Una riflessione per uscire dal concetto di "razza"...
Una riflessione per uscire
dal concetto di "razza"...
di Paolo D'Arpini
Durante i vari scambi epistolari avuti con persone di diverso credo, ho notato, a parte alcuni casi rari, che si tende a giudicare e ad esprimere pareri sulla base di una “convinzione” prestabilita, non corroborata cioè da una personale ricerca sui fatti avvenuti.
	Sulla
	realtà della nascita del “problema ebraico”, a cominciare dal
	periodo biblico sino alla fondazione di Israele… ci si lascia
	guidare da emozioni, da tendenze a voler credere in una verità, già
	accettata in quanto tale.
Ovvio che questo tipo di
	atteggiamento non possa essere da me condiviso. Io mi sento una
	specie di San Tommaso, ho bisogno di mettere il dito nella piaga per
	credere.. E sono contento che questo mio “sentiero” mi abbia
	condotto a scoprire alcune verità scomode, sia per una parte che
	per l’altra, verità che dimostrano come sia importante
	comprendere gli eventi trattati attraverso il proprio “lume”.
Mi
	son trovato così in mezzo a due fuochi. A prendere i pesci in
	faccia da destra e da sinistra.. come si dice in gergo… Eppure ho
	il piacere e la soddisfazione di potermi osservare senza riscontrare
	macchie nel mio sentire. Mi guardo allo specchio e mi dico: “Bello
	o brutto, con i nei o con la pelle liscia, tu sei quel che sei, caro
	mio Paolo/Saul”.
Saul, sì, è il nome recuperato,
	considerando la mia “lontana” origine ebraica, vi ho già
	raccontato la storia, e quel po’ di sangue “eletto/infetto”
	rimastomi nelle vene ha fatto sì che io volessi conoscere la verità
	su quella parte di me, su quel pezzo di Paolo D’Arpini, nel bene e
	nel male...
Ricordo un proverbio che mi citavano i vecchi contadini di Calcata: “il meglio è nemico del bene”… Ed è proprio così, arrabattandoci e cercando di migliorarci agli occhi del mondo non riusciamo a percepire il bene che già c’è in noi… Ed in fondo cosa significa essere perfetti? Semplicemente essere quel che si è senza remore né rimpianti, senza cercare l’approvazione di qualcuno, perché se siamo quel che siamo evidentemente ci compete. Da ciò nasce spontaneità e naturalezza…
E
	la società umana, nella sua interezza come specie, va a rotoli,
	perché non può funzionare come un meccanismo, non è fatta di
	semplici ingranaggi e di numeri (di razze distinte)…
Allora,
	si può uscire -ed i miei fatti lo dimostrano- dal concetto di
	“razza eletta” ma si può entrarvi?
Sul merito delle
	conversioni all’ebraismo c’è da dire che in passato queste
	avvenivano, sia nel contesto dei popoli semitici (non ancora
	distinti) che potevano passare da un credo all’altro e comunque
	venivano accettati se “tornavano” all’ovile (ne abbiamo
	evidenze nella stessa bibbia in cui si parla di idolatri che poi
	tornano alla fede), sia nel periodo del primo cristianesimo, che non
	essendo altro che una setta ebrea si poneva comunque (diversamente
	dall’ebraismo ortodosso) come una fede aperta anche ai gentili…
	Solo più tardi ci fu una separazione netta e sia gli ebrei che i
	nuovi ebrei -ovvero i cristiani- trovarono più conveniente andare
	ognuno per la propria strada.
Comunque l’ultima grande
	conversione al giudaismo fu quella dei Kazari, attorno al 1000, che
	con il loro numero formarono le fila dei cosiddetti “ebrei
	orientali” che dal punto di vista “tradizionale” del “seme”
	non sono però dagli ortodossi accettati nel novero degli
	“eletti”.
