CHE TE NE FAI DI UN'ALTRA FEMMINA? di Renata Rusca Zargar
CHE TE NE FAI DI UN’ALTRA FEMMINA?
Io ti vedo,
piccola figlia mia,
giocare ignara nel mio ventre.
Non ti aspetti dolore da nessuno,
indifesa e muta creatura,
e ti amo,
anche se non sei ancora nata,
e ti aspetto,
per amarti di più
e consolarti tra le mie braccia.
Qui nessuno ti vuole,
e tanti teneri bimbi,
non desiderati come te,
sono morti, senza nome,
nel silenzio.
Vorrei poter cullare
tutti quanti,
tra le mie braccia
lunghe come il mondo,
perché possano dormire,
senza paura,
almeno una volta.
Poche settimane fa, ho saputo che la creatura che aspetto è
una femmina.
Mia madre, alla notizia, è rimasta sconvolta: -Tu, una
figlia ce l’hai già, cosa te ne fai di un’altra? Sono sicura che hai rischiato
questa gravidanza perché pensavi che sarebbe stato un maschio. -
No, mamma. Noi non aspettavamo questo figlio e io ero
padrona della vita e della morte di un piccolo essere indifeso che, ignaro di
tutto, cresceva dentro di me. Così va il mondo: i più forti possono fare tutto
ciò che vogliono sui più deboli, ma non è giusto. Ho visto battere il cuore di
quella creatura informe nelle immagini dell’ecografia, ho scelto la vita e l’ho
amata senza pensare a quello che sarà.
Tempo fa, ho letto che a Bombay migliaia di persone, ogni
anno, si sottopongono all’amniocentesi solo per sapere il sesso del nascituro e
abortiscono se è femmina. Conosco bene l’India, so quanto denaro costa maritare
una figlia, so che la maggior parte delle donne ancora non lavora fuori casa e
quindi non collabora alle spese. Ricordo il mio amico Gulam piangere alla nascita
della sua terza bambina e capisco le difficoltà di una particolare situazione
economica e sociale.
Anche qui, però, questo pregiudizio è assai radicato: il
maschio continua il cognome, dicono, ma io penso che lo desiderino, in realtà,
perché lo credono ancora un essere superiore. Qualche giorno fa, una donna
giovane si è messa a urlare di gioia per la strada perché aveva saputo che il
nascituro sarebbe stato maschio. Non è cambiato nulla nel tempo e tu mamma, sei
tranquilla. Avresti potuto essere moglie di un re perché hai dato a mio padre,
oltre a me, il sospirato erede uomo.
Adesso, però, qualcosa di terribile è successo! Ancor prima
del sesto mese di gravidanza, si è rotto il sacco amniotico e mi trovo qui,
immobile, in un letto d’ospedale per cercare di impedire, quanto più a lungo
possibile, che il meccanismo sconosciuto del parto si metta in moto. L’angoscia
mi opprime, perché non so cosa succederà; tutto è in gioco e non so se, quando
nascerà, darò la vita o la morte a questa creatura.
Ogni mattina, arrivano i medici in visita e mi danno
coraggio: un altro giorno trascorso è un passo sulla strada della speranza.
La vita è solo questione di tempo.
E tu sei venuta a trovarmi, mamma, alla domenica, com’è giusto, nel giorno di festa. Ben vestita, con i tuoi tacchi alti, ti sei seduta, elegante, con le mani sulla borsetta e mi hai chiesto quando finirà questa storia. Ti ho spiegato tutto e quanto sia importante resistere perché la bambina possa vivere. Ma tu, in confidenza, da donna a donna, mi hai chiesto:
-Visto che è successo, perché lotti così, perché non l’hai lasciata andare? -
Non ci sono parole.
Dentro di me, ritorna l’immagine della bambina che ero, un
po’ timida, che non osava chiederti il gelato quando vedeva gli altri che lo
mangiavano.
Non ci siamo mai capite molto, io e te, mamma, eppure,
quando tu sei stata all’ospedale, io, femmina, sono rimasta con te giorno e
notte.
Ho tanto desiderio di essere consolata da un’altra mamma che
possa capire la mia sofferenza. E mia suocera, così lontana, semplice creatura,
mamma di tanti figli, mi viene in mente. Vorrei che fosse qui ad abbracciarmi
per poter piangere sul suo grande seno mollo. Vorrei che anche mia cognata
fosse qui, so che pregheremmo insieme anche se non capiamo niente della lingua
l’una dell’altra. Ma l’amore non ha bisogno di parole.
Le ore passano lente ma regolari, come sempre,
nell’ospedale: la sveglia per le pulizie, la colazione, la visita dei medici,
l’ora dell’antibiotico, il pranzo, la visita dei parenti, il sonnellino, la
visita dei volontari, la cena, l’ora dell’antibiotico, il sonno.
Mi sembra persino di avere tante cose da fare: controllare
la flebo, chiedere la padella, pensare...
E penso ancora alla bambina che ero, con i bei vestitini puliti
e stirati, sempre sola, perché tu, mamma, credevi che gli altri bambini non
fossero abbastanza perfetti per giocare con me. Anche tu, del resto, non avevi
tempo, perché dovevi tenere pulita la casa come uno specchio. Ti dava fastidio
che io volessi parlare, giocare a vendere e a comprare o alla cicogna.
Ma quando, poi, avevo imparato a leggere e mi isolavo con un
libro (sempre lo stesso, perché ne avevo uno solo), anche quello non andava
bene e mi chiamavi in continuazione.
Ricordo che avevo una bellissima bambola, grande quasi
quanto me. La guardavo da lontano, perché troneggiava in mezzo al divano e non
la potevo toccare.
Allora pensavo che fossi cattiva, rinchiusa in un duro
castello inespugnabile.
Adesso riconosco nel tuo sguardo la debolezza e la paura.
Sei stata felice mamma?
Restando qui, nell’ospedale, non posso vedere, da molti
giorni, la figlia che mi aspetta a casa con i suoi grandi occhi profondi pieni
di ragionevolezza e di amore. Mi manca il suo abbraccio, con la testina
reclinata sulla mia spalla, la sua gioia di vivere, la sua vocina tenera.
E adesso considero che forse un domani le mie figlie
scriveranno parole critiche su di me, perché questa credo sia una disputa
naturale tra mamme e figlie.
Non importa.
Io le amo tanto, giocherò con loro e le lascerò parlare.
Quello che conta, adesso, è salvarne una, adorata, che
ancora vive dentro di me.
Quando la prenderò tra le mie braccia, saprò che sono stata
come deve essere una mamma.
Quando ti prenderò
tra le mie braccia
che gli aghi dei dottori
hanno torturato per non lasciarci morire,
il mio cuore impazzirà di gioia
e ti amerò più del mio respiro.
Tu sarai così piccola,
indifesa davanti al mondo,
tenero corpicino
assetato d’amore.
Ed avremo lottato insieme,
in questo letto d’ospedale,
ostinate a carpire la vita,
dimentiche di chi getta
i figli nella spazzatura.
PUBBLICATO SU:
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