urli
inumani, per tutto il tempo che fossero rimaste affidate alle sue cure.”
Vicino al campo
di lavoro c’era, però, il Campo della Gioia dove le ragazze più carine dovevano
diventare strumento di piacere delle SS in licenza premio, quelle stesse SS che
martirizzavano i loro amici e parenti. Dopo
La casa delle bambole, un altro romanzo di Ka-tzetnik 135633 ambientato nei
campi di sterminio nazisti è “Piepel”. Il protagonista è Moni, un Piepel, come
erano chiamati i ragazzini che divenivano anch’essi strumenti di piacere dei
capi-blocco. Attraverso questo e altri libri, compresi le sofferenze che si
dovevano sopportare in un campo di sterminio.
Così, qualche anno fa,
anch’io ho partecipato al viaggio ai campi di concentramento organizzato
dall’ANED per gli studenti delle Scuole Superiori. Sono stata a Mauthausen, Dachau,
Ebensee e Gusen. Ho potuto vedere ciò che
avevo letto sui libri. Ma quando si vedono le baracche pulite e ordinate, è
difficile immaginare che ciò che sentiamo sia successo veramente. Infatti, il
punto più significativo del viaggio sono i deportati, che seguono i ragazzi per
tutto il percorso spiegando ciò che avveniva. Ci si rende anche conto però
quanto soffrano i deportati a tornare in quei luoghi in cui sono stati.
Dobbiamo infatti ringraziarli per il loro sforzo. Ogni anno ripercorrono i
luoghi dello sterminio per far conoscere a noi giovani il passato perché non si
ripeta più oppure raccontano nelle scuole, in pubbliche conferenze, come oggi
il dottor Salmoni, scrivono libri perché tutti sappiano.
Se pensiamo meglio, ci
accorgiamo che i deportati sono persone sopravvissute per miracolo. Loro hanno
sofferto, e deve essere stato difficile, una volta usciti da là, riprendere la
vita di sempre dopo aver visto morire i compagni. Oggi, ad alcuni di loro fa
piacere raccontarci le loro avventure, è forse una liberazione comunicarci
tante emozioni molto intense. Ma è triste pensare che prima o dopo moriranno
anche loro, e nessuno potrà più raccontarci nulla. Lo stesso viaggio di oggi,
senza loro, non avrà più lo stesso significato anche se, piano piano, qualcuno
deve iniziare a prendere il loro posto, a tramandare la loro esperienza, perché
il ricordo continui senza fermarsi mai.
Un particolare che mi ha
colpita molto durante il viaggio è “la scala della morte” di Mauthausen. Molti
prigionieri erano impegnati nelle cave di pietra, il loro compito era
trasportare grossi blocchi, molto spesso pesanti fino a 50 chilogrammi, lungo i
186 scalini della cava, uno dietro l'altro. Ogni sera, al tramonto, i
prigionieri li percorrevano per l’ultima volta (perché interrompevano il lavoro
fino alla mattina successiva) esausti, magari malati, trascinando le loro ossa
per quella scalinata ripida. E così, mentre i lavoratori delle cave
percorrevano la scalinata c’era chi non era ancora soddisfatto! I militari
delle SS si ricordavano, qualche volta, che non si erano divertiti abbastanza
quel giorno e ponevano subito rimedio. Spesso sparavano su uno dei prigionieri
e si divertivano a scommettere su come sarebbe precipitato. Inoltre, io, che ho
percorso la scalinata della morte, ho compreso che, a causa dei gradini molto
piccoli (non si riesce ad appoggiare tutto il piede su di essi) e ripidi, è
faticoso sia salire che scendere, ma soprattutto è facile inciampare e quindi
rischiare di rotolare giù. Siccome i lavoratori della cava dovevano stare molto
vicini tra loro nel tragitto (i Tedeschi lo ordinavano apposta), rischiavano
che, al cadere di uno, morissero in molti, perché trascinati dagli altri.
Questo era solo un esempio di perfidia nazista.
Quest’anno ho partecipato al
concorso sulla Risiera di San Sabba che, a differenza dell’altro, necessitava
di uno studio sui campi di concentramento italiani e dell’unico di sterminio
italiano, la Risiera, appunto. Il grande complesso di edifici dello
stabilimento per la pilatura del riso, costruito nel 1913 nel periferico rione
di San Sabba, venne dapprima utilizzato dall'occupatore nazista come campo di
prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l'8 settembre
1943. Verso la fine di ottobre, esso venne strutturato come Polizeihaftlager
(Campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati
in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione
ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.
Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze attestano che la cifra
delle vittime sia stata tra le tre e le cinquemila persone soppresse. Ma in
numero ben maggiore sono stati i prigionieri e i "rastrellati"
passati dalla Risiera e da lì smistati nei lager tedeschi o al lavoro
obbligatorio.
A seguito di questo concorso,
ci recheremo a Trieste proprio in occasione della giornata del ricordo, il 10
febbraio. Oltre a visitare la Risiera di San Sabba, andremo alla grande
Sinagoga, costruita al posto di 4 piccole sinagoghe per una comunità che era di
6 mila ebrei nel 1938. Devastata nel 1942 dalle
squadre fasciste, sotto l’occupazione nazista è stata adibita a deposito di
opere d’arte e libri. Oggi, a dimostrazione di quanto fatto proprio dagli
italiani contro gli ebrei, la Comunità ebraica di Trieste consta solo di
seicento iscritti. I seimila di prima della guerra non esistono più!
