IL CRIMINE DI SANT'ALBERTO di Fernando Sorrentino
UN RACCONTO DI FERNANDO SORRENTINO
(Argentina)
Fernando Sorrentino - Wikipedia
Il crimine di sant’Alberto
Mi sarebbe piaciuto iscrivermi a Medicina, chi lo sa. A mia madre sembrava una carriera troppo lunga e troppo costosa. E troppo difficile. Allora mi sono rassegnato a un ripiego, che aveva con la medicina alcuni elementi in comune: mi sono iscritto a Scienze biologiche. Oggi do lezioni di botanica, zoologia, anatomia, igiene e materie affini in tre scuole di Buenos Aires, più o meno vicine tra loro: ho trentasei ore di cattedra, scappo con una fretta inutile da una scuola all’altra, gran parte degli scarsi stipendi che guadagno va sprecata per i biglietti dell’autobus.
Siccome sono miope e soffro di uno strabismo abbastanza accentuato, sin da piccolo ho dovuto portare gli occhiali. I miei in teoria avevano una doppia funzione: attenuavano la miopia e correggevano lo strabismo. Erano – sono – lenti enormi, pesanti, mostruose, due spirali di vetro congelato. Mi piacerebbe dire che è stato l’ingombro degli occhiali a vietarmi di giocare a calcio. Di sicuro, con gli occhiali o senza occhiali, soffro di una incapacità congenita di svolgere qualsiasi attività sportiva. Non so calcolare alcun tempo e distanza; la mia goffaggine è patetica per me e comica per gli altri. Non ho mai saputo calciare un pallone senza provocare risate; non so nuotare; non ho mai neppure imparato ad andare in bicicletta.
Il mio quartiere è Palermo e più di preciso Pacífico. Qui, strade con nomi di esploratori o naturalisti si incrociano con strade in omaggio a paesi centroamericani. Fitz Roy è una di queste. Scorre parallela alle rotaie della linea San Martín, è una via abbastanza brutta che va peggiorando a mano a mano che si allontana da Santa Fe e si avvicina a Córdoba. Ci sono depositi, fabbriche, capannoni e case di umile, funesta architettura.
Io vivo al numero 1600 di calle Fitz Roy, tra Gorriti e Honduras, in uno di quegli appartamenti che le agenzie immobiliari chiamano “tipo villetta”, come se il diminutivo ne attenuasse lo squallore. Io sto nell’appartamento C. So che è infelice e sventurato; siccome ci sto da quando sono nato, mi sono abituato sia all’infelicità sia alla sventura. Apro la porta e sono in un cortile quadrato con le piastrelle sbiadite color ocra e verde. In questo cortile sopravvivono, da tempo immemore, alcuni oggetti in disuso: per semplice apatia o perché così è. Non mi costerebbe nulla buttare questa o quella reliquia: ma, perché dovrei farlo? In fondo, la sala, la camera da letto e un’altra camera; tutte e tre senza finestra. In questi tre antri, crivellano gli aghi dell’inverno e frustrano i roghi dell’estate: sempre senza pietà.
I mobili della sala da pranzo e della stanza di mia madre sono scuri, solidi, smisurati, perturbanti. Quelli della mia camera sono mobili molto più moderni: li ho comprati a poco a poco, in vari periodi, sostituendo gli originali che erano degli anni ‘50 e che odiavo con fervore.
La sala (o “saletta”) la uso come studio. Lì sono solito preparare le mie lezioni, correggere le prove scritte, e nel presente caso eccezionale, redigere questo modesto rapporto. Per andare in bagno bisogna, col sole o con la pioggia, attraversare il cortile. Per una porta interna posso passare dalla sala alla mia stanza, che è giusto il luogo in cui dormo. La stanza successiva, un poco più grande, è quella di mia madre.
Mia madre ha settant’anni. Per molto tempo ha dato ordini, ed io le obbedivo. Gradualmente ho guadagnato sempre più libertà, fino ad arrivare alla completa indipendenza di cui godo oggi. Una parte importante di questo processo di liberazione è stata la vendita dell’antico mobilio funerario della mia stanza e il suo graduale rimpiazzo con mobili dello stile di quelli che aveva nella sua camera Federico Keller.
Ho vissuto per tutta la vita con mia madre in questa casa. Quarantacinque anni nello stesso posto con la stessa persona. Mi sarebbe piaciuto lavorare, ma mia madre non me lo ha permesso; per cui, che mi piacesse o no, ho vissuto sulle sue spalle da quando avevo undici anni fino ai ventitré, quando ho finito gli studi e ho conseguito un impiego in un liceo di Olivos, e lì ho guadagnato i primi soldi della mia vita.
Intanto, nella calle Fitz Roy, brutta ma anche bella, si disputavano partite indiavolate di calcio, si facevano corse – su pista o su strada – con le automobili di plastica piene di mastice, si mettevano a confronto le abilità nel gioco delle biglie, si affidava la proprietà di alti piloni di figurine ai disegni del destino. La televisione non esisteva, il traffico scarseggiava, la strada era il paradiso dei bambini. Degli altri bambini, non il mio.
Io ero il finocchio, il quattrocchi, il miope, lo strabico, la mezzacartuccia, quello con le spalle piccole; quello che non sapeva calciare, né dare un colpo di testa al pallone, né tantomeno stopparlo; quello che non aveva idea di come si lanciassero le macchinine sulla pista di gesso nella veranda; quello che perdeva sempre alle figurine e al sette e mezzo.
La gioia della vita splendeva davanti a me, la ammiravo senza poter partecipare.
Federico Keller, lo conosco sin da bambino. Abbiamo la stessa età; lui mi supera di sei mesi, ma dimostra dieci anni meno di me, una cosa che attribuisco soprattutto alla mia calvizie.
Avevamo undici anni, eravamo entrambi al quinto anno nella scuola Juan Crisóstomo Lafinur, nella calle Gorriti. La maestra si chiamava signorina Beatriz, e credo che non brillasse particolarmente, a giudicare da alcuni miei ricordi.
Federico Keller era alto, magro, biondo, simpatico, prepotente, arbitrario, ironico, buffo, burlesco, intrigante, generoso, sprezzante, superbo; Federico Keller aveva una voce potente, occhi verdi o azzurri, spalle larghe, gambe lunghe e muscolose; Federico, con il numero cinque sulla schiena, giocava straordinariamente bene a calcio: gridava, retrocedeva, difendeva, andava avanti, andava in rete, scartava gli avversari, dava ordini… Tre o quattro di queste virtù fisiche sarebbero bastate per conferirgli, nell’universo infantile, quella che oggi è chiamata leadership assoluta.
Ma l’opprimente personalità di Federico Keller non si esauriva nelle eccellenze sportive. A scuola, Federcico – sempre, sempre, sempre – era quello dall’intelligenza più veloce e acuta, e sapeva più cose – sempre, sempre, sempre – di tutti noi messi insieme.
È vero che le sue doti e i suoi meriti intellettuali andavano ben oltre la nostra lista delle ammirazioni; benché in nessun modo ci imponessero di imitarlo o di rispettarlo.
Chiaro, c’erano altre ragioni per spiegare questi vantaggi che, sul piano intellettuale e culturale, collocavano Federico al di sopra di chiunque altro. Per esempio, né a casa mia né in quella dei miei compagni c’erano altri libri all’infuori di quelli scolastici, e le conversazioni consistevano in un reiterato repertorio di ovvietà, imprecisioni e dimenticanze.
Federico viveva sul marciapiede opposto di Fitz Roy: al 1700. Era una casa vera, non un appartamentino “tipo villetta”. Una casa con marmi esterni venati, una targa di bronzo che diceva Dr. Rodolfo Federico Keller. Avvocato, un portone con due porte a vetri che si aprivano per accogliere una Oldsmobile nera. Una casa con pavimenti lucidi, con i tappeti, un pianoforte, i quadri, i libri, il giradischi. Una casa che odorava di pulito e di vita vera, con la luce, con l’aria, col sole. Le finestre. Una casa con una scala interna di legno che portava al piano di sopra, dove c’erano quattro camere da letto, tra le quali quella di Federico.
Timido e impressionato, entro dietro Federico. Vedo tutto insieme e non vedo nulla. Dopo inizio a percepire le cose di Federico Keller, quelle cose che, nell’insieme, somigliano a lui, in modo tale che non sarebbero possibili senza Federico. È una stanza con un tappeto verde smeraldo; c’è un letto in legno, basso e simpatico, coperto da un piumino a quadri di colori vivi. Alle pareti, appesi con le puntine, scopro alcuni degli amori di Federico. Sono tantissime fotografie ritagliate da diverse riviste. Predominano giocatori del River: riconosco Amadeo Carrizo, Eliseo Prado, Félix Loustau. Noto anche due presenze del mondo automobilistico: Oscar Gálvez, in piedi accanto alla sua auto da corsa numero 1, e Juan Manuel Fangio, infilato nel suo bolide azzurro e giallo. Ci sono altre immagini di persone che non mi sono familiari, e, in quella galleria di gente che fa bene le cose, vedo anche Stan Laurel e Olivier Hardy. La stanza è il tempio di Federico: gli piace essere circondato dalle persone che ammira. (Mi viene in mente che le pareti della mia camera sono un deserto grigio).
C’è anche una piccola scrivania, infilate sotto il vetro ci sono una bandierina del River Plate e un’altra del San Isidro Club. Alle spalle della sedia di Federico c’è una libreria con otto ante. Vedo libri logori, presumo ereditati, e altri impeccabili, tra i quali molti di colore giallo della collezione di Robin Hood, libri che Federico compra a uno a uno e legge con amore e con gusto. (In questo momento sta leggendo un romanzo intitolato David Copperfield: mi dice che è il libro più straordinario che ha letto nella sua vita, e gli piacerebbe parlarmene; ma io non mi sento in grado di leggere un libro così lungo.) Ci sono anche i grossi tomi rosso porpora di un’enciclopedia, di cui la curiosità di Federico si nutre di continuo alla ricerca di informazioni, e ci sono libri scolastici, che non disprezza, e c’è anche un minuscolo libretto, un pamphlet, che tira fuori da non so quale angolo, e le cui foto pornografiche mi provocano una sorta di vertigine e di febbre, solo un secondo prima che Federico, veloce e sicuro, lo nasconda di nuovo, forse contento di avermi lasciato sfinito ed esterrefatto.
Federico parla, Federico ride. Dalla mia bassa statura, dal mio piccolo torace, constato ancora una volta che Federico è alto, con le spalle larghe. Attraverso il vortice cristallizzato dei miei occhiali da miope e da strabico, riesco a vedere che i suoi occhi irradiano luce, irradiano intelligenza, e che a tratti sono verdi, a tratti azzurri, altri ancora verdi e azzurri allo stesso tempo.
Entra nella stanza la madre di Federico: io rimango attonito, instupidito. Che bella donna: non sembra appartenere alla realità ma al cinema. Forse è ancora più bella di Federico, che ha ereditato da suo padre alcuni tratti germanici, come il mento quadrato e gli zigomi ossuti. La signora Susana è magra, è alta, è svelta, ha i capelli castani, gli occhi grandi e verdi, e un sorriso bianco. Benché non ne capisca nulla di vestiti, mi rendo conto che è vestita molto bene, con semplicità è talvolta eleganza, in un modo come mai potrebbero vestirsi mia madre o le altre signore del quartiere, che peraltro pesano sempre più di quanto dovrebbero pesare. Sento che la signora Susana mi sta parlando, mi chiede qualcosa che non capisco, mi chiede se mi piace la letteratura, ciò mi innervosisce ancora di più, si corregge, mi chiede se mi piace leggere, le dico no, sì, non so, arrossisco, Federico sorride leggermente, come se non notasse nulla, la signora Susana esce dalla stanza e torna dopo un minuto con un libricino fiammante con la copertina color arancio, dal profumo di carta nuova e inchiostro fresco, che mi regala con queste parole: Leggilo, ti piacerà.
Qualche anno più tardi, quell’angelica signora morì, va a scoprire a causa di quale dannata malattia, ma di lei conservo nella mia piccolissima biblioteca – in cui ci sono solo libri che mi regalano le case editrici scolastiche – quel libretto color arancia, che è I racconti della selva, di Horacio Quiroga, nell’edizione Losada. Sono passati da allora trentaquattro anni, e ho riletto il libricino molte volte, ma mai nell’ultimo quarto di secolo. A pagina trentacinque, dove inizia “La guerra dei caimani”, conservo un ritaglio ingiallito de La Prensa, le cui prime parole dicono: María Susana Lanfranchi Keller. la sua morte. Un profondo dolore per i circoli educativi e culturali del nostro giornale la morte della professoressa María Susana Lanfranchi Keller, sopraggiunta lo scorso giovedì dopo aver sofferto per…
Passò un anno. Ne passarono cinque, dieci. La mia vita e quella di Federico sembravano diverse, a volte simili, e arrivarono a incrociarsi per qualche anno al liceo del Colegio Nacional Nicolás Avellaneda, benché in sezioni diverse.
Mentre ero alla facoltà di Scienze biologiche, Federico intraprese due corsi di studi simultanei: si iscrisse alla Facoltà di Architettura dell’Università di Buenos Aires e allo stesso tempo cominciò nell’Istituto Joaquin V. González – in cui io studiavo biologia – il corso per insegnare matematica e fisica. Questa avidità era caratteristica di Federico: in un modo o nell’altro, gli avanzava sempre il tempo per fare tante cose insieme, tanto grandi erano la sua bravura e la sua energia.
(A proposito, Federico continuava, sempre meglio, a giocare a calcio in squadre amatoriali. La sua fama di quartiere aumentò, e dal Club Atlanta, di Villa Crespo, venne gente apposta per osservarlo e offrirgli poi un contratto come calciatore professionista. Lui non accettò, dando questa spiegazione: “A conti fatti diventerei un giocatore decente di serie A. Ma non sarò mai uno straordinario calciatore internazionale: per esserlo c’è bisogno di virtù che io non ho, per cui preferisco dedicare il tempo a fare altro”.)
