Il
commento della settimana
Francesco
Strazzari
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«Mi
piace la strada su cui ci troviamo: con armi e denaro dall’America, l’Ucraina
combatterà la Russia fino all’ultimo uomo». A parlare è stato il senatore
repubblicano Usa Linsdey Graham, il quale ha poi ha precisato che la vittoria
ucraina sulla Russia è «un reset dell’ordine mondiale che va nel senso
giusto».
Arrivati a gennaio, freddo e gelo non hanno rallentato sostanzialmente le
ostilità: droni e missili restano più che mai protagonisti, anche se non si
registrano sfondamenti del fronte – che assomiglia sempre più al tritacarne
evocato dal boss dei mercenari russi, Prigozhin.
Nulla
oggi lascia pensare che la guerra rallenterà la sua corsa. Mobilitando nuove
reclute, mostrandosi pronto a reggere ed imporre un costo insostenibile di
vite umane, il Cremlino alterna riferimenti al negoziato con massicci
bombardamenti.
Putin punta a guadagnare tempo e forzare un accordo che legittimi le
conquiste, portando divisioni in campo ucraino e scardinando il principio di
intoccabilità dei confini internazionali. Gli ucraini dichiarano che Putin è
vicino alla morte per malattia. Dispongono di uno degli eserciti più rodati
al mondo e sono appoggiati da un Occidente che ha tutto l’interesse a non
vedere scalfita, davanti alla Cina e alle potenze emergenti, l’immagine di
efficacia ed unità di cui, dopo il disastro afghano, ha dato prova.
L’invasione
russa ha turbo-caricato il nazionalismo ucraino, che autoproclama la benigna
inclusività dei propri miti: ha celebrato il compleanno di Stepan Bandera,
senza troppo preoccuparsi per critiche suscitate fra i sostenitori ad Ovest,
a partire dai polacchi.
Più in generale, la guerra in Ucraina proietta una lunga e densa ombra sulle
relazioni internazionali. Essa ha dato corda all’aggressività militare di
Erdogan, l’alleato Nato che ama scagliarsi contro Washington e fare affari
con Mosca. Piagata da un’inflazione oltre l’80%, la Turchia affronta nel 2023
elezioni incerte, mentre è impegnata non solo ad invadere il nord della Siria
in chiave anti-curda, ma anche a rafforzare la propria influenza militare in
Africa (Libia e Somalia) e a sostenere il regime azerbaijano nella guerra
agli armeni.
Mentre soffiano i venti della recessione economica, la guerra in Ucraina si è
rivelata una manna per l’Arabia Saudita, che ha allargato le proprie quote
sul mercato del petrolio, opponendo un netto rifiuto alla richiesta americana
di aumentare la produzione per calmare la corsa dei prezzi. Lontano dai
riflettori mediatici, il conflitto fra Etiopia e tigrini ha mietuto mezzo
milione di vittime.
Al di là degli scenari di crisi (Iran e Pakistan, ma anche Libano, Yemen e
Haiti) inflazione, insicurezza alimentare, pandemia e variabilità climatica
(eventi estremi) restano fattori che non solo destabilizzano il sud del
mondo, ma premono in misura crescente anche su un paese come l’Italia che –
reso fragile da un crescente divario sociale – si qualifica (per poco) fra le
prima dieci economie del mondo.
Né Russia né Ucraina sembrano in alcun modo vicini a concepire colloqui
di pace. La scommessa di Mosca sullo sgretolamento del consenso occidentale
per l’Ucraina nel corso dell’inverno sta in larga parte mostrandosi perduta.
La proposta del Patriarca russo Kirill- accolta e rilanciata da Putin – di
una «tregua bilaterale» per il Natale ortodosso suona assai controversa,
essendo premessa su un’idea di unità religiosa fra russi e ucraini che il
Patriarcato di Mosca ha minato.
Se guardiamo alle linee di tendenza che caratterizzano i conflitti armati
nell’era successiva alla Guerra Fredda, notiamo il vacillare di quella logica
strumentale di controllo che possiamo in qualche modo ricondurre alla
tradizione del pensiero realista, da Machiavelli a Clausewitz: un’idea di
stati sovrani funzionanti, incommensurabilmente più capaci, in termini
coercitivi, economici ed ideologici, rispetto a qualsiasi altro attore.
Le
guerre di oggi sono attraversate da nozioni di soft power, diffusione
tecnologica, disintermediazione dell’informazione, milizie paramilitari e
compagnie di sicurezza private.
L’unicità dello stato, per quanto sbandierata dagli slogan nazionalisti di
volta in volta riesumati, appare sempre più problematica. In questo quadro,
emerge in modo piuttosto netto come la violenza (più combattimento verso una
vittoria rapida) non fermi le guerre: molti conflitti armati mostrano invece
propensione a protrarsi nel tempo e nello spazio.
Raramente il ricorso alla forza da parte degli stati è risultato
determinante per gli esiti, e tantomeno capace di risolvere i conflitti. In
altre parole, la guerra come strumento della volontà politica sembra
funzionare sempre meno rispetto al conseguimento degli obiettivi dichiarati.
Questo dato obbliga a porsi domande sul nazionalismo e su come la guerra (la
spesa militare crescente, così come la guerra guerreggiata) accompagni la
trasformazione della società. Da ultimo, pone l’esigenza di ripensare con
urgenza la pace e la prassi pacifista.
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