IL VIAGGIO DEL SÉ VERSO IL SÉ di Paolo D'Arpini

 


Mi scrive un amico virtuale, conosciuto su internet: “Buongiorno Paolo, spero stia bene. La disturbo per una mia curiosità. C’è stato o c’è, un personaggio, un insegnamento, un’esperienza di Vita che più di ogni altra, Le è stata guida, Maestra nella Vita? RingraziandoLa di Cuore, Le auguro una serena settimana…” (Simone)

Mia rispostina “L’esperienza più significativa ed importante della mia vita è stato l’incontro con il mio Guru, Swami Muktananda, con tutto quel che ne consegue.”

Come posso raccontare l’incontro avuto con me stesso, come potrei descrivere l’io dinanzi all’Io? Questo riconoscimento del Sé avviene come stabilito dal destino. Per me accadde allorché mi trovai dinanzi al mio Guru Muktananda. Ma definire un “qualcuno” Guru è una limitazione alla verità, poiché Guru non è semplicemente una persona ma è la Coscienza unitaria che anima e si manifesta in ogni persona. Quella Coscienza io sono. Ma prima di giungere a questa “consapevolezza di Sé” dovrò fare molta strada indietro nel tempo, per raccontare spezzoni e spezzoni del mio sogno, della mia identificazione con l’immaginario “io” che ho creduto di essere per tanto tempo…

Questo discorso metafisico è alquanto strano, non c’è altri che il “Sé” eppure quando si prefigura un “io” automaticamente la mente produce un soggetto che si ritiene attore ed usufruitore di ogni esperienza vissuta, questo io, od ego, è un’identità riflessa nello specchio della coscienza, è un’immagine speculare che non potrà mai essere il vero “Io” eppure ne rappresenta le caratteristiche, in quanto coscienza, come ogni immagine speculare…

Lascio da parte ogni tentativo goffo di descrivere l’indescrivibile e mi soffermo sull’aspetto riferibile di quell’incontro con il Sé, quel momento di realizzazione e di assoluta libertà e presenza che avvenne… presente ora come allora e come sempre sarà. Ma quella meravigliosa “ri-unione” non poteva avvenire che nel momento stabilito dal fato, non poteva succedere ad esempio nel 1970 allorché Swami Muktananda visitò Roma e soggiornò in una semplice casa di Via Trionfale presso una semplice famiglia, di italiani “qualsiasi”, la famiglia di Giacomo e Giovanna Pozzi. In quel tempo stavo ancora godendo dell’assoluta creatività del mio piccolo io. Dovevo spogliarmi di quelle vesti per mezzo di un viaggio a ritroso, nell’abbandono dell’identificazione, un viaggio che fisicamente mi portò ad attraversare tutta l’Africa, sino a perdere ogni voglia di essere qualcuno o qualcosa ed infine mi consegnò davanti a me stesso, ed allo stesso identico momento di fronte al Guru Swami Muktananda.

Accadde nel giugno del 1973. E qui di seguito brevemente vi riferisco  di questo incontro…


In viaggio verso il Sé.

"Ce l’ho fatta, ho giusto i cento dollari per il passaggio (o poco più) ma sono sulla nave che mi porta in India, dopo aver attraversato l’Africa equatoriale in un viaggio epico e misterioso, con mezzi di fortuna e facendo la manche per il sostentamento spiccio. Mi sono spacciato per “scrittore in esilio” ho chiesto soldi a tutti senza
vergogna e i soldi mi sono stati dati, in Costa d’Avorio, Alto Volta, Togo, Dahomey, Camerun, Congo Brazzà, Congo Belga, Impero Centrafricano, Ruanda, Tanzania, Kenia… Eccomi, dopo esser rimasto sotto il sole nella spiaggia di Malindi, per un mese buono, ospite di
un’amica, Walda, in un bellissimo cottage sul mare con l’unico compito di fumare il narghilè e giocare con la sabbia, infine mi sono stufato e con gli ultimi 100 dollari rimasti mi compro un biglietto di terza classe sul cargo che collega Mombasa a Bombay. Insomma il viaggio continua e, senza volerlo, non avendo altro posto dove andare, vado in India la terra dei Guru….

E’ l’estate del 1973, dopo dieci giorni di mal di mare sbarco a Bombay il 23 giugno. Lo ricordo bene perché era quello il giorno del mio 29° compleanno. Dopo l’Africa mi sembrava di non voler conoscere più altro, cosa andavo a fare in India con tutti quei guru che vivevano di storie raccontate? Molto scettico, quasi ostile, verso tutto quell’interesse paraspirituale che era sorto in Europa dopo il ’68…
Ed io il ’68 l’avevo fatto, ed anche il ’69, il ’70 e tutti gli anni a seguire, insomma avevo vissuto nel vortice, ero un intellettuale, un illuminato, che ci andavo a fare in mezzi ai guru?