Il popolo studentesco dell’Istituto era prevalentemente femminile. Federico faceva stragi di quelle ragazze.
Fu ostacolato da un anno di servizio militare, ma terminò gli studi senza alcun ritardo. Ci laureammo entrambi nello stesso anno. Per me è stata la più grande soddisfazione intellettuale e professionale.
Federico continuò a studiare architettura, e in quegli anni la sua passione per la lettura si tramutò in talento letterario. Era insaziabile, era instancabile, poteva dividersi in diverse attività simultaneamente, senza per questo trascurare la qualità di nessuna e senza smettere di avere tempo libero per lo svago e il divertimento.
Il Federico bambino che leggeva libri della serie di Robin Hood si era trasformato nel Federico adolescente e ragazzo che sfruttava ogni momento utile per leggere, per il gusto di farlo. Oggi tutti sanno che Federico era un narratore di successo. Il suo primo libro di racconti s’intitolava Siamo tutti imbroglioni; più tardi, con la media di un volume ogni due o tre anni, ha continuato a pubblicare romanzi e racconti. Di Siamo tutti imbroglioni mi ha regalato una copia, senza dubbio perché era il suo primo libro e non sapeva a chi regalarlo; gli altri, non me li ha regalati né io li ho letti. Non capisco nulla di letteratura, e non mi interessa ciò che non capisco. Sì, è come dico, ho letto Siamo tutti imbroglioni e mi è sembrato che a quei racconti mancasse – non so se è la parola giusta – agilità, e, in generale, non mi sono piaciuti. Poi però, leggendo recensioni su recensioni ne La Opinión e nel Clarín, ho capito che mi ero sbagliato. Quando gli ho fatto i complimenti per le critiche, la sua risposta mi ha sorpreso: “Bah”, mi ha detto, “che ne capiscono quei babbei?”
Nella scuola di Palermo scoprii che quasi tutte le alunne erano innamorate di Federico: lo adulavano, gli formulavano languide domande, lo toccavano, lo perseguitavano per il cortile, lo adoravano. E lui, indulgente, si lasciava adorare: si prodigava in ringraziamenti, battute, prendeva in giro le sue ammiratrici mettendo in evidenza i loro difetti fisici, le feriva con noncuranza.
Il dipartimento di biologia era tutto per me: avevo ereditato le classi della professoressa Infantinelli, anziana zitellona e pare molto irascibile, che io vidi solo una volta. Anche se non era il mio, voglio parlare per un attimo del dipartimento di matematica.
Quando io entrai in quella scuola, i matematici erano questi tre professori: Irma Ofelia Roux de Larroca, Federico Keller e Mirta López Rinaldi. Poco tempo dopo, Federico già architetto, lasciò il liceo e affidò il suo posto a un’amica sua: Liliana Gentile, una ragazza appena laureata, incolore e silenziosa, dagli occhi chiari e belli. Liliana avrà avuto ventidue anni; Mirta ne aveva venticinque. Forse per questa vicinanza di età, fecero amicizia da subito. Mentre con la responsabile del dipartimento, la professoressa Roux de Larroca, che aveva almeno trent’anni più di lei, non andava molto d’accordo.
Dunque, perché mi interessava tanto questo dipartimento di matematica? Perché conoscevo tanti dettagli sulle assunzioni e il funzionamento? Perché avevo ventotto anni e mi ero innamorato come un demente di Mirta López Rinaldi, la adoravo in segreto, senza osare neppure sostenere il suo sguardo. Ah, Mirta, Mirta, Mirta López, Mirta López Rinaldi, cosa non avrei fatto per il tuo amore, donna incantevole, donna superiore e irraggiungibile. Mirta adorata: non puoi neanche immaginare che il tuo Lentini muore d’amore per te.
Da diciassette anni vivo col sogno impossibile di Mirta López Rinaldi. Diciassette anni: non diciassette giorni né diciassette mesi. Diciassette anni. Ora Mirta ha quarantadue anni, e col tempo è diventata ancora più bella. Quando sono entrato nella scuola, Mirta già lavorava lì. Aveva solo venticinque anni, io ero… ero… non so, cerco un’espressione precisa e definitiva che non troverò: allora mi limito a dire che Mirta era la donna più bella e simpatica e attraente e adorabile e… che ho conosciuto in tutta la mia vita. Un angelo sottile, capelli rossi, ramati, con riflessi luminosi, il volto dai tratti brevi e attenti, vivaci; lunghe sopracciglia, scure e arcuate… Ah, Dio mio!
Io ero il nuovo professore, e Federico si incaricò delle orribili presentazioni. Offuscato dalla timidezza, strinsi ciecamente le mani dei vari signori e signore, alcuni dei quali sarebbero stati miei colleghi per lunghi anni, e i cui nomi non capii in quel momento. Mirta, col sorriso facile, rispose “Ciao!” al mio saluto così complicato che neanch’io sapevo cosa avevo detto.
Da allora, mi sono semplicemente consacrato ad amare Mirta López. Ciò implica contemplarla il più che posso, e contemplarla di nascosto, poiché morirei di vergogna se lei si accorgesse che mi permetto di osservarla. Mirta è a suo agio con la vita e col mondo, la sua gioia di vivere si trasmette nella sua bellezza e nelle sue attitudini.
Solo con la sua presenza, Mirta impone nelle classi l’ordine che io mai sono riuscito ad ottenere. Seduce i maschi, è l’idolo delle ragazze. Mirta: mi piace come parla – è rauca e estroversa –, mi piace come cammina – con un certo negligente impaccio–, mi piace come ride – con una sonorità che in altre persone mi avrebbe irritato –. Mi piace l’inflessione della sua voce, interrotta da qualche silenzio da fumatore. Mi piace che i suoi denti, macchiati nelle intersezioni dalle sigarette, non siano assolutamente bianchi. Mi piace persino che mi infastidisca con la sua brutta abitudine di fumare di continuo, che è ciò che succede il martedì, quando lei ed io, entrambi liberi alla stessa ora, rimaniamo soli nella sala professori.
Tavolo centrale, io mi siedo di fronte a Mirta. Mirta si dedica alla correzione delle sue prove di matematica; io fingo di correggere le mie prove di biologia ma in realtà giro solo le pagine, senza leggere né vederle: semplicemente, dedico questi furtivi quaranta minuti a innamorarmi sempre più di lei. Mi piace la sua grafia grande e rotonda, le sue penne nere, il suo accendino dorato, le sue infinite sigarette bionde. Mi piace come, prima di iniziare le correzioni, pulisce con un fazzoletto i suoi occhiali; mi piace come sta con gli occhiali; mi piace la sua attitudine concentrata, i cui gesti più piccoli meriterebbero applausi, indifferenza, o condanna; mi piace come approva meriti e disapprova demeriti; mi piacciono la prolissità e la precisione con cui termina il suo lavoro, raccoglie le prove, il registro, il pennarello rosso, la stilografica nera, le sigarette, l’accendino, gli occhiali nel loro astuccio, l’astuccio nella borsa; mi piace come sta senza gli occhiali…
Non è un giorno. Per diciassette anni ho contemplato inutilmente le eccellenze di Mirta: con amore, con disperazione, con tristezza.
Le donne mi incutono timore. Non ho mai imparato l’arte della galanteria, delle sfide verbali, della conquista. Nonostante io non sia proprio un mostro, devo ammettere che il mio aspetto non attrae nessuna donna. Ma c’è di peggio: non riesco a sopperire a quelle mancanze fisiche con una brillante dialettica, modi originali, qualche barzelletta al momento giusto, una segreta tenerezza. Nossignore. Sono davvero negato. Ho poco talento; le mie capacità di improvvisazione o di inventiva, nulle; non riesco mai a infilare tre parole, non direi acute o sottili, ma minimamente attendibili, per cui nessuno fa caso a me quando parlo. Inoltre, la mia cultura – nel senso più ampio del termine – è limitatissima: non so niente di letteratura, né di pittura, né di teatro, di cinema, di musica, di moda, di sport, di politica, niente di niente. Niente di niente. Credo di non sapere niente perché niente mi interessa. L’unica cosa che – lo dico senza modestia – conosco alla perfezione, sono le scienze biologiche. Ma ho scoperto che non costituiscono un argomento di conversazione sociale: è impossibile conquistare una donna descrivendo la germinazione del mais o illustrando le vicissitudini dell’ameba e del paramecio. Si aggiungano a queste carenze strutturali altre che potremmo definire operative: non so controllare i nervi, divento rosso, sudo, balbetto, mi mordo la lingua o non riesco mai a trovare le parole adeguate… Allora la domanda è: quale donna si sentirà mai attratta da me?
Per molti anni la risposta è stata “Nessuna”. Ma sette mesi fa la situazione è cambiata. Da aprile ho una specie di fidanzata. O lo dirò senza pudore: una fidanzata. Benché non mi sposerò mai con lei.
La mia fidanzata ha un nome e un cognome che fanno rima: si chiama Mabel Ester Ferrer. È insegnante di matematica, gli alunni l’hanno ribattezzata La Formica Viaggiatrice. In effetti, Mabel Ester Ferrer somiglia a una formica. Una formica nera, non rossa: è di un bruno opaco, capelli lisci e piatti, naso piccolo e ossuto, guance scavate, zigomi sporgenti, labbra inesistenti, occhi scuri e piccolini, gambe sottili come stuzzicadenti, mani affilate e nervose. Non ha seni, non ha sedere, non ha fianchi. Non ha un grammo di grasso: gli ossicini si intravedono qua e là. Se le vere formiche parlassero, lo farebbero con la voce di Mabel: una vocina laconica, magra, sottile.
Siccome il caffè costa troppo, la scuola a ricreazione ci offre tè o mate bollito. I professori conversano e fumano. Io no: io bevo solo il tè. Non fumo – non sopporto il fumo – e non parlo quasi con nessuno – nonostante il tempo trascorso con le stesse persone, non so come partecipare a una qualunque conversazione –. In più, le chiacchiere girano spesso intorno a questioni scolari, e dopo tanti anni di insegnamento, questi temi mi annoiano e mi infastidiscono.
Un giorno di marzo è apparsa Mabel Ester Ferrer, quello scheletrino da cui pendevano vestiti antiquati e funebri, e si è seduta accanto a me, nel posto libero che si crea sempre tra me e i miei colleghi. Siccome non converso, tendo un po’ a isolarmi. Forse perché era appena arrivata, e non poteva entrare di colpo nella conversazione principale, ha rivolto la parola a me.
Ho dimenticato del tutto quel dialogo, benché possa scommettere che riguardasse argomenti scolastici. L’importante per me fu che – a differenza di tutte le altre donne della terra – Mabel Ferrer non cercava – a meno che non fingesse – di mettermi in imbarazzo, né di farmi arrossire e balbettare. Mi sono dato subito una spiegazione: mi sentivo sicuro perché, nella volubile classifica che le persone formulano per le persone, Mabel Ferrer occupava un posto simile al mio. O addirittura più basso. Nessuna donna era attratta da me, è sicuro. Ma quale uomo avrebbe potuto sedurre Mabel Ferrer, che sembrava una formica ma anche un ombrello oppure, in qualche strano modo, una forchetta? Come si dice, Dio li fa e poi li accoppia!
Durante quella nostra prima conversazione Mabel ed io abbiamo utilizzato uno strano linguaggio, carente di verbi e pronomi della seconda persona, per cui era impossibile sapere se ci dessimo del tu o del lei. Alla nostra età a volte non sappiamo quale delle due forme sia giusto usare.
Sempre più spesso Mabel ed io abbiamo trovato un modo per rimanere isolati dagli altri insegnanti. Nonostante i suoi vestiti da museo e il suo anacronismo generale la facessero sembrare più vecchia, Mabel aveva solo trentacinque anni. Ma a nessuno importava che ne dimostrasse venti o sessanta: era una persona senza età. Paragonavo la rigidità e la contenzione dei suoi trentacinque anni da mummia con l’esuberanza, l’allegria dei quarantadue di Mirta, quell’esplosione instancabile, vivace, inquieta, gioviale, formosa, con i seni, i fianchi… Vabbè.
Una settimana più tardi, Mabel Ferrer e io siamo scesi insieme in ascensore. Era un mercoledì di aprile, a mezzogiorno. Avevo dato sei ore di lezione, avevo i tempi stretti, strettissimi, per arrivare nella scuola di Belgrano per la prima ora di lezione.
Dividere l’ascensore con un’altra persona, soprattutto se è una donna, mi mette a disagio. Bisogna compiere una serie di cortesie: aprire la porta esterna, aprire la porta interna, cedere il passo, chiudere la porta esterna, chiudere la porta interna, poi aprire la porta interna, aprire la porta esterna, cedere il passo, chiudere la porta interna, chiudere la porta esterna. Per evitare questi quattro movimenti di apertura e questi quattro movimenti di chiusura, preferisco scendere per le scale. Ma quel giorno, chissà perché l’ascensore era fermo al piano delle seconde, e l’ho usata, e l’ho dovuta condividere con Mabel Ester Ferrer, alias la Formichina Viaggiatrice, che in quell’istante, con le sue gambette secche arrivava correndo dietro di me.
Una volta in strada, ho tirato un sospiro, dovevo scappare come sempre verso avenida Las Heras, per prendere l’autobus 59. Sono abituato alle corse: il tempo scarseggia sempre, e il minimo ritardo, anche solo di due o tre minuti, mi fa arrivare tardi. Ma Mabel Ferrer, guardando la strada e il cielo pieno di sole, ha detto con la sua voce minuta da formica:
“Che bella giornata, Lentini. Io ho il pomeriggio libero, è morta la vicedirettrice dell’altra scuola. Tu hai qualcosa da fare, Lentini?”
Senza sapere il perché, le ho risposto: “No. Ti va di fare una passeggiata?”