Porteremo poi il nostro
omaggio alla Foiba di Basovizza. Le foibe sono cavità carsiche anche se,
invece, Basovizza era un pozzo minerario. Questi baratri sono stati usati dopo
la fine della guerra dall'esercito jugoslavo o da formazioni che con esso
collaboravano per l'uccisione e conseguente occultamento dei cadaveri di
migliaia di italiani, durante le repressioni avvenute nella città di Trieste e
nelle regioni nord orientali italiane. Per il momento gli studi sugli effettivi
infoibamenti non sono ancora conclusi, certo è che insieme a molti fascisti che
furono massacrati per vendetta per ciò che di terribile avevano fatto durante
il periodo del loro potere, furono colpite anche molte persone innocenti,
spesso gettate vive nelle foibe, che nulla avevano a che vedere con la
dominazione fascista di quei luoghi.
L’Aned si occupa con questi
concorsi e con molte altre iniziative di mantenere vivo il ricordo perché
queste tragedie non si ripetano più. Ma cosa vuol dire “Non si ripeta”?
Anche attualmente le
ingiustizie sono innumerevoli. Gli Europei tanti anni fa hanno deportato gli
africani per farli lavorare in America come schiavi e hanno eliminato le
popolazioni indigene dell’America. Poi hanno continuato con lo sfruttamento
delle risorse coloniali altrui e questo non è ancora finito perché la
decolonizzazione spesso è continuata nella protezione di dittatori “amici” che
permettessero, in cambio del loro potere, di sfruttare le risorse altrui, senza
contare le guerre per l’esportazione della democrazia, ecc. Gli Europei hanno
eliminato e continuano ad eliminare dalla terra centinaia di milioni di
persone!
Le ingiustizie sono diventate
una catena alimentare della natura.
Io che sono stata in Africa,
ad esempio, mi sono ben resa conto che la schiavitù africana non è ancora
finita, perché il mondo europeo continua a sfruttare tutte le risorse
dell’Africa lasciando la gente a morire di fame, di sete e di malattie che non
hanno il denaro per curare! Che differenza c’è tra questo e i campi di
concentramento? Me lo chiedo.
Sicuramente un punto in
comune è l’indifferenza.
Ognuno pensa per se stesso,
mai volge lo sguardo verso chi ha
bisogno, oggi come allora. Quando si viene a conoscenza del terribile passato,
non è sufficiente credere che sia solo passato, ma occorre pensare seriamente
al presente e alle diverse forme in cui il male ancora oggi si presenta. Spesso
non vogliamo parlarne perché si dice siano cose troppo brutali.
A questo proposito, mi viene
in mente un episodio significativo. Il mio insegnante di pianoforte Mitidieri,
qualche anno fa, ha ideato e poi messo in scena un spettacolo teatrale
intitolato “Le farfalle non stanno nel ghetto” dedicato ai bambini del lager di
Terezin. In seguito alcuni genitori avevano protestato per il lavoro svolto
perché ritenuto troppo crudele per dei bambini così piccoli. Questo per dire
che oggigiorno si cerca di non pensare alle cose brutte per continuare la vita
di ogni giorno in serenità e senza pensare agli altri.
E’ meglio che noi ragazzi
apriamo gli occhi, e cerchiamo di cambiare queste orribili realtà.
Spesso non siamo neppure
molto informati. Tanto per citare una notizia, ho letto un po’ di tempo fa sul
quotidiano “La Stampa”, che vengono fabbricati cosmetici ricavati dalla pelle
dei condannati a morte cinesi!
Pensate che di nuovo l’essere
umano viene usato, commercializzato, sfruttato, persino nella morte! E’ assai
vergognoso che permettiamo che vengano
messi in commercio dei cosmetici di questo tipo!! I dipendenti delle aziende coinvolte
dichiarano che sia una tecnica usata da sempre e permetta di risparmiare sui
costi. Tutto questo è solo un grande orrore!
La scuola deve impegnarsi di
più e anche le istituzioni. Le occasioni come questa devono moltiplicarsi,
anche i giovani devono collaborare ad informare.
Ritornando al viaggio-pellegrinaggio ai campi di concentramento e sterminio, che è un viaggio tra conscio e inconscio, nelle sofferenze e testimonianze delle vittime, la nostra anima ne esce più forte. Non resta altro che prendere provvedimenti. Bisogna cambiare atteggiamento già nella vita di tutti i giorni, essere più disponibili, sinceri, soprattutto senza odio. Così che tutte quelle vittime dei campi di concentramento, morti dopo atroci torture e sofferenze, possano riposare in pace, certi di un mondo migliore.
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Nella foto, mia figlia Zarina, a quel tempo diciottenne, con la signora Maria Bolla.
Ella era sempre presente alle nostre manifestazioni, agli eventi della nostra famiglia.
In un precedente post:
UN RICORDO DI MARIA BOLLA di Renata Rusca Zargar (senzafine.info)
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