(Vedi: http://www.circolovegetarianocalcata.it/2013/12/25/storia-di-come-e-nato-il-sionismo-ovvero-se-gli-ebrei-non-sono-ebrei-ma-khazari-convertiti/)
	Infine
	ci sono le propagazioni o conversioni per filiazione mista, ovvero i
	figli di donne ebree e gentili.. e di questi casi se ne contano a
	migliaia soprattutto per motivi di “economia” e “convenienza
	politica”. Restando in tema di “convenienza politica” ma anche
	di “giustizia umana” -che non guasta- c’è da dire che non si
	può colpevolizzare tout court un senso di identità.
Anche
	noi lo abbiamo, magari più debole in quanto la nostra è una
	identità recente, come “italiani”. Vediamo che diversi popoli
	nomadi hanno mantenuto una forte identità proprio per salvaguardare
	la cultura nella quale sono nati e si riconoscono, come ad esempio
	gli zingari ma ve ne sono altri e non soltanto nomadi, magari
	stanziali ma rinchiusi in un ristretto ambito territoriale. Insomma
	voglio dire che chi nasce in una famiglia ebrea si nutre del senso
	di appartenenza, è un fatto culturale quasi imposto dalle
	condizioni esterne.. ed obbligatorio, vista la estraneazione di cui
	essi “soffrono” (pur volendo mantenerla) nelle società
	“cristiane” o “musulmane” ove la differenza viene fatta
	percepire più duramente.. Va da sé che dopo generazioni e
	generazioni il senso di differenza ed estraniamento si acuisce. E si
	tende a cercare rivalse morali, intellettuali od economiche… Non
	dimentichiamo che in simili condizioni “di diversità congenita”
	sono nati i più grandi geni dell’umanità e qui non mi riferisco
	solo agli ebrei ma a tutti coloro che hanno dovuto, per una ragione
	o per l’altra, vivere ai margini o addirittura rinnegare la
	famiglia e la comunità in cui sono nati.
Insomma non
	vorrei che l’appartenenza alla cultura ebraica fosse considerata
	di per sé motivo di giudizio negativo. Personalmente ho conosciuto
	decine di ebrei, in ogni ambito culturale e spirituale, e li ho
	sempre trovati degni di fiducia e ragionevoli interlocutori. Certo
	anch’io mi ponevo verso di loro con lo stesso atteggiamento.. Per
	cui direi che spesso le situazioni di attrito contribuiscono a
	scatenare divisioni, rancori e vendette di ogni sorta.
	Ora
	parliamo dei sionisti. I sionisti essenzialmente si sono concentrati
	in Israele, appoggiati però dalla sponda sionista ashkenazita
	nordamericana. Il sionismo è nato avendo in mente la fondazione di
	Israele. Siccome la conquista di quel territorio è avvenuta e
	mantenuta con la forza, nella condizione di continua conflittualità
	(per conservare le posizioni raggiunte) si tende a indurire il cuore
	ed a non considerare i diritti dell’altro… Questo avviene in
	ogni conquista territoriale, guardate la conquista delle Americhe a
	tutto scapito delle popolazioni autoctone, o guardate ogni altra
	invasione in cui sempre il conquistatore tende a cancellare la
	cultura degli sconfitti (nonché le persone fisiche che la
	incarnano) per sostituirla con la propria..
Questa
	posizione dal punto di vista psicologico è chiamata
	“sacralizzazione della colpa”. La colpa viene resa nobile e
	degna.. insomma si gira la frittata ed in tal modo si cerca di
	pacificare il proprio animo derelitto, consapevole del male
	commesso.. giustificando il male e chiamandolo bene (magari per i
	propri confratelli, non importa…).
Mi sa che sto
	allontanandomi troppo dal discorso iniziale, comunque ribadisco,
	come affermato in precedenza, che usare discriminazione ed
	oculatezza nel giudizio è un esercizio che favorisce la crescita
	dell’intelligenza… “Dio non saprà riconoscere i suoi…”
	saprà riconoscere però il nostro senso di giustizia e di
	equanimità.
Paolo D'Arpini
	

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