Per la mia vita fatta di giornate tutte uguali, quello è stato un pomeriggio unico. Ho scoperto che Federico aveva ragione: Buenos Aires è bella, soprattutto quando, in un giorno di lavoro, uno decide di non lavorare e uscire a passeggiare con una donna, anche se questa donna è solo Mabel Ferrer.
Abbiamo camminato senza meta. Siamo andati a Juncal, poi a Malabia, siamo entrati nei Giardini Botanici. Mi piaceva sentire il crepitare del pietrisco sotto la suola delle scarpe, mi piacevano gli infiniti verdi di quei giardini arcaici e malinconici, che la scarsa presenza di passanti rendeva sereni e silenziosi. Siamo entrati per la porta di Malabia e siamo usciti per quella che dà su piazza Italia. Poi ci siamo ritrovati nell’immutato Giardino Zoologico, sempre uguale nonostante gli anni, che logorano solo la sua fisionomia in piccoli punti. Di cosa parlavamo Mabel ed io? Non so, non lo ricordo, e suppongo che non lo ricordi perché non era qualcosa che si può ricordare. Sarà stato qualcosa di quel momento. So che mi sentivo felice, in compagnia di quel vermiciattolo che si rivelava piuttosto simpatico, e i cui occhietti neri, quando sorrideva, si accendevano in una scintilla di gioia. E chissà, forse anche per Mabel si trattava di felicità. All’improvviso non riuscivo più a contenere le risate: mi ero appena reso conto che, anche in un pomeriggio diverso dal solito, io mi muovevo nelle mie materie: nel Giardino Botanico e quello Zoologico. Anche Mabel rideva.
“Io non potrei farlo: non esiste un giardino matematico!”
Abbiamo deciso di mangiare qualcosa all’interno dello zoo. Abbiamo preso due panini e due gassose. Mi fa schifo il salame e il pane morbido, ma quel pranzo mi è piaciuto molto, soprattutto perché in nessun posto sono riuscito a trovare una mostarda così saporita come quella dei panini dello zoo. Di sicuro, mi sentivo davvero a mio agio insieme a Mabel; come se la languida gassosa fosse vino brillante, la lingua ha iniziato a sciogliersi. Ho scoperto che potevo improvvisare barzellette, e che Mabel le apprezzava: ciò voleva dire che, nel momento giusto, io potevo essere persino simpatico. E quando abbiamo lasciato i giardini, avviandoci verso calle República de la India, ci siamo presi la mano.
Le ore correvano. A un certo punto ha fatto improvvisamente sera: io avevo perso la nozione dello scorrere del tempo. Non sapevo neanche in quale ordine si susseguissero i posti. Abbiamo camminato lungo avenida del Libertador, abbiamo girato per il grazioso labirinto di Palermo Chico, siamo sbucati e risbucati su avenida del Libertador e avenida Figueroa Alcorta, ci siamo inoltrati in freschi parchi dall’odore di siepe appena tagliata, e ci siamo seduti su una panchina di pietra. C’erano le buche, una statua, dei sentieri in discesa, un forte odore di piante, ali e mormorii di foglie nell’ombra. Lì vicino, c’era l’infinito edificio in costruzione della Biblioteca Nazionale. È stato quella sera, tra i rumori di auto e di insetti, che ho preso coraggio e ho baciato Mabel Ferrer. Sono entrato nella sua bocca, e Mabel è entrata nella mia, ancora e ancora. I nostri respiri si sono trasformati in sospiri, rantolii, quasi dei gemiti, mentre le mie mani tentavano una esplorazione che lei fermava con decisione o accettava in parte, ogni secondo un po’ di più.
Così le ho proposto ciò che dovevo proporle, ma – maledicendomi – l’ho fatto con parole che, appena pronunciate, ho trovato assurde. Tremante, trionfante e idiota, le ho detto: “Non ti andrebbe di avere un rapporto sessuale?”
(Non “andare a letto insieme” o “fare l’amore”. Né tantomeno termini più volgari che usano i ragazzi quando si incontrano. “Avere un rapporto sessuale”: madonna mia, quanto mi piace rendermi ridicolo. E meno male che non sono stato fedele ai testi di zoologia e non le ho detto: “Ti propongo di accoppiarci”.)
Ma che importano queste questioni di stile e di linguaggio, una parolina in più, una in meno, se Mabel Ferrer mi ha risposto di sì, che le andava di “avere un rapporto sessuale con me”?
Ricordavo che in calle Azcuénaga, di fronte al cimitero della Recoleta, c’era una serie di questi alberghetti a ore, che il pudore municipale ha ribattezzato hôtel de passe. Non li avevo mai usati, ma ho cercato di non farmi prendere dall’emozione: immaginavo che sarebbe andata bene, che avrei dovuto lasciarmi semplicemente trascinare dalle circostanze. Ed è successo tutto come un fulmine: il taxi, l’hotel, il receptionist, la chiave con un pesante rettangolo di bronzo, la penombra rossiccia, il letto, le vertigini, lo scoppio del fuoco e della gloria.
A differenza di quelle donne appetitose che si vedono sulle copertine delle riviste alla moda, Mabel non si prodiga in curve tentatrici ma in spigoli asettici e insipide ossa. Davvero. Ma, fatto sta, che è la dea erotica che mi ha iniziato alla vittoria del piacere.
Mabel, come me, vive con sua madre, vedova da sette anni, anche lei professoressa di matematica e fisica, ma nel suo caso in pensione. Tuttavia, per tutto l’anno, specialmente durante le vacanze scolastiche, dà ripetizioni in casa, e in proporzione, guadagna più di Mabel nelle scuole. Mi ha dato queste informazioni a bordo dell’autobus 37, che abbiamo preso alla fermata di Las Heras y Pueyrredón.
Mi ero già lasciato dietro l’esaltazione, eravamo già tornati al mondo di tutti i giorni, alle materie scolastiche, al bus. In quel lungo percorso, a bordo del 37 di color verde acqua, ho superato, da nord a sud, le seguenti strade: Santa Fe, Córdoba, Corrientes, Rivadavia, Belgrano, Independencia, San Juan, Garay, Caseros, Alcorta…; sempre più verso sud, fino al Parque de los Patricios, fino a Barracas, dove vive Mabel Ferrer.
La casetta era piccola e brutta, era composta da un ingresso senza decorazioni, una porta incastrata tra due finestre, nascosta in una strada che non avevo mai sentito nominare: calle Augustín Magaldi. Facendo mia una massima di Federico Keller, ho finto di essere un esperto di tango:
“Magaldi è stato un cantante snob e piagnucoloso. Io non l’ho mai potuto sopportare. – Bugia: non lo conoscevo nemmeno”.
“Riguardo ai gusti, nulla è scritto”, ha risposto Mabel un po’ irritata, come se la critica al cantante fosse un’ingiuria contro la sua strada e la sua casa.
Siamo rimasti un istante sul marciapiede. Ho temuto che mi invitasse a entrare, che mi volesse presentare la professoressa in pensione. Per fortuna, non è successo. Ci siamo salutati lì, io mi sono diretto verso Vélez Sarsfield. Dovevo riprendere il 37 fino a Palermo: senza Mabel accanto a me, potevo approfittarne per riflettere.
Una cosa era certa: il bilancio della giornata era nettamente positivo. Avevo appena ottenuto il mio primo trionfo amoroso. Un trionfo tardivo, ma pur sempre un trionfo. Se mi guardavo allo specchio, potevo sentirmi soddisfatto. Certo, se mettevo a confronto la mia miseria con Federico Keller, le sue mille conquiste, le sue donne belle e servizievoli e ben vestite, la mia vittoria risultava insignificante, impercettibile.
Ma perché dovevo paragonarmi a Federico? Federico Keller era Federico Keller, ed era nato per trionfare e per fare bene le cose. E Alberto Lentini era Alberto Lentini, e non era nato con lo stesso destino di Federico Keller.
In più, perché dovevo pensare a Federico? Per caso lui pensava mai a me? Sicuramente no. Il pensiero di Federico era evocato dalla calle Augustín Magaldi, poiché Federico era un grande appassionato di tango, possedeva una vasta collezione, molti libri su questo tema, ascoltava tango continuamente, e riteneva con cognizione di causa che Magaldi fosse un cantante snob e piagnucoloso, in modo che io, che non so mai nulla, potessi fingere davanti alla Formichina Viaggiatrice di avere cultura e personalità. Ecco la ragione per cui avevo pensato a Federico e per cui Federico non pensava mai a me.
La personalità di Federico era meravigliosamente piena di virtù e capacità. Ma il suo tratto essenziale era costituito dalla dismisura, dall’essere estremo nel bene e bel male. In qualche modo, a ogni tratto positivo corrispondeva, simmetricamente, un risvolto negativo. Federico era cordiale, ma sarcastico; era generoso, ma era superbo; era incredibilmente intelligente ed efficace, era completamente intollerante verso la stupidità e l’inefficacia; era logico, razionale, giusto, ma poteva essere crudele e capriccioso; era ottimista e onnipotente, ma era solito crollare in abissi di depressione e disperazione.
Più di una volta Federico si era riferito ai piaceri della memoria, al piacere mentale che gli procurava la ricostruzione volontaria di un ricordo o di un intreccio di ricordi. Sprofondato nell’ultimo sediolino dello spoglio 37, mi impegnavo – come per ribellarmi alla sua continua presenza – a evocare solo i ricordi brutti di Federico.
Tra i molti segni di perversità, di infelicità, di ira, attirati forse dalla volontà selettiva del risentimento, si distingue lucidamente il culmine raggiunto in un certo pomeriggio infuocato di gennaio di tanti anni fa.
Avevamo trent’anni. Cinque amici del quartiere – Oscar Fabbri, i fratelli Jorge e Roberto Torres, Federico ed io – eravamo andati a passare la domenica in un’isola del delta del Paraná, con il pretesto di pescare e di mangiare l’arrosto. Io non so niente di pesca; so che Federico e Oscar avevano preparato le canne in modo che bisognasse solo stare attenti a tirare la lenza dopo determinati segni. E ciò avveniva con una certa frequenza: ogni tanto correvano a tirare su l’amo; liberavano alcuni pesci non commestibili gettandoli nel fiume e ne selezionavano altri mettendoli in un recipiente con il ghiaccio.
Avevamo già pranzato. Saranno state le due, le tre del pomeriggio, e l’isolotto era un inferno di mosche verdi e di calore. Sotto la brace, adesso vuota e pietrificata, ardevano gli ultimi tizzoni. I fratelli Torres si erano allontanati, facevano una siesta sotto gli alberi o leggevano il giornale. Federico, Oscar ed io rimanemmo a chiacchierare accanto al tavolino.
Oscar Fabbri è un impiegato di banca, una persona con poca cultura. Lui e Federico elencavano, con erudizione e ricchezza di dettagli e somiglianze, le virtù e i difetti dei calciatori di altre epoche, che io non conoscevo: Néstor Rossi, Enrique Omar Sívori, Ernesto Grillo, Oreste Osmar Corbatta… Federico era in grado di variare gli argomenti di conversazione a seconda delle preferenze e del livello di qualsiasi interlocutore. Conversavano, ridevano, bevevano vino e fumavano. Io non ho mai fumato e raramente bevo alcolici, e quando lo faccio, come in occasione di quella grigliata, è sempre in piccole dosi. Federico e Oscar erano grandi bevitori e terribili fumatori: in una sorta di inconscia emulazione, bevevano bicchiere dopo bicchiere, fumavano una sigaretta dopo l’altra, quasi senza pause.
Ho già detto che Federico si distingue per la dismisura e per il tutto o il nulla. Quello era un giorno in cui aveva deciso di fumare e bere: ciò significava farlo senza limiti. Sono stato testimone più di una volta: all’inizio, e per molto tempo, Federico è in grado di resistere all’ingestione di enormi quantità di alcol senza lamentarsi; ma dopo un po’ di tempo, superata una soglia improvvisa, perde completamente il controllo delle sue azioni, e allora affiora alla superficie una infame maleducazione, una indecente volgarità, inconcepibili per quell’essere semiperfetto che è Federico Keller.
E all’improvviso vedo che Federico Keller, il semiperfetto, ha appena passato la soglia della sanità mentale, e si è trasformato in un pazzo abominevole, ciarlatano e aggressivo, che avrei preferito non vedere mai.
Rosso e barcollante, Federico va a tirare su la lenza. Alcuni minuti dopo, ci mostra una razza infilzata dall’amo e appesa al filo di nylon di un paio di metri, una razza che si agita inutilmente. La mia prima reazione è fedele alla mia formazione professionale:
“Una razza!” esclamo, e all’istante mi viene in mente Il passo del Yabebirí1 il racconto che mi aveva regalato, vent’anni prima, la madre di Federico.
Federico non mi ascolta e non mi sente. Buffo e ubriaco, fa oscillare la lenza, fingendo di gettarci la razza in faccia, e la razza semiasfissiata, ferita, è una cometa carnosa e palpitante che è difficile scansare, perché né a Oscar Fabbri né a me piacerebbe che ci colpisse la faccia, la immaginiamo tossica e viscida.
“Dicono che la razza sia velenosa!” grida Federico e inseguendoci non si stanca di gridare questa stupidaggine. “Dicono che la razza sia velenosa! Dicono che la razza sia velenosa!” E insieme alla parola velenosa, lancia di continuo la razza verso i nostri volti. Oscar lo trova divertente; a me, provoca frenesia. E questo non cinque, non dieci volte. Federico insiste col suo gioco perverso non meno di cento volte, e ad ogni grido l’amo dilania di più il palato della razza.
“Dicono che la razza sia velenosa!” continua Federico, senza fine, volteggiando il filo e il pesce come un cowboy. “Dicono che la razza sia velenosa! Ma è una credenza popolare. Il popolo non sa mai niente. Che ne pensi, Lentini? Sarà velenosa la razza, Lentini? Sarà vero che può inoculare veleno con la punta della coda? Qual è la tua opinione, Lentini?”
“Non lo so” balbetto “non, non ne sono sicuro”.
“Non sai mai niente, Lentini. Come fai a essere un professore di zoologia?”