Già, immaginavo che ci fossero guru ad ogni angolo di strada pronti ad imbambolare la gente con le loro litanie. “Niente paura, io son laico di natura, li smaschererò tutti..” mi dicevo, e così pensando appena fuori del porto mi ritrovo su un calesse che corre a velocità stratosferica verso l’area centrale di Bombay, dove sta il grand-hotel
Taj Mahal e gli alberghetti per occidentali.

Una fortuna pazzesca, non c’è posto in nessun albergo a poco costo e vado a bazzicare nella hall del Rex Hotel (a quel tempo abbastanza quotato), lì incontro subito due ragazze, una è italiana e si chiama Pupa l’altra italo-americana e si chiama Francis. Attacco bottone, sono specialista in questo, e trovo posto a gratis nel letto di Pupa e mi tengo buona Francis per un dopo. Potete immaginare la mia meraviglia allorché scopro che le due donzelle vengono proprio dall’ashram di un “famoso” guru, che dicono chiamarsi Muktananda, ma io non l’ho mai sentito nominare. Indago astutamente su di lui e
siccome le ragazze mi invitano ad andarlo a conoscere accetto pensando che finalmente potrò confrontarmi con un guru. Immaginatevi uno che si è fatto tutta l’Africa, in mezzo a mille pericoli, sommosse, aggressioni, baruffe, fame, sete, paura, sonno, malaria, erba, insomma tutto quanto possa forgiare un uomo, renderlo sicuro di sé –entro un certo limite s’intende- uno che ha viaggiato e sa, conosce le situazioni ed i pensieri della gente, un sopravvissuto a se stesso, quell’uomo, io, si trova a doversi togliere gli stivali per entrare dentro il tempio del guru. Sì, togliere gli stivali, praticamente spogliarsi impedirsi una via di fuga, umiliarsi….

Non c’è nulla da fare o ti togli gli stivali o non entri, questa è la regola. Me li sono tolti, perché son più forte persino degli stivali, non ne ho bisogno.. ed entro nel tempio. Stanno cantando un canto dolce, dicono che durerà una settimana di seguito, il “mantra” lo conoscevo l’avevo già sentito sulla nave che mi portava in India cantato sulla tolda da gruppi estatici di indiani accompagnati dall’harmonium a soffietto. Qui è la stessa cosa, ma c’è più sintonia, la melodia è trascinante, ed a me piace cantare, mi metto a cantare anch’io… E mentre canto, e passa il tempo, insondabilmente mi ritrovo presente a me stesso. Ma star seduto per terra sul pavimento così a lungo mi fa venire una voglia incredibile di andare a pisciare, sto per alzarmi ma
una voce interna a quel punto mi ordina “puoi andare a pisciare solo dopo esserti inchinato”. Come, inchinarmi io? Cos’è questa nuova barzelletta che mi frulla in testa? Resto bloccato non posso muovermi son controllato da una forza sconosciuta, anzi ri-conosciuta, passa altro tempo ed alla fine devo cedere non ce la faccio più, mi
inchino, come ho visto fare qualche altro, di fronte ad una statua nera, sopra c’è scritto “Om Namah Shivaya”. Stranamente non resto impressionato dall’esperienza, mi pare che non abbia importanza è stato solo un momento di debolezza.

Ed ora l’incontro con il guru. E’ scesa la sera, abbiamo già cenato, Muktananda sta seduto sui gradini della sua dimora in un cortile interno dell’ashram. Vedo delle persone che passano in fila davanti a lui e chiedo a qualcuno “Di che si tratta? Che succede?” – “Oh, il
maestro sta distribuendo il prasad” Curioso mi metto anch’io in fila pensando, finalmente potrò vedere in faccia questo guru, ma la notte è buia non vi sono luci se non qualche lumino qua e là, all’improvviso mi trovo di fronte al guru, non vedo nemmeno la sua forma solo
un’ombra nell’ombra, un’intuizione mi si staglia però nitida nella mente, inequivocabile ed inconfondibile “Ecco, mi ha riconosciuto!” Ma subito dopo “com’è possibile non l’ho neanche mai visto..” .
Abbacinato ed imbambolato, resto fermo lì davanti mentre Muktananda mi spinge un qualcosa sulla mano, resto immobile, pietrificato, finché qualcuno da dietro la fila mi spintona per farmi procedere. Nella mano ritrovo un pezzo di dolce al latte. Che farne? Indovino che la cosa migliore sia di mangiarmelo. Com’era buono!"


Paolo D’Arpini (nella pagina sottostante, tratta da una rivista di Verona, si vede un gruppo di giovani mezzi sderenati, quello sdraiato ero io, ritratto poco tempo prima del mio epico viaggio)

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