CONTAMINAZIONE IN NIGER

 

La maledizione dell’uranio: strategico per Parigi, letale per i nigerini. Dal 1969

AFRICA. Sfruttamento dei ricchi giacimenti esteso fino al 2040. E con il nucleare «verde» la Francia ha mani libere. Da Areva a Orano, verso la «miniera del futuro». Ma eredità già pesante per l’ecosistema




Il 4 maggio, la multinazionale energetica francese Orano (ex Areva) ha stretto un «accordo di partenariato globale» con il Niger per estendere lo sfruttamento dei giacimenti di uranio sino al 2040. L’intesa riguarda la miniera a cielo aperto controllata da Somaïr, compagnia mineraria nigerina che concentra le attività nella città di Arlit, nella regione di Agadez, a 1.200 km a nord della capitale Niamey. Cinque giorni dopo, il senato francese ha adottato un progetto di legge sull’accelerazione delle procedure di costruzione di nuovi impianti nucleari.
PER LA LEADER DEL NUCLEARE è un periodo propizio: in Commissione europea è stato approvato lo scorso febbraio il nucleare come fonte energetica idonea per produrre l’idrogeno verde, un traguardo definito «una grande vittoria francese».
Secondo i dati più recenti di Wisevoter, il Niger è il sesto maggiore produttore al mondo di uranio con una produzione di 3.527 tonnellate, il 5% della produzione mondiale di uranio, secondo la World Nuclear Association. Una risorsa di cui il Niger, di fatto, non beneficia: secondo le stime della World Bank,
nel 2021, su una popolazione di 27 milioni, appena il 18,6% aveva accesso all’elettricità.
LA SOMAÏR (controllata per il 63,4% da Orano e per il 36,66% dalla nigerina Sopamin) nasce nel 1968, a otto anni dall’indipendenza del Niger dal dominio coloniale francese, e in seguito alla stretta degli accordi del 1967 tra la Francia e il Paese saheliano. Nel 1969, fonda le città di Arlit e Akokan per dare un tetto agli oltre 2mila lavoratori che sarebbero stati impiegati nelle miniere vicine.
D’ora in poi, l’impronta di Areva nella regione di Agadez, «la terra di incontro» in tamashek - la lingua parlata dai Tuareg - resterà indelebile. Nel 2008, Areva "vince" il Public Eye Global Award, un premio consegnato alle imprese che si distinguono per il comportamento irresponsabile in ambito sociale e ambientale. La multinazionale aveva brillato per la scarsa informazione sui rischi per la salute che i lavoratori corrono negli stabilimenti minerari, e per la contaminazione radioattiva dell’aria, dell’acqua e del suolo.
Per l’occasione, l’ex minatore e attivista, Almoustapha Alhacen, parlò di «morti sospette tra i lavoratori, causate da polveri radioattive e acque sotterranee contaminate». Sulla stessa scia, Greenpeace aveva svolto nel 2010 un’indagine che smontava gli sforzi di Areva a promuovere il nucleare come energia pulita e «verde», rilevando: una concentrazione di uranio superiore al limite raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nell’acqua di Arlit; le sostanze radioattive erano penetrate nelle acque sotterranee e avevano contaminato il suolo di Arlit e Akokan, danneggiando permanentemente l’ecosistema ambientale.
Nel 2018, Areva cambia nome in Orano. A 6 km dalla città di Akokan, la «miniera sotterranea più grande al mondo» di Akouta viene chiusa il 31 marzo 2021, con un bilancio di 75mila tonnellate di uranio estratto in 43 anni di attività. Era gestita da Cominak, una joint venture tra Orano (34%), Sopamin (31%), la giapponese Ourd (25%) e la spagnola Enusa (10%).
La chiusura ha lasciato in eredità 20 milioni di tonnellate di fanghi radioattivi, una bonifica del territorio per un valore di 145 milioni di euro, delle case prive di elettricità e acqua nella desolata Akokan. Infine, 600 persone senza occupazione.
È QUANTO RACCONTA il reportage Niger: i fantasmi dell’uranio, realizzato per Arte.tv da Maïa Boyé e Pierre Favennec: «Orano aveva promesso di aiutarci a trovare un nuovo lavoro, ma nessuno l’ha fatto», afferma Yarou Mounkaila, ex minatore nigerino. «L’uranio ha fatto guadagnare molto Orano. E noi dipendenti cosa ci abbiamo guadagnato?», ribatte Moussa Alassan.
L’ong nigerina Aghir In’Man fondata da Almoustapha Alhacen e l’associazione francese Criirad denunciarono nel 2019 che le scorie radioattive all’aperto della Cominak stavano provocando il decadimento del radon: un gas radioattivo che, attaccandosi al particolato, viene disperso dai venti del deserto e assorbito per inalazione. Secondo l’Oms, il radon è una delle cause principali di cancro ai polmoni, che si presenta con una maggiore incidenza nei minatori di uranio esposti alle sue elevate concentrazioni.
«Tutti i nostri mariti sono morti per una malattia. Sono stati uccisi dalle radiazioni», dice una donna intervistata da Boyé e Favennec. Appigliandosi all’insufficienza di dati emersi dagli ospedali e dai centri di ricerca da lei creati, Orano non ha mai ammesso le sue responsabilità.
Nel 2028 dovrebbe aprire Imouraren, la «miniera del futuro» a nord di Agadez con risorse stimate di 200mila tonnellate di uranio. Matthieu Davrinche, direttore della Imouraren Sa, joint venture di Orano, ha detto: «Nostra priorità è la conservazione della falda acquifera di Teloua».

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