Al suono del mio cognome, pronunciato due volte, per due volte la razza finisce furiosamente sulla mia faccia. Avrò avuto un’espressione di inimmaginabile ribrezzo, perché Oscar – che stava scoppiando dal ridere – diventa serio tutto a un tratto e dice: “Andiamo Federico, finiscila. Può bastare”.
Federico si ferma, tira un po’ il filo di nylon e resta qualche secondo con la razza, che si dibatte disperatamente, appesa a un estremo, come un muratore che lascia cadere la calce molle e pesante, eppure viva.
“Molto bene” dice Federico cambiando tono, come se fosse disposto a valutare diverse ipotesi. “Il popolino dice che la razza è velenosa – articola senza enfasi, come un bravo attore, ma trascina un po’ le parole –. Io non credo che la razza sia velenosa: il popolino non sa niente. Lentini – mi indica con un gesto ampio, come presentandomi a una platea – un professore di zoologia, e neanche lui sa niente. Io credo che la razza non sia velenosa ma, come atto di generosità, mi inchinerò, faccio reverenza – si inchina e fa reverenza –, davanti all’ignoranza, davanti alla stupidità, davanti all’inettitudine, motori che innescano le marce di questo sventurato pianeta Protozoa, e siccome il giudice Lentini crede che la razza sia velenosa, accetterò la sua opinione, e la condannerò a morte in sacrificio per san Lorenzo!”
Detto questo, Federico, con cura, sistema la razza, con la bocca e la faccia all’insù, sopra la brace leggera, in cui continuano ad ardere dei tizzoni rossi e grigi. Si sente uno stridio e un odore di carne bruciata. La razza, ancora viva, si ritrae come carne morta di una bistecca arrostita. Si rannicchia e si dilata il suo corpo romboidale, sofferente e muto. La coda presumibilmente velenosa si contorce dal dolore. La razza è muta, la razza non può gridare. Nulla è così inespressivo come gli occhi di un pesce, come gli occhi accusatori di questa razza, posizionati sul dorso, quegli occhietti inespressivi che, tuttavia, mi guardano con terrore, con angustia, con sofferenza, con impotenza, con odio.
Io vorrei liberare la razza, sprigionarla da quell’atroce martirio. Federico, infiammato dalle risate dementi, con più forza di me, con il suo fisico imponente, me lo impedisce. Una, due, tre volte. Cinque volte, dieci volte… “L’hai condannata tu, Alberto Lentini; l’hai condannata tu, Alberto Lentini. Tu, come formale accusatore, hai detto che non sapevi se la razza fosse velenosa. Conosci il principio legale: nel dubbio, si va contro il colpevole”. Federico, pazzo maledetto e onnipotente che per astio o compassione smette di interporsi tra la razza e me. Con la punta delle dita prendo la razza per la punta delle ali pettorali e con questa specie di nacchera disperata corro verso il fiume, e la getto nell’acqua mentre mi chiedo quanto tempo potrà sopravvivere questa razza col corpo bruciato e un amo nella gola.
Per Federico lo scherzo non è finito. In piedi sul tavolino di cemento, calpesta e rompe piatti e bicchieri, assume un’attitudine parodisticamente pia o ecclesiastica, che consiste nell’unire il palmo delle mani e rivolgere gli occhi al celo:
“Che la provvidenza, amati fratelli, vi preservi dagli ipocriti, come colui che vedete qui, come il diabolico Alberto Lentini – non fa segni né sembra rivolgersi a noi; guarda solo all’insù, ed è evidente che gode per il suo istrionismo –. Il nostro Alberto Lentini qui afferma che la razza è un pesce velenoso e che, pertanto, deve morire arrostita. Emessa la sentenza dal servo della giustizia in cui mi sono trasformato, ecco che Alberto Lentini finge un attacco di misericordia e tenta, e ci riesce, di invalidare la sentenza da lui stesso emessa. E allora ecco di nuovo in libertà il mostro fluviale… Cosa spera di ottenere Alberto Lentini con queste azioni? Non lo sapete? Alberto Lentini cerca di guadagnarsi fama di compassionevole, di santo. Molto bene, diamogli questo piacere e chiamiamolo, da oggi in poi, con l’appellativo che spera tanto di ostentare: sant’Alberto. Però sant’Alberto ha commesso, non lo dimentichiamo, un terribile crimine: ha fatto soffrire di dolori atroci un animale indifeso e inoffensivo, e poi lo ha gettato nel fiume, dove sarà vittima di predatori. Insomma, cari fratelli, Alberto Lentini, il santo, ha commesso un crimine, il crimine di sant’Alberto”.
Federico continua così per un bel po’, aggrovigliandosi in un laborioso sarcasmo e in argomentazioni contraddittorie, fino a quando Oscar e io smettiamo di ascoltarlo. Alla fine, Federico sembra riemergere da un sogno o da un luogo invisibile: interrompe improvvisamente la sua buffonata, e con un viso molto serio, scende dal tavolo, si allontana da noi e sparisce dietro gli alberi. Dopo un’ora o più, torna da noi, è un uomo sobrio, sano, triste, e pentito. Per il resto del giorno rimane in totale silenzio.
A causa del disgusto che mi provocò quell’avvenimento, evitai di avere a che fare con Federico per il resto dell’estate. Si riuscì a non parlare più di quel fatto. Gli anni, come sempre, hanno saputo scorrere, e si dice che il tempo ammazzi tutti i ricordi. Ma vai a sapere perché, mentre rientravo dalla casa della Formichina Viaggiatrice nell’autobus 37, mi era tornato in mente un fatto avvenuto quindici anni prima.
Con lo scorrere dei mesi, la mia relazione con Mabel Ferrer è andata assumendo una sua indole, diciamo così, rutinaria. Consumata l’entusiasta cecità iniziale, Mabel è tornata a mostrare le sue fattezze di donna brutta e volgare. Durante la passeggiata nel Giardino Zoologico mi era sembrata persino simpatica; ma già nell’interminabile percorso dalla Recoleta a Barracas, avevo iniziato a notare una sorte di fastidioso squilibrio nella nostra conversazione, una carenza di sottintesi, per cui abbiamo passato il viaggio a chiederci e darci spiegazioni. Poi è successo che si è sentita offesa per il mio giudizio su Agustín Magaldi, e anche quello mi ha dato fastidio. Nonostante ciò, sono sicuro che la Formichina Viaggiatrice è innamorata di me; questa sicurezza ha fatto crescere abbastanza la mia autostima: mi fa sentire bene, “ingrandito”, e mi permette di trattare Mabel con una certa indulgente noncuranza.
Una volta mi hanno detto che le donne molto belle finiscono per appassire senza amore, poiché la loro bellezza le fa sembrare irraggiungibili e gli uomini non osano tentare di conquistarle. Forse questo era il caso di Mirta López Rinaldi. All’improvviso avevo un indizio degno di essere preso in considerazione: nonostante la sua accecante bellezza, era arrivata ai quarantadue senza sposarsi, e che io sappia, alle donne fa orrore rimanere da sole.
Per diversi mesi si sono aggirate nella mia mente diverse idee confuse intorno a Mirta e al suo presunto desiderio di sposarsi, fino a quando, volontariamente, è successo che, così come avevo conquistato Mabel Ferrer, avrei provato a conquistare Mirta López Rinaldi. Questa idea è sopraggiunta il mese di aprile. Sono passati sette, otto mesi, prima che io osassi metterla in pratica. All’arrivo di novembre e delle vacanze scolastiche, mi sono detto che dovevo farmi coraggio e tentare – almeno tentare – di conquistare Mirta.
Avevo studiato bene i suoi movimenti. Dapprima ho pensato di fingere un incontro casuale, abbordandola per strada mentre saliva in macchina. Poi mi sono detto che avrei balbettato, sarei diventato rosso, e non sarei riuscito ad aprir bocca. In realtà, questo e altri piani arrivavano da epoche lontane; li avevo ruminati per puro piacere speculativo: sapevo che non avrei osato nessuna di quelle cose.
Ho provato a riflettere. Ho scartato l’incontro a sorpresa perché mi sembrava già condannato al fallimento: come avrebbe potuto Mirta nel momento così delicato di partire da una scuola per dirigersi in un’altra, prestarmi attenzione? Io sarei stato nervosissimo, e la fretta di Mirta avrebbe aggiunto nervosismo al mio nervosismo. Ma la questione essenziale non erano quei dettagli, bensì il fatto che trovarmi di fronte a lei mi terrorizzava.
In segreteria c’è uno schedario con gli indirizzi e i numeri di telefono di tutti i professori… Ho approfittato di un momento di solitudine, e ho ottenuto i dati di López Rinaldi, Mirta: calle Paraguay al 4000. Benché mi interessasse solo il numero ho annotato tutto.
Questo è successo un martedì; ovvero, il giorno della settimana in cui dedico quaranta minuti a innamorarmi un po’ in più di Mirta.
Ho calcolato che verso sera sarebbe stata a casa. Alle otto mi sono messo di fronte al tavolo della sala da pranzo e ho cominciato varie volte a digitare il numero di Mirta, senza mai schiacciare l’ultima cifra, che avrebbe fatto scattare la chiamata, la voce di Mirta. Alle otto e quarantacinque ho staccato il telefono dalla presa della sala e l’ho portato nella mia stanza, dove mi sarei sentito più al sicuro: mia madre ci entra solo di mattina. Il telefono era sul comodino adesso; io, seduto sul bordo del letto. Alla fine, con le mani inzuppate di sudore, ho fatto girare sette volte esatte il disco. Ed ha avuto luogo una conversazione che ricordo più o meno così:
“Pronto!” ho riconosciuto subito la sua voce, la sua intonazione.
“Mirta?”
“Chi è?”
“Mirta?” ho chiesto di nuovo.
“Sì. Chi è?”
“Lentini, Mirta, sono io: Lentini”.
La voce di Mirta si è addolcita, ha assunto una sorte di colore cordiale durante questa raffica di parole:
“Ciao Alberto! Come va? Che strano che mi hai chiamata! Dove hai trovato il mio numero? O te l’ho dato io? Dimmi. Che succede?”
Io mi ero presentato col mio cognome: Mirta mi stava chiamando per nome. Non mostrava irritazione, né fastidio, ma calore e simpatia. E quel tono affettuoso mi ha fatto crollare ancora meglio sulle mie rovine. Delle sue tre domande, ho scelto di rispondere all’ultima. In una eruzione di audacia o di demenza, e senza riuscire a credere a ciò che la mia voce andava formulando, mi sono sentito dire:
“No Mirta, non succede nulla. Ti ho chiamata solo per dirti che sono innamorato di te, che sono innamorato di te da diciassette anni, e che ogni giorno ti amo di più”.
Era fatta: il peggio era passato. Mi sono fermato qui, il viso ribolliva nel sudore e nel rossore, e ho aspettato. Ci sono stati alcuni secondi di silenzio: Mirta doveva essere meravigliata. Alla fine – credo che anche lei fosse nervosa – ha farfugliato:
“Cosa? Ho sentito bene?”
“Ti amo Mirta, ti adoro – mi sono lanciato, compiaciuto, nel mare dell’ardire –. Sono diciassette anni che sono innamorato di te, e non ho mai avuto il coraggio di dirtelo”.
C’è stato qualche altro istante di silenzio: immaginavo Mirta alquanto seria, mentre rifletteva. Poi ha detto:
“E chi mi dice che non si tratti di uno scherzo, che tu non sia qualcuno che si fa passare per Alberto Lentini. Facciamo una cosa: dammi il tuo numero di telefono, io lo verifico nell’elenco, e se corrisponde, ti chiamo”.
Gliel’ho dato e mi sono affrettato ad aggiungere: “È a nome di Lentini, Ángela C. della, della calle Fitz Roy”.
Non ha chiamato subito, come aveva detto.
È passata più di mezz’ora: mia madre ha dato due colpi alla porta per dirmi di andare a mangiare; la prima volta le ho detto di aspettare un attimo; la seconda, che mangiasse da sola, che io avrei mangiato più tardi.
Per non sembrare un disperato, non ho risposto al primo squillo, sono riuscito a resistere fino al terzo. Era quella cretina di mia zia Pirucha, sorella maggiore di mia madre, che voleva parlare con lei. Ciò voleva dire tenere occupato il telefono almeno per mezz’ora. Non ricordo se le ho detto che mia madre era a casa di una vicina o che stava dormendo, o le due cose insieme; di sicuro le ho detto di non richiamare prima dell’indomani mattina, e ho messo giù prima che formulasse alcuna domanda.
Quando è suonato di nuovo il telefono, mi sono precipitato a rispondere al primo squillo.
“Alberto?”
Ho tirato una boccata: era Mirta.
“Sì, Mirta, sono io”.
“Che succedeva col tuo telefono? Era sempre occupato”.
Prima che potessi darle una spiegazione, Mirta ha aggiunto:
“Ascolta Alberto, queste sono cose di cui bisogna parlare a voce, non per telefono. Ti aspetto domani, alle sette, nella pasticceria The Hunting, all’angolo tra Charcas e Salguero”.
È stato una specie di ordine. Ho acconsentito, ci siamo salutati, ha messo giù lei. Il mio primo pensiero consisteva in una stupidaggine inconcepibile: per andare all’appuntamento, avrei dovuto saltare la riunione mensile del consiglio di classe di calle Palpa. Una disperazione che è durata il tempo di un sospiro; subito mi sono sentito possedere dall’euforia e dal suo seguito di illusioni. Quella notte mi sono addormentato come un ragazzino, tra i fantasmi e la gioia.
Quando si avvicina l’estate, i giornali e le riviste straripano di diete dimagranti. Io non ne ho bisogno: mentre mi godo la colazione, sfoglio La Nación. A volte mi chiedo perché e per quale ragione compri ancora il giornale; mentre passano gli anni, mi interessa sempre meno, e do appena un’occhiata ai titoli. Federico Keller ha molto influito su questa mia tendenza al distacco. Odia il giornalismo e i giornalisti, che – come dice lui – costituiscono una confraternita di ignoranti, vanagloriosi, chissà perché, incapaci di svolgere il proprio lavoro sacrificandosi; Federico afferma che tutti i media non fanno altro che mentire: per commissione, per omissione, per enfasi o per disattenzione. Questa è l’opinione di Federico Keller…
… che ho appena visto immortalato ne La Nación. Si tratta della sezione che il giornale destina a temi di “Architettura, ingegneria e costruzioni”. Federico è sprofondato in una poltrona, col piede destro sul ginocchio sinistro, con la sua eterna sigaretta tra le dita e con entrambe le mani aperte e separate, come se stesse spiegando qualcosa all’autore del pezzo. In effetti, la didascalia dice: “La gente eredita tradizioni e le rispetta per inerzia, non per convinzione, sostiene l’architetto Keller”. Il titolo dell’articolo è Audace proposta alpina in piena Capitale.
Mi continuo a interessare a tutto ciò che ha a che fare con Federico. Perciò leggo da cima a fondo. Non vedo Federico da qualche anno; ogni tanto appare il suo nome nei supplementi letterari. Adesso vengo a sapere che ha acquistato in blocco tre vecchie case disabitate e inagibili, le ha fatte demolire e su quel terreno ha edificato uno chalet. Ecco spiegata la “proposta alpina”: lo chalet è costruito interamente in legno, e le pareti esterne sono ricoperte di tronchi naturali. Siccome si eleva nel centro dell’appezzamento, non ha pareti in muratura. Sul lato anteriore, quello posteriore e sui due lati, un giardino fiorito circonda lo chalet, con pini, abeti, tassi, e altre conifere sempreverdi. Il garage occupa una costruzione a parte, in un angolo sul fondo del giardino. Quattro alte mura di mattoni isolano dalle case dei vicini e dalla strada, l’insieme di chalet e giardino. L’autore dell’articolo sembra ignorare che Federico Keller è un noto romanziere; almeno – e va bene, non sarà un caso –, non lo definisce mai come tale: lo descrive solo come architetto. Per questo, lui e Federico spaziano tra diversi aspetti tecnici della costruzione, con il linguaggio specifico all’architettura, che io non sono in grado di comprendere. Ma le ultime righe informano che lo chalet è stato costruito “da e per il suo proprietario, nel quartiere costiero di Villa Pueyrredón”. L’articolo termina mettendo in bocca a Federico queste parole: “È come vivere a San Carlos de Bariloche senza lasciare Buenos Aires”. Sinceramente, non credo che Federico abbia mai detto una tale sciocchezza: ha sempre detestato quelle frasi pseudo-epigrammatiche, a cui con tanta facilità cedono i giornalisti.
Mi sento orgoglioso ancora una volta di Federico, come se lui, che in realtà è il mio idolo, fosse un prodotto dei miei insegnamenti. Mi sembra che l’articolo de La Nación sia un ragionevole pretesto per chiamarlo la sera stessa, o il giorno dopo. Fatta eccezione delle poche volte in cui Federico mostra “il suo lato diabolico”, adoro chiacchierare con lui.
Ma avevo un giorno di lavoro davanti, volevo che le ore passassero veloci, fino al momento in cui avrei incontrato Mirta.
La giornata che era incominciata tiepida andava riscaldandosi col passare delle ore. Io, come al solito, ero vestito da professore: abito grigio, camicia celeste, una cravatta qualsiasi. Non ho mai fatto caso al vestire; avrò quel completo da dieci anni, si è rovinato abbastanza; d’altro lato, è uno di quelli che chiamano di frescolana: appena fa un po’ di caldo mi sento imprigionato in una fornace. Se avessi potuto prevedere che un giorno Mirta López Rinaldi sarebbe uscita con me, avrei preso le misure necessarie per comprare vestiti nuovi. Ma ormai era tardi.
Ci pensavo mentre uscivo dalla scuola di calle Olazábal, alle cinque e mezza della sera. Il cielo era nuvoloso; la strada, calda, umida e scura. Mancava ancora un’ora e mezza all’incontro con Mirta, ma mi sono detto che non aveva senso passare da casa.
Ho iniziato a camminare lungo avenida Cabildo; in tanti anni, non mi era mai capitato di godermi quella passeggiata. Poiché non avrei potuto comprare un vestito, una camicia o un paio di scarpe nuove per migliorare il mio aspetto, ho deciso, almeno, di prendere una cravatta.
Sono entrato in uno di quei negozietti puliti, con le pareti di legno lucido e gli specchi e i tappeti. Davanti allo specchio, mi sono detto che, al limite, quella cravatta, troppo nuova e luccicante, sembrava una specie di urlo in confronto alla camicia consumata e incolore, e al mio vestito sgualcito. Ma il commesso mi stava già consegnando un pacchetto confezionato col nastro e lo scotch: la tomba della mia vecchia cravatta.
Di nuovo nel fiume umano di Cabildo, mi sembrava che tutti, specialmente le donne, guardassero con disprezzo e ironia la mia cravatta nuova. Era una vigliaccata togliermela, per cui ho lasciato Cabildo e sono passato per strade meno trafficate. Appena da Tres de Febrero sono sbucato in Olleros, ho avuto l’impressione di essere in qualche strada europea (in cui, ovviamente, non sono mai stato). Come avevo potuto passare tanti anni senza sapere dell’esistenza di quelle stradine piene di case antiche? Olleros, Maure, Gorostiaga. Se Federico amava passeggiare per Buenos Aires, doveva esserci una ragione.
All’improvviso ha iniziato a tirare un vento fortissimo, tra tuoni e lampi, è incominciata una pioggia intensa. Mi sono bagnato un poco, ho corso fino all’avenida Luis María Campos e ho preso il 64.
Sono sceso a Santa Fe y Salguero. Charcas distava due incroci, sufficienti per inzupparmi dalla testa ai piedi. Era esploso uno di quei diluvi atroci, il fuoco di Buenos Aires. Alle sette meno venti, annegando nella pioggia e bruciando per il calore, sono entrato nel The Hunting. La mia borsa, contenitore di tutte le acque del mondo, mi tormentava come torrida umidità, ma mi sembrava scorretto metterla via. Inoltre, la mia cravatta nuova sarebbe spiccata ancora di più. Mi sono seduto a un tavolino vicino alla finestra, da cui si godeva di un certo panorama della strada, e ho iniziato ad aspettare. Ho iniziato ad aspettare con la certezza che Mirta mi avrebbe fatto soffrire per un insolito ritardo.
Ho ordinato un caffè, mi sono pentito subito di non aver scelto una bevanda fresca, ma non volevo indisporre il cameriere mostrandogli la mia indecisione. Avevo così caldo che la sola visione di un liquido fumante mi avrebbe provocato vampe di vapore, ma ho preferito aspettare che il caffè si raffreddasse. Mi dispiaceva non saper fumare come facevano le altre persone per ammazzare l’attesa.
Avrò guardato l’orologio un milione di volte. Fino alle sette è caduta ancora molta pioggia. Alle sette e cinque ho visto avanzare Mirta su calle Medrano, e ho guardato in un’altra direzione, per non farle pensare che la stavo aspettando con ansia. Dopo qualche secondo, non sono riuscito a resistere e mosso da non so che timore superstizioso, mi sono voltato di nuovo verso la vetrina e l’ho accompagnata con uno sguardo teso e un sorriso nervoso fino a quando è entrata nella pasticceria, fino a quando mi ha dato un bacetto sulla guancia, fino a quando si è seduta di fronte a me.
Non ha fatto altro che sedersi, poi si è alzata di nuovo per togliersi l’impermeabile blu. Forse avrei potuto seguire il suo esempio e sbarazzarmi di quella borsa di piombo, ma non l’ho fatto.
Adesso arrivava il più difficile. Per cui ho iniziato con qualcosa di facile.
“Cosa prendi?”
“Un’acqua tonica” ha detto Mirta.
Il cameriere l’ha salutata chiamandola “professoressa”, da questo ho capito che Mirta era una habitué.
Mi ero appena reso conto che nelle pasticcerie della mia città la temperatura non è tropicale come quella per strada. Così ho iniziato a calmarmi. Mirta portava dei jeans azzurri da adolescente, e una maglietta rossa con una specie di scudetto sul seno sinistro. I capelli color rame, né corti né lunghi, si gonfiavano un po’ intorno al volto adorabile e perfetto, da cui mi guardavano i suoi occhi del colore della cannella, bagnati e puntellati di verde, bagnati e puntellati di nero… Oh, Dio mio.
Nonostante la pioggia, si era riproposta, in qualche momento della giornata, di giocare a tennis. Al posto della cartella, portava una borsa sportiva, una di quelle con lo scomparto speciale per la racchetta. Mirta ha fatto scorrere una cerniera laterale e ha messo sul tavolo un pacchetto di sigarette e il suo accendino dorato. Sapendo che non fumo, non me l’ha offerto. Ha acceso una sigaretta e dopo la prima boccata ha sorriso senza schiudere le labbra, mi ha guardato negli occhi e ha detto:
“Bene, eccomi qui”.
Una cascata di sudore infernale è sgorgata dal cranio e dalle ascelle. Sono rimasto per un sacco di tempo trasformato in una statua diroccata e inzuppata. Mirta non è corsa in mio soccorso: ancora peggio, si limitava a guardarmi e a sorridere, come una mamma che aspetta un dispetto dal suo figlioletto di cinque anni.
“Ecco, Mirta – ho dovuto ingoiare saliva, tossire, sciogliere la lingua –, ti ricordi di quello che ti ho detto ieri sera per telefono”.
Mi sono interrotto, aspettando un intervento salvifico da parte sua. Siccome rimaneva nella sua sorridente immobilità, ho ripetuto l’ultima frase, ora in tono di domanda:
“Ti ricordi di quello che ti ho detto ieri sera per telefono?”
Senza smettere di sorridere, Mirta ha mosso tre volte negativamente la testa:
“No. Non mi ricordo di nulla. Me lo dovrai ripetere”.
Credo che questa sia quella che chiamano perfidia femminile.
“Mirta, per favore… Sarebbe, sarebbe difficile per me ripetertelo…”
“Il fatto è che io voglio che tu lo ripeta”.
Quella sua attitudine, quanto mai sincera, mi ha dato le forze:
“Mirta, ti ho detto che da diciassette anni sono innamorato di te…”
“Ahà”.
“Ti ho detto che ti amo sempre di più…”
C’è stato un silenzio un po’ lungo, durante il quale i fiumi di sudore o di lava si sono moltiplicati per tutto il corpo. Ho abbassato la testa e ho ficcato lo sguardo nella mia silenziosa tazzina di caffè vuota, disposto a rimanere così per ore, se fosse stato necessario, in quello stato catatonico.
Per fortuna Mirta ha parlato. Con un tono affilato, un po’ impertinente, e mi ha chiesto:
“E allora…?”
“E allora…? Allora… ecco… Sono innamorato di te”.
“Va bene – Mirta si è messa la punta dell’indice sul naso –, questo l’ho capito. Ma cosa ti aspetti adesso da me?”
Un’eccellente domanda. Per la quale non ero preparato.
“Non vuoi sposarti con me?” ho sputato di un colpo, come uno che scarica un’arma.
Mirta ha arricciato un po’ le labbra, ha tamburellato con l’indice e il medio sul naso:
“Stammi a sentire, Alberto, all’età che ho, ho sempre vissuto bene da single. La mia vita mi va bene così. A questo punto della partita, non ho alcun interesse a sposarmi. Né con te né con nessuno. Non voglio complicazioni”.
Quest’ultima frase ha impresso nei miei ragionamenti una rotta che sarebbe culminata in una catastrofe. Ho interpretato quel “non voglio complicazioni” come un invito alla trasgressione. Al vertice di una audacia demenziale, con un tono da canaglia, le ho detto:
“E allora dammi un bacio, bambola!”
E mi sono allungato sul tavolo per baciarla sulla bocca. Mirta si è tirata indietro e io sono rimasto in una posa ridicola, come una specie di ponte incompleto. La mano che tamburellava sul naso è diventata un pugno ed è finita sul tavolo. Il viso si è commosso, è arrossito, le sopracciglia hanno assunto una forma di v, gli occhi si sono induriti e brillavano con odio e con ira, le labbra si sono stirate fino agli angoli. Con una voce tanto canagliesca quanto la mia, con una violenza repressa, con una specie di furore vertebrale, fissandomi con uno sguardo che poteva disintegrarmi, Mirta ha gridato a voce bassissima:
“Tu sei un pazzo, Lentini. Un pazzo e un insolente. Ho imparato a riconoscere le persone, Lentini. Sei un malato mentale, Lentini. E prega Dio che non vada a raccontarlo alla tua Ferrer che sei un seduttore segreto, il don Giovanni della scuola. Sei un pazzo, Lentini, sei un pazzo…”
Già alla seconda o alla terza frase si era alzata, e mi aveva lanciato le ultime parole mentre rimetteva le sigarette e l’accendino nella borsa e si infilava con forza l’impermeabile, con movimenti bruschi, come se volesse disintossicarsi dalla mia presenza. Se n’è andata a passo svelto e arrabbiato, l’ombrello aperto nella mano, la borsa con la racchetta appesa alla spalla, la sua silhouette svelta e bella, la fiamma rossiccia dei suoi capelli…
(Alberto Lentini: eri arrivato in questi ultimi mesi, a volerti un po’ di bene. Ma adesso sei tornato a essere quello di sempre. Mirta López Rinaldi, angelo di bellezza e dignità, ti ha detto qual è il tuo posto: il fondo di un pozzo di sudiciume e follia. Alberto Lentini: spregevole nullità; Alberto Lentini: rovinato per sempre.)
Sono rimasto per un bel po’ distrutto dalla vergogna al tavolino del The Hunting, di fronte alla mia tazzina vuota e al bicchiere di acqua tonica da cui mancava solo un sorso. Nessuno può immaginare quanto mi odiassi in quel momento, quanto grave e minuzioso fosse il mio rimorso per essere stato così meschino. Mirta aveva ragione su tutto: meritavo tutti gli insulti, e anche di più. Mi aveva chiamato pazzo, e io sono pazzo; mi aveva chiamato malato mentale, e io sono un malato mentale. Mi aveva chiamato Lentini varie volte: e anche il mio cognome era stato un insulto. Meritavo molti più insulti di Mirta sulla mia testa, per rimpicciolirmi e sparire, e perché Mirta potesse liberarsi del mio squallore. Poi mi sono ritrovato a camminare su calle Paraguay, sotto una pioggia che era già meno intensa. Di sicuro, sono passato davanti alla casa di Mirta, ma senza rendermene conto. Camminavo – credo – senza pensare a nulla. Al passaggio a livello, mi sono fermato per mezz’ora a guardare le manovre di una locomotiva rossa e gialla con cinque o sei vagoni carichi.
Una volta a casa, sono andato in sala. Appena ho visto il telefono mi è rivenuto tutto in mente. Ho strappato un foglio dal quaderno. Senza pensarci troppo, così come mi venivano, ho scritto queste parole: “Mirta, hai tutte le ragioni del mondo. Sono il peggio del peggio, ma non volevo offenderti”. Non sapevo come firmare. Firmare Alberto significava attribuirmi una fiducia di cui non ero più degno. Firmare Lentini significava farle ricordare gli insulti vicini a quell’insulto. Alla fine, ho pensato che, insieme, tutti e due i nomi attenuassero reciprocamente i loro difetti, e ho firmato Alberto Lentini. Ho imbustato il foglio; mia madre partecipa spesso a queste “catene della felicità”, in cui bisogna mandare sette, o venti, o non so quante lettere uguali ad altrettante persone, per cui in casa ci sono sempre un sacco di francobolli: ne ho incollato uno sulla busta, sono uscito e ho infilato la lettera nella cassetta. Mi sentivo un po’ meglio.
La mattina seguente mi sono alzato disposto a fare uno sforzo per vedere la vita in maniera più positiva. Mentre facevo colazione col mio pane tostato e il burro e la crema di latte, mi sono riletto per intero l’articolo de La Nación su Federico.
Nessun giornale pubblicherà mai un articolo su di me. Neanche due o tre righe, salvo, quando morirò, quelle del necrologio. Da quando sono nato, vivo al 1600 di Fitz Roy, nell’appartamento “tipo villetta”. Di sicuro, morirò qui: il mio stipendio è da miseria, e non vedo la minima possibilità di acquistare una dimora migliore. Esercito l’insegnamento, senza alcun successo da ventun anni. Non ho fatto mai altro, né potrei farlo.
Anche Federico in teoria è un professore – di matematica e fisica – ma ha insegnato solo per qualche anno, diciamo per tappare i buchi, mentre si costruiva un futuro migliore. Si dice – ed io non ne ho dubbi – che sia un architetto brillante. È evidente che gli è andata più che bene. È riuscito a esercitare la sua professione e ha sempre guadagnato bene. Durante gli anni, l’ho visto in sette o otto case diverse, una migliore dell’altra. L’ultima era un appartamento magnifico tra calle Montevideo e Las Heras, su plaza Vicente López. Così come ha cambiato casa, Federico ha cambiato auto e donne. Non si è mai sposato. Ne ha avute fisse, occasionali e parallele; stabili, sporadiche e simultanee. Giuro che le poche che ho incontrato erano femmine splendide, donne perfette, per usare il linguaggio abituale di Federico. Non so quante volte ha visitato l’Europa e gli Stati Uniti; parla inglese, italiano, anche abbastanza bene il tedesco. Senza fretta e senza ansia, ha pubblicato una serie di libri di racconti – ne conosco solo uno e non l’ho capito – che gli hanno conferito – stando ai ritagli dei giornali che ho conservato – una certa reputazione nel panorama letterario nazionale. Non ha mai abbandonato il nuoto, la ginnastica, l’equitazione, il tennis, il calcio. Federico trova il tempo per fare tutto, e fa tutto bene.
Dalla scuola, verso le undici del mattino, ho chiamato al numero di calle Montevideo, che incominciava per 41. Con l’aria da scemo, ho chiesto dell’architetto Keller. Il concierge mi ha informato che non viveva più lì. Ho finto di stupirmi (Caspita! E lei non potrebbe…). Sì, potevano: il numero era 571…
Appena ha sentito la mia voce, Federico è stato, ancora una volta, l’uomo cordiale e accondiscendente di sempre: “Come va, bello mio? Che combini? Tua madre, tutto bene?” Gli ho detto che lo avevo visto ne La Nación e gli ho spiegato – con l’orgoglio dell’allievo – come avevo ottenuto il suo nuovo numero. Dopo qualche frase abbiamo organizzato un incontro per farmi vedere la sua casa di tronchi e legno.
Una casa – mi ha detto – che si trovava nel barrio di Villa Pueyrredón, io non ci ero mai stato. Quando ho detto a Federico che non conoscevo Villa Pueyrredón, mi ha dato le indicazioni esatte su come arrivarci:
“Ce l’hai la macchina, Alberto?”
Gli ho dovuto rispondere di no. Allora Federico ha detto che avrei potuto prendere il 111 e scendere in avenida de los Constituyentes al 5200…
“Anzi no – si è corretto –. La traiettoria in diagonale del treno ti potrebbe confondere e ti perderesti”.
Così con la precisione di uno stratega, mi ha fornito le istruzioni esatte: nella stazione Ministro Carranza prendere il treno della linea Mitre, in direzione León Suárez; mettermi nel primo vagone; lasciare il treno alla stazione Pueyrredón; poi, senza attraversare i binari, camminare nella stessa direzione in cui avevo viaggiato, fino alla fine del marciapiede e uscire in strada; lì sarei sbucato all’angolo tra Condarco e San Alberto.
“E da lì è facile. Cammini per San Alberto nell’unica direzione possibile, e arrivi fino a casa mia, che si riconosce subito. È una casa adatta per San Isidro o per Acassuso, in un quartiere che non sembra né San Isidro né Acassuso. Non ti puoi sbagliare”.
E mi ha dato il numero esatto.
Questa conversazione si è tenuta a mezzogiorno. Ci siamo messi d’accordo per la sera, quando il caldo sarebbe calato. Era un pomeriggio estivo. Prima di uscire, mi sono reso conto di non possedere alcun capo d’abbigliamento cosiddetto sportivo. Ciò che ho fatto è stato vestirmi con i pantaloni del completo grigio frescolana, e una delle camicie bianche, ma senza borsa e cravatta: trasformato nel solito professore in versione estiva.
Il mio viaggio si è svolto secondo le previsioni di Keller: al millimetro. In quel quartiere di belle casette a schiera e ville imponenti, l’iperbolica casa di Federico in effetti era inconfondibile, una specie di scandalo clamoroso. L’ho riconosciuta dalla facciata. Dal marciapiede era impossibile vederla: un muro di mattoni dipinto di bianco, di almeno tre metri, la isolava dalla strada. Alla fine del muro c’era un cancello verde scuro; lì ho suonato il campanello e mi ha aperto una donna di una certa età, vestita da domestica. Un viale con due grosse file di lastre scure correva sull’erba e conduceva fino al garage, una costruzione sul fondo del terreno. Un sentiero più breve e più stretto, che partiva dal cancello, portava alla porta d’ingresso.
La casa era magnifica per me, l’enorme chalet di tronchi scuri di cui avevo visto la foto nel giornale. Si ergeva da sola, al centro del giardino, con le sue finestre come occhi, la sua porta come una bocca, sembrava un ragno accovacciato pronto a saltarmi addosso per divorarmi. Quel posto aveva qualcosa di malvagio. Ho provato timore, un lieve accapponare della pelle della schiena.
Una volta dentro, mi ha accolto l’aria condizionata col suo tipico ronzio. L’odore fragrante e aspro dei boschi si spargeva nelle sale e nei disimpegni, scorreva dalle pareti, pendeva dalle travi che attraversavano la concavità del soffitto a capanna, intricati l’uno nell’altro in una serie di interminabili asimmetrie. Sembrava impossibile comprendere la forma interna di quella casa, si moltiplicava in irregolarità e sorprese, in intimi ricoveri e ampi panorami.
La donna mi ha fatto accomodare in una sala grande quanto casa mia, con le pareti dal tetto al pavimento coperte di scaffali e scaffali e scaffali strapieni di libri, giornali e riviste.
Seduto in poltrona, Federico stava chiacchierando con due uomini, un po’ bizzarri, ai quali mi ha presentato subito. Come sempre, mi sentivo in imbarazzo e non ho capito i loro nomi. Federico mi ha mostrato un’altra poltrona, un po’ più defilata:
“Mi aspetti un minuto? Finisco con questi qui, e sono da te”.
Dal secondo piano potevo contemplare con tranquillità la biblioteca di Federico. Oltre alle migliaia di libri – nuovi, vecchi, verticali, orizzontali –, ho riconosciuto quei mobili da ufficio destinati agli schedari e agli archivi: Federico non si stancava mai di raccogliere e catalogare informazioni. Al posto della scrivania, al centro della sala, c’era un tavolo così insolito e pesante, che mi ha lasciato perplesso: avrà misurato almeno due metri di larghezza e cinque di lunghezza ed era sostenuto da sei piedi massicci. Sul tavolo si intravedeva parte dell’ufficio di Federico: due macchine per scrivere – una era una Olivetti portatile, di plastica; l’altra, una Remington metallica, grigia, grande e antica –; libri, cartelle, una risma intatta, un’altra incominciata, due tazze vuote di caffè piene di matite, pennarelli, penne, gli occhi di una forbice, un flacone di colla liquida… Posacenere traboccanti di cicche, e due pacchetti di sigarette aperti. Un frigobar che sembrava lì una presenza insolita, ma mi ha fatto dedurre che Federico passava molte ore in quella biblioteca.
I dieci minuti che mi aveva chiesto sono diventati venti, mezz’ora e più. I due tizi che parlavano con lui si somigliavano nella maniera di parlare. Vestivano entrambi in maniera stravagante. Conversavano di letteratura e da quello che ho capito
Xxxx riferivano soprattutto a quella di Federico, che – mi sembrava – non si stancavano di lusingare. Federico parlava poco, annuiva e sorrideva.
Mi sono detto che io non sarei mai stato in grado di tenere una conversazione come quella, stando a quello che si deduceva dai movimenti concisi e il tono assertivo con cui accompagnavano i loro giudizi, in cui abbondavano termini come spazio mitico, zona di riscatto, inserzione, luogo privilegiato, frattura, contraddizione interna, amore trasgressivo, scena nodale.
Ecco che se ne andavano. Poi sono tornati indietro – imbacuccati con giacca, sacchi, libri, carte – un istante per salutarmi, e Federico – jeans blu, maglietta celeste – li ha accompagnati fino al giardino, fino al cancello esterno. Quando è rientrato, io avevo preparata una frase perspicace per mettermi in mostra davanti a Federico.
“Non ne capisco niente di letteratura, ma che intellettuali in gamba devono essere questi tuoi amici!”
Federico mi ha guardato serenamente rassegnato, con pena:
“Quei tipi, intellettuali in gamba? Mettendo insieme dieci come quelli, non arrivi a fare neanche un solo individuo mediocre. Quelli sono due imbecilli, un insieme di meschinità e perversione”.
Non riuscirò mai a essere degno dell’intelligenza di Federico. Nonostante ciò, ho risposto, cercando di essere simpatico:
“Però ho sentito che elogiavano i tuoi libri…”
“E questo che c’entra? Elogiano i miei libri, ma non li comprendono. Cercano nei miei testi valori letterari che io rifuggo e disprezzo. Quegli idioti sono ciechi e sono sordi, ma per sfortuna non sono muti”.
Mentre diceva questo, Federico – fedele alle sue abitudini – è andato verso il minibar, ha preparato un whisky col ghiaccio per lui – non sarebbe stato né il primo né l’ultimo, ovvio – e ricordandosi che io non bevo alcolici, una gassosa per me. Credo che in quel momento Federico avesse già bevuto molto. Nonostante volesse fingere freddezza nell’esprimere quei giudizi, io percepivo un’intima irritazione in certe inflessioni della sua voce.
“Vieni. Andiamoci a sedere”.
Eravamo già seduti sulle poltrone. Ma Federico intendeva sulle sedie vicino al tavolo.
“Quando sono in una poltrona – mi ha spiegato – tendo a sprofondare nell’ozio e nell’inutilità. Invece, seduto di fronte al tavolo in questa sedia dura e alta, sento il desiderio di lavorare, di pensare, di agire… – e ha aggiunto con un altro tono – Sono una specie di buffone, con quei due mettevo in scena una commedia. Una ragione è perché mi affascina lo spettacolo della stupidità umana; ma non la stupidità umana, diciamo così, ingenua, allo stato puro: no, quella la rispetto, come rispetto l’assenza di raziocinio in qualunque animale. Quella che mi affascina è la stupidità umana che, come nel caso specifico di quei due stronzi che sono appena usciti, ha il fascino della simulazione della cultura, della presunzione e della pedanteria. In questo senso, come spettatore, posso dirti che ho trascorso un pomeriggio delizioso”.
Eppure, la voce di Federico – stanca, collerica, con una ripugnanza oscura nella parola stronzi – non era la voce calda e distesa di chi ha appena trascorso un pomeriggio delizioso. Piuttosto, credo che l’Ippopotamo e il Famelico lo avessero non solo irritato ma anche intristito e depresso. In due o tre sorsi ha bevuto il whisky. Si è servito subito un altro bicchiere.
“Dicono che i miei testi siano provocatori, irritanti, rivoltanti. Ma lo dicono da un punto di vista politico, sociale; chiaro, se sono ciechi e sordi… non vedono, non sentono… non immaginano, non sanno fare altro che immaginare che i miei testi sono provocatori, irritanti e rivoltanti. In un altro senso, in un’altra dimensione… Non voglio avere la vanità di dire trascendente… Diciamo, in un senso e una dimensione meno… rachitici, e meno schiavi dell’attualità…”
Eccolo, il Federico Keller di sempre: con la sua ammirevole e insopportabile fiducia in sé stesso, attenuata da piccole reticenze. Tuttavia, Federico possedeva la virtù dell’equità, e se parlava bene di sé stesso, non era per piacere ma perché era sicuro di meritarlo. In altre occasioni, aveva saputo anche criticarsi con asprezza.
Ma era di mal umore, sgorgava in lui una sorda rabbia contro tutto e tutti, e c’era in questo Federico qualcosa di quel Federico fuori controllo dell’isola sul fiume, quello che era stato buffonesco e adesso era iracondo; quello che aveva bevuto allora un bicchiere di vino dopo l’altro, e questo che stava bevendo adesso un whisky dopo l’altro.
All’improvviso mi ha guardato come chi si rende conto che sta per commettere un’assurdità:
“Non fa niente – ha detto con risoluzione –. Lo so, a te queste cose non interessano – a me è sembrato di capire: “Lo so che tu non capisci queste cose” –. In sintesi, il fatto è che ho appena finito di scrivere un romanzo breve, e quei babbei mi hanno appena fatto, per un giornale del loro partito, un’intervista in cui parlo di molte cose tranne del romanzo. A me conviene qualunque tipo di articolo. In più, stanno mettendo insieme materiale per un saggio sulla mia narrativa”.
Invece di sentirsi soddisfatto per la pubblicazione dell’intervista, a cui aveva acconsentito, sembrava infastidito.
Come per riportare alla mente vecchi pensieri, ha detto: “Mia madre pubblicò nella Revista Argentina de Letras tre articoli successivi sui meccanismi di creazione nei racconti di Ficciones e dell’Aleph”. Dev’essersi accorto del mio sguardo ignorante, perché ha aggiunto: “Sono due grandi raccolte di racconti di Borges – ha allargato il braccio, ha indicato una fotografia di Borges, già molto anziano, che ci guardava con sorriso malinconico dalla biblioteca –: racconti assolutamente geniali”.
E adesso, nel volto improvvisamente felice di Federico, c’era la completezza che doveva alle persone che ammirava, persone che “facevano bene le cose”.
(Conservava la stessa abitudine di quando era ragazzo, di circondarsi di immagini di persone care. Avevo esaminato i ritratti, decine e decine, c’erano due chiamati Kafka e Salinger, che suppongo siano scrittori, e c’erano molti altri ritratti di persone che non conoscevo. Però subito ho riconosciuto Carlos Gardel, Edmundo Rivero, Aníbal Troilo, Ángel Vargas, Tita Merello. C’erano anche le due squadre di calcio dell’Argentina campione del mondo. E foto di Mario Kempes e di Maradona).
Io non avevo mai letto una riga di Borges, ma lo conoscevo per via delle riviste, per la televisione. In realtà, se qualcuno mi prendesse di sorpresa e mi dicesse “Nomina tre libri”, io nominerei La Formichina Viaggiatrice, Racconti della selva e Siamo tutti imbroglioni. E Federico, confortato dalla presenza di Borges, stava parlando di letteratura a me:
“Ho letto varie volte quegli articoli di mia madre. Non sono gran cosa: io direi che, nell’insieme, sono l’opera di una buona allieva, di una allieva applicata. Niente di più. Io li avrei scritti da un’altra spigolatura”.
Ripensavo – l’avevo sempre ricordata – alla dolce signora Susana, e quell’implacabile imparzialità di Federico mi faceva male.
“Eppure – ha continuato Federico –, quegli articoli hanno, almeno, una virtù. Una virtù per omissione, ma pur sempre virtù: manca il tono vanitoso e minaccioso che caratterizza gli scritti di gente come quella che è appena andata via. E questo è già abbastanza, no?”
Federico aveva la giornata storta: adombrato dal pessimismo, dalla negatività, arrabbiato, scosso dalla violenza interiore, mentre fumava senza fermarsi e beveva senza sosta.
Con addosso vestiti normali, è apparsa la donna che mi aveva aperto la porta:
“Signore – ha detto rivolgendosi a Federico –, ha chiamato Elba per informarla che domani non può venire”.
“Va bene – ha risposto Federico, distratto, ma si è subito ripreso – Chi è Elba?”
“La persona che viene a stirare. Bene, io vado. A domani, signore”.
“A domani, Amalia”.
L’apparizione e la sparizione di Amalia sono servite a segnare una pausa. Federico mi ha invitato a visitare la casa. Abbiamo fatto il giro del piano terra e del primo piano. A cosa gli serviva una casa così strana, una casa in cui potevano vivere quindici persone? Federico era fatto così: gli piaceva la vita e ne prendeva frammenti enormi, senza sconti né misura, e anche una casa così grande e inutile, quella anomalia architettonica in Villa Pueyrredón, era un frammento della sua vita. Da Federico non bisognava aspettarsi quello che chiamiamo buon senso: lui aveva le sue misure per considerare le cose e aveva un’energia illimitata per i suoi progetti.
Federico non sembrava orgoglioso della sua casa: gli andava bene, tutto qui. Federico ignorava la vanità, detestava la pedanteria, ma era posseduto da una sorte di, come dire?, superbia intangibile che lo portava a contemplare con rigorosa equità tutte le opere, senza escludere le proprie. Poteva entusiasmarsi davanti ai meriti degli altri – avevo appena palpato la sua emozione nel parlare di Borges – ma davanti ai propri manifestava una serena insoddisfazione. Quando Federico faceva qualcosa, e stava sempre facendo qualcosa, lo faceva bene, molto bene, prodigiosamente bene.
Siamo usciti in giardino, davanti al boschetto di conifere. Abbiamo camminato sul sentiero di lastre fino al garage, in fondo. Nel garage ci saranno entrate due locomotive. Più che un garage costituiva una specie di mappa dei tanti hobby di Federico: c’erano palloni da calcio e da rugby; c’erano racchette e tubi di palline da tennis; c’erano sofisticate canne da pesca; c’era una barca; c’era, su un rimorchio, una lancia col motore fuori bordo; c’erano rotoli di corde da ormeggio; c’era ogni tipo di attrezzo appeso ordinatamente su una tavola di legno; lattine di olio industriale, e lubrificanti; tre bidoni di nafta. C’era una bellissima, fiammante, Maserati rossa a due porte.
“Che macchinone!” ho esclamato.
“In tutto il Paese ci devono essere venti gingilli come questo – Federico con affetto accarezzava il tettuccio della macchina, come un fantino accarezzerebbe la criniera del suo cavallo –. Gli italiani si sono superati. Io ammiro le cose ben fatte – Mille volte Federico aveva detto frasi come questa! – ammiro i racconti di Borges, ammiro il calcio di Maradona e ammiro questa Maserati. Mi piace la gente che fa bene le cose e mi piace che gli occhi di questa gente mi guardino mentre lavoro. Per sfortuna, l’eccellenza è la minoranza, infima minoranza. Nell’infelice pianeta Protozoa pullulano gli inutili. E gli idioti e i maldestri e gli asini e i vanitosi e i meschini e i figli di mille puttane”.
Era la seconda volta in dieci anni che sentivo la parola Protozoa: Federico, a quanto pare, la impiegava come sinonimo di Terra. L’effimera allegria che gli aveva provocato la Maserati era sfumata in quella sfilza di imprecazioni, in cui ogni elemento rinforzava l’abominio di quello successivo. Nonostante io fossi sicuro di non rientrare in nessuna di quelle categorie, una strana meschinità mi ha portato a catalogarmi tra gli inutili, nell’insieme di persone che non facevano bene le cose.
Siamo tornati in giardino. Federico ha chiuso il garage e ha giocherellato qualche secondo con il portachiavi, facendolo girare nell’indice. Le chiavi erano ordinate dalla più grande alla più piccola. Un secondo anello, che si sganciava con un click, conteneva quelle della macchina.
Rientrati nella biblioteca, ci siamo seduti di nuovo al tavolo alto. Federico ha gettato le chiavi su uno di quei rettangoli di stoffa verde che si usano per le macchine da scrivere, per non farle scivolare, e si è servito un altro whisky. Per adesso era sobrio, ma la parola Protozoa mi aveva spaventato: il mio timore era che, come quella volta al delta del Paraná, Federico superasse la soglia della sensatezza.
Per fortuna, la rabbia era passata e con indulgente affabilità mi ha chiesto della mia vita, come andavano le cose, sapeva che lavoravo ancora nel liceo dove avevamo incominciato insieme. Non potevo dirgli di più: nella mia vita, ogni giorno è uguale a un altro e ogni anno è uguale a un altro anno. Allora, cercando di cambiare argomento, gli ho chiesto del suo nuovo romanzo.
“Tu hai letto qualcuno dei miei precedenti libri?” mi ha chiesto lui a sua volta, come se cercasse un punto di riferimento.
“Ho letto Siamo tutti imbroglioni”.
“E non ti è piaciuto”.
“No, non mi è piaciuto” ho ammesso.
“Hai ragione. È un libro orribile; in quel periodo avevo una concezione sbagliata della letteratura. E la cosa più buffa è che uno di quegli idioti, si è preso la briga di scrivere e di pubblicare un saggio intitolato Siamo tutti imbroglioni: corpo, gesto e archetipo: rottura mitica. Una stronzata commovente. Trenta pagine di parole vuote e stupidaggini che si consumano in sé stesse. Quello lì crede che Imbroglioni sia un grande libro, e io, che l’ho scritto, so che non vale niente. Ma non mi prendo l’impegno di convincerlo, non mi capirebbe… Bah! – ha aggiunto, come per levarsi di dosso un fastidio –. Che dicano quello che vogliono. Che me ne può importare!”
Siccome mi sembrava che avesse concluso il discorso, l’ho riportato al punto iniziale:
“E il romanzo che pubblichi adesso, di cosa parla?”
Domanda sbagliata.
“Le opere letterarie – ha risposto Federico – non si raccontano, né si riassumono, né si sintetizzano, poiché la loro essenza sono le parole, e le parole non possono sostituirsi senza distruggere l’essenza. Così come nessuno può raccontare né riassumere né sintetizzare una sinfonia né un quadro, è lo stesso per le opere letterarie. Bisogna leggerle da cima a fondo con attenzione. Quando il libro uscirà, ti regalerò una copia: vedrai che, rispetto a Imbroglioni, sono molto migliorato”.
Sul tavolo, a portata di mano, c’era una cartella ingiallita, logora e rovinata. Federico l’ha sfogliata per un poco, col fare di chi riafferra pensieri interrotti. Ho intravisto delle pagine dal formato da ufficio, battute a macchina con interlinea doppia, con alcune correzioni in blu e in rosso.
“Qui c’è la creatura – ha detto Federico –. È l’unica copia che ho. Un tempo copiavo tutto con carta carbone, ma era una sfacchinata. Tra domani e dopodomani gli do un’ultima lettura, per sistemare qualche parola. Dopodiché non ci metterò più mano, fino alle prime bozze. Lunedì lo faccio fotocopiare tutto, mi tengo una copia e porto l’altra all’editore”.
Io non sapevo che tipo di domande si facessero in questi casi:
“E quanto ci mette a uscire il libro?”
“E… dipende… Ci vuole tempo… Da quando inizia il processo fino a quando esce impaginato, calcola due, tre mesi… Poi apporto ancora modifiche sulle prove di stampa… Sono felice perché alla fine me lo sono tolto di mezzo, e posso iniziare qualcos’altro che mi è venuto in mente mentre stavo ancora ripulendo questo”.
“Forse è una domanda stupida, ma te la faccio lo stesso: come ti ispiri per inventare i fatti?”
“Sì, è una domanda stupida – sorrideva: con sufficienza, con simpatia, con un fare scherzoso –, ma ti rispondo lo stesso. Ci sono mille maniere di creare i fatti di una narrazione qualsiasi: ricordi, parole, immaginazione, paure, amori, sogni… Ma nel caso di questo racconto – ha indicato la cartella ingiallita –, sono partito dal titolo. Prima mi è venuto il titolo, e dopo mi sono dedicato a costruire la storia… E il titolo, in parte, è ispirato, tieniti forte, a te”.
“A me?”
“Sì, a te. Alberto Lentini. Vuoi sapere come s’intitola?”
Ha messo la prima pagina davanti ai miei occhi, il titolo era scritto col pennarello blu a stampatello. Ho letto ad alta voce:
“Il crimine di sant’Alberto”.
“Ti piace come suona? È un ottonario”.
Preferivo non chiedergli nulla.
“Saranno stati cinque anni fa – ha proseguito Federico –, avevo appena comprato le tre case che stavano in questo terreno, e mi resi conto che il nome della strada era calle Obispo San Alberto. Allora mi venne l’idea di usare il nome della strada in cui vivevo per il titolo di un racconto, il cui tema allora ignoravo completamente. L’Ospizio, benché suonasse bene, lo cancellai per ragioni di lunghezza. Ma questa idea si scontrò con un ricordo, con il ricordo di un crimine…”
Ho capito subito a cosa si riferiva.
“Tu di certo non lo ricorderai…”
Fino a quel punto Federico sottostimava la mia memoria, la mia capacità di serbare rancore.
“Una volta, lo ammetto, mi comportai male con te. Ti feci un brutto scherzo, in un isolotto del delta, con una razza sulla brace. Ti ricordi?”
“Sì, mi ricordo. Non ha importanza”.
“No, non ha nessuna importanza – ha rettificato lui, categoricamente –. Alla fine, fu solo uno scherzo. Di cattivo gusto, ma senza cattive intenzioni. Si dice che non ci sia male che non arrivi per il bene: grazie alla mia creatività, sono riuscito a trasformare quel fatto negativo in un fatto positivo. Quella volta ti dissi, chiaro, per scherzare, che tu eri un assassino perché avevi ordinato il supplizio della razza, e conclusi dicendo che quello era il crimine di sant’Alberto”.
Ha versato nel bicchiere l’ultima goccia di whisky dalla bottiglia. Si è messo in piedi e – barcollando un po’ – si è avvicinato a un mobiletto basso e ha preso una seconda bottiglia. Si è servito mezzo bicchiere, stavolta senza ghiaccio. In due sorsi lo ha svuotato.
Poi è rimasto qualche secondo in silenzio, dimenticandosi di me e pensando chissà a cosa. All’improvviso è esploso in una risata fragorosa – che mi ha fatto sobbalzare –, mischiata a un eccesso di tosse; nonostante ciò, nello stesso istante si è acceso una sigaretta:
“Ah, ah, ah! Il crimine di sant’Alberto! Il crimine di sant’Alberto! Hai mai desiderato ammazzare qualcuno, Lentini? Commettere il vero crimine di sant’Alberto? Ah, ah, ah! Non puoi negare che io sia un genio! No, Lentini? Ah, ah, ah!”
In quel preciso istante, Federico Keller aveva appena superato la soglia della decenza. Si era trasformato nell’odioso e volgare ubriacone, il pagliaccio cattivo e aggressivo di quel pomeriggio d’estate nel delta, un pomeriggio caldo come questo.
Poi però mi è sembrato che avesse recuperato un po’ di contegno:
“Quindi avevo un paio di idee, o di frasi: da un lato, “il crimine di sant’Alberto”, che devo a te; dall’altro, “la calle San Alberto”, che devo al caso. E ho fatto una sintesi delle due frasi e mi è rimasto Il crimine della calle San Alberto. Che te ne pare, Lentini? Un buon titolo, ricorda The Murders in the Rue Morgue2; ma era troppo lungo. Allora, dopo averci pensato un po’ su, ho optato per scorporarlo in Il crimine di sant’Alberto, che è quello definitivo. Bel titolo, vero, Lentini? E pensare che mi sono ispirato a te, che non sai niente di letteratura. Niente di letteratura… niente di niente”. Questa frase lo ha indotto a un’associazione di idee: “Dunque, lavori ancora in quella scuola…”
La scuola – così, per antonomasia – significava quella della calle Scalabrini Ortiz, quella in cui, qualche volta, avevamo lavorato insieme Federico ed io.
Ha sorriso, compiaciuto per qualche ricordo:
“Mamma mia. Che fauna laggiù…”
Non sapevo bene a cosa si riferisse. Sono rimasto in silenzio, con la voglia di andarmene. La seconda bottiglia di whisky continuava a svuotarsi. Federico, con gli occhi lucidi, guardava nel vuoto, come per evocare altri ricordi.
“Ah! Ti ricordi della Roux de Larroca, la vecchia direttrice del dipartimento di matematica? Te la ricordi, Lentini? Te la ricordi o non te la ricordi la Roux de Larroca?”
Federico ha commesso in quel momento un atto inconcepibile da parte sua: per obbligarmi a dargli una risposta, mi ha strattonato varie volte per il braccio.
“Sì, sì, me la ricordo perfettamente!” gli ho risposto, di malavoglia.
“Che donna limitata, la Roux de Larroca – Federico mi ha lasciato il braccio, sembrava dimenticarsi di me. – Quarantamila anni a insegnare matematica, e non sapeva niente. Che donna inutile. E da buona inutile, era intollerante, esigente, autoritaria. A me, mi odiava, e io ci godevo a contraddirla e a mettere in evidenza i suoi errori. Errori di tutti i tipi: errori scientifici, errori metodici, errori di logica. Tu non lo sai – si è ricordato che ero lì: ma perché mi raccontava queste storie? che me ne importava? – le battaglie accese che erano quelle riunioni. La Roux, siccome era la direttrice, pretendeva comandarmi a bacchetta, e io non potevo permettere che lei, che non sapeva niente, mi desse degli ordini. Inoltre, io mi divertivo a sollevare obiezioni fittizie, giusto per irritarla. Ci cascava puntualmente e si infuriava per qualsiasi sciocchezza. La Mirta López, che già allora era pazza secondo me, si scompisciava di risate…”
Proprio come mi era successo nella pasticceria tra Charcas e Salguero di fronte a Mirta López Rinaldi, ancora una volta ho sentito un fuoco che mi ardeva il corpo e l’improvviso sbottare del sudore.
“Anche se Mirta, diciamoci la verità, se le togli le sue teorie e i suoi algoritmi, è un ciottolo coi capelli… Non ha alcuna intelligenza, alcuna cultura… Chiaro, più o meno è simpatica, e ha un bel giro di amicizie… In altri tempi, è stata abbastanza bella, abbastanza appetitosa…”
Federico stava di fronte al minibar aperto, armeggiava con il portaghiaccio. Qualche cubetto è volato per terra; Federico ne ha gettato un paio nel bicchiere e si è servito di nuovo. Dal mio crollo fisico, dalla mia lucidità mentale, sentivo le frasi che, come spari sciolti e sempre più incoerenti, andava lanciando ogni tanto Federico, in un’orgia di volgarità, e come se ragionasse tra sé e sé:
“Non vuole ammettere che gli anni passano… ha quarantadue anni suonati e non le passa la cotta per me… sono diciassette anni… io ho pollastre migliori, pollastre giovani, di venticinque, trent’anni… e quella non me la riesco a togliere di torno… che tipa insistente, per non dire una cosa peggiore…”
Non sudavo più. Il sudore si era congelato addosso in una sorte di pellicola di vetro.
“Domani sera, alle nove, come quasi ogni venerdì da diciassette anni, te la ritrovi qui, ai piedi del cannone, per passare la notte con me… E in più – la voce di Federico si riempiva di ira e disprezzo – vorrei sapere perché si mette a scrivere scemenze del genere… Guarda, Lentini, guarda qua”.
Dall’interno di un libro ha tirato fuori una busta; dalla busta, una lettera scritta con una grafia grande e rotondeggiante con inchiostro nero, che mi ha allungato a testa ingiù:
“Non è meraviglioso, Lentini! Le poesie d’amore che Mirta López scrive per me. Sono stufo di dirle di non provare a mettersi in roba più grande di lei. Che sciocchezze, mamma mia, che sciocchezze! – Federico colpiva un palmo dentro l’altro, guardava il cielo piatto in un’estasi di meraviglia –. Una gallina snob e ignorante. Leggi, leggi, Lentini, leggi bene! Persino tu morirai dal ridere…!”
Ho preso il foglio ed evitando di guardare quell’adorata grafia, l’ho rimesso nella busta, e nel libro. Federico è inciampato in una sedia, che è caduta con un rumore sordo: legno su tappeto su legno. Si è aggrappato al bordo del tavolo. Sembrava riflettere.
“Me ne vado a dormire, Lentini. Non ne posso più, mi è sfuggita la mano col whisky. Se vuoi restare, buttati sul divano del salone. O sul tappeto – ancora nel suo stato di ebrezza manteneva le sue doti da manager e organizzatore –. Se vuoi andartene, ti prego solo, quando esci, di sbattere la porta per chiuderla bene”.
Mi sono messo a contemplare la sua arrampicata lungo le scale per arrivare alla camera da letto. Ma alla fine non ci è arrivato. Ha rovesciato tre materassi che fungevano da spalliera e ha trasformato in letto uno dei divani della biblioteca. Un istante dopo, coi suoi jeans blu e la sua maglietta celeste, senza togliersi le pantofoline bianche di qualche hotel, Federico dormiva con la bocca spalancata.
La mia mano è caduta sul panno verde, sull’anello con le chiavi. E ho detto a voce alta:
“Me ne torno a casa, Federico, ciao ciao”.
“Ciao bello – è riuscito a rispondere, chissà da quale remoto dormiveglia –. Chiudi bene la porta di casa e il cancello del giardino”.
“Sta’ tranquillo”.
Avrei obbedito, ancora una volta, alle sue istruzioni. Senza alterare l’ordine cronologico, ma inserendo alcuni dettagli di mia iniziativa.
Sono uscito in giardino, ho chiuso bene la porta di casa. Sono entrato nel garage. Ho provato le diverse e strambe chiavi della Maserati rossa fino a quando sono riuscito ad aprire lo sportello. Mi siedo al posto del conducente e siccome non so neanche come si accende il motore, mi aggrappo con le mani al volante e mi metto a giocare come un bambino, facendo finta di guidare, facendo finta che la Maserati sia mia e corra per le strade in pianura e i sentieri di montagna e per le vie di Buenos Aires, come deve aver fatto tante volte Federico Keller, con al suo fianco la signorina Jei o la giovane Kappa o la signora Elle, tutte innamorate di Federico, pazze per Federico, per Federico Keller, l’uomo bello, biondo e alto, quello con le spalle larghe, il professore di matematica e fisica, l’architetto, l’intelligente, il talentuoso, il colto, il ricco, il tennista, il rugbyman, il calciatore, il letterato, colui che disdegna gli elogi, che tortura la razza sulla brace fumante e che mi umilia gettandomi la razza in faccia, l’irascibile e burlesco destinatario delle poesie snob e ignoranti che gli dedica, con la sua grafia grande e nera, Mirta López Rinaldi, la stessa Mirta López Rinaldi che ha fatto vergognare Alberto Lentini, che lo ha chiamato pazzo e malato di mente e Lentini, Lentini, che la adora, lo ha chiamato così, e a Federico, che la disprezza, lei scrive poesie d’amore, e quasi tutti i venerdì, da quasi diciassette anni, accorre con sottomissione da cagnetta in calore a passare la notte con Federico Keller, il quale è infastidito da quella presenza perseverante, per non dire una cosa peggiore, con Federico Keller, che ha appena terminato un nuovo romanzo breve intitolato Il crimine di sant’Alberto, che ha ingerito enormi quantità di alcol, che dorme sul suo fagotto nel divano-letto della biblioteca.
Benché non fosse necessario, usando le sue corde da ormeggio lo lego per le mani e per i piedi alle gambe del divano. Ci sono moltissimi libri e carta e ritratti di persone che fanno bene le cose, e nonostante la casa sia di legno e tronchi, non mi sembra superfluo svuotare l’intero contenuto dei tre bidoni di nafta nelle intercapedini che ricorrono l’intero pian terreno, lasciando libero un sentiero per potermene andare.
Quando colloco vicino alla sua testa dai capelli biondi e puliti l’unico originale del Crimine di sant’Alberto, Federico trema leggermente in un tenue movimento, ma non riesce a svegliarsi, come fa quando le prime fiamme avvolgono il letto, e tenta di mettersi in piedi e inciampa per via dei nodi, e lotta col suo vigore da ginnasta e rugbyman, e non è più ubriaco, è terribilmente lucido, come dimostrano gli insulti – che non voglio sentire – e il suo imponente sguardo di terrore, di angoscia, di sofferenza, di impotenza, di odio, lo stesso sguardo della razza sulla brace, la razza pancia ingiù con gli occhi sul dorso, Federico pancia insù con gli occhi nella faccia, con gli occhi verdi e azzurri nel bel viso che per quasi tutti i venerdì da diciassette anni aveva baciato Mirta López Rinaldi e che domani, venerdì, non l’avrebbe baciata.
Sono padrone della situazione. Non sudo né divento rosso né balbetto. Proprio come la gente che Federico ammirava, e come lo stesso Federico, sto facendo bene le cose. In questo momento sono superiore a lui, per cui non sono tenuto a rispondere ai suoi insulti, le sue preghiere, le sue suppliche, la sua disperazione silenziosa. Lo guardo per un’ultima volta e con la punta accesa di un giornale arrotolato appicco il fuoco nelle altre zone della casa. La nafta, la carta e il legno bruciano in fretta, posso lasciarli tranquilli, sicuro che faranno bene il loro lavoro.
La porta di casa non ha un lucchetto esterno; per sicurezza e per zelo dei dettagli, la chiudo da fuori con due mandate.
Gli ultimi tocchi di fuoco sono per il garage: gli attrezzi sportivi, la barca, la lancia, la Maserati rossa. Dura tutto uno o due minuti. Sono le dieci passate. In strada c’è qualche persona; non si sono ancora accorti che sta succedendo qualcosa di anormale dietro questo alto muro di cinta di mattoncini dipinti di bianco. Basta chiudere con un colpo il cancello verde: non c’è maniera di aprirlo da fuori.
Nella stazione Pueyrredón brulicano gli insetti intorno ai lampioni. Si vedono da lontano alcuni bagliori rossicci, che attirano la curiosità delle persone in attesa del treno. Mi unisco subito a loro e propongo congetture fuorvianti.
L’arrivo del treno pone fine alla conversazione. Tra Belgrano e Colegiales mi accorgo che ho ancora in mano il portachiavi di Federico: lo getto dal finestrino. Alla stazione Ministro Carranza lascio il treno e senza fretta, godendomi il chiarore della sera, cammino verso l’avenida Santa Fe fino a calle Fitz Roy, e per la calle Fitz Roy fino al mio appartamentino “tipo villetta”, molto difficilmente infiammabile perché costruito con sensati mattoni e ragionevole calce, non con appariscente legno scandinavo.
Il fuoco ha distrutto le poesie d’amore di Mirta López Rinaldi, il fuoco ha distrutto l’unico manoscritto del Crimine di sant’Alberto, romanzo breve di Federico Keller. Nulla impedisce che io dia lo stesso titolo al rapporto che sto per terminare. Per una volta, almeno, ho avuto successo dove Federico ha fracassato.
Non ha senso adesso formulare paragoni: infatti non ho voluto leggere una sola parola del lavoro di Federico. So che, benché il suo testo distrutto e il mio intatto condividano lo stesso titolo, quello di Federico sarà infinitamente superiore. Come ogni volta.
Titolo originale: El crimen de san Alberto, Editorial Losada, Buenos Aires, 2008.
Traduzione di Franco Malanima.
1 Yabebirí: in lingua guaraní vuol dire “il fiume delle razze”, termine usato nel racconto di Horacio Quiroga già citato (NdT).
2 In inglese nell’originale.
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