ESSERE NEL QUI ED ORA...
Ch'an
e Zen. Oggigiorno qui in Occidente, non è che vi siano molti
luoghi in cui questa meravigliosa "dottrina", che è anche
prezioso stile di vita, possa essere appresa da un insegnante che sia
un adepto nella pratica.
Ebbi la buona sorte nella mia
vita di poter conoscere due insegnanti italiani di questa disciplina
buddista. Il primo, di scuola Zen giapponese, risiedeva in un
piccolo ashram laico a Scaramuccia e si chiamava Gigi Mario. Parecchi
anni fa con lui partecipai ad una seshin di tre giorni con
meditazioni, sia da seduti che camminando in collina, intervallate
dal lavoro nei campi ed altre pratiche comunitarie. Dopo 72 ore senza
sonno e sfiancato dallo sforzo costante non c'è meraviglia che alla
fine uno abbia una sorta di "satori", anche se questo
termine sembra esagerato, rispetto alle esperienze di discepoli che
per anni ed anni praticano con i loro maestri nelle condizioni più
"disastrose". Comunque alla fine della seshin tutti i
partecipanti realizzarono il valore della vita quotidiana. Il senso
della noia era scomparso.
Con l'altro maestro, Alberto
Mengoni, di scuola Chan cinese, ebbi una frequentazione più
continuativa ed amichevole. I nostri incontri avvenivano più che
altro a tavola, durante le visite che lui ed i suoi allievi mi
facevano quando ancora risiedevo a Calcata. Il suo insegnamento,
oltre al classico zazen, è basato sul radicamento nella
vita quotidiana e sull'osservazione continua, senza tendere a
"consolazioni" di vario genere, ivi comprese quelle
religiose.
A parte l'incontro con questi "compagni
di viaggio" già da parecchio tempo anch'io mi stavo
dedicando con impegno alla pratica spirituale. Un percorso iniziato
nel 1973 con il mio maestro tantrico, Swami Muktananda, che
risvegliò in me "l'esperienza" diretta del Sé. In
seguito, come forma di apprendimento esperienziale delle varie
discipline, mi dedicai allo studio del sistema indiano advaita
e del sistema cinese, dall'I Ching sino al confucianesimo ed al
taoismo.
Ma una cosa è certa: l'apprendimento di nozioni,
od anche la pratica meditativa, non conduce all'illuminazione.
Questa non è una conseguenza della ricerca bensì è la nostra
vera natura intrinseca, che va riconosciuta liberandosi dalle
identificazioni esternalizzanti. Ed in verità se qualcuno
chiedesse “Cos’é il Ch’an?” -o lo Zen, che è la sua
filiazione giapponese- sarei tentato di rispondere che “sicuramente
non è quel che stiamo facendo”, ovvero che esso non può essere né
descritto né letto né pensato. Può essere sì “trasmesso”,
attraverso l’esempio, ma solamente se e quando l’osservatore
è in grado di farlo proprio, come avvenne a Mahakashyapa che si
illuminò osservando il Buddha sollevare un fiore, in risposta ad una
domanda filosofica.
Insomma il Ch’an e lo Zen sono
espressioni che stanno a indicare “l'esperienza del Sé, diretta,
naturale e spontanea” come in verità fu quella del Buddha che,
abbandonati tutti i sentieri e tutti i metodi, infine mangiò, perché
aveva fame, e si sedette, perché era stanco, e così ottenne
l’illuminazione. Dal punto di vista formale vediamo che il Ch’an,
storpiatura del vocabolo sanscrito Dhyan (che vuol dire meditazione),
nacque in Cina (nell’epoca T’ang fra il 618 ed il 907 d.C.) come
risposta integrativa fra l’esperienza Taoista e quella Buddista.
Entrambi questi “sentieri” sono “non formali”, non
abbisognano di scritture o regole specifiche, essendo basati sulla
scoperta di sé nel Sé. Essendo il laboratorio di ricerca il proprio
interno, la mente, l’unica pratica consigliata è quella
dell’introspezione…
Non vengono seguiti metodi
speculativi piuttosto si cerca di portare l’intelligenza al limite
della sua tendenza raziocinante, talvolta attraverso insolubili
quesiti o formule astruse sulle quali riflettere. Altra
caratteristica esteriore che qualifica i praticanti della meditazione
Ch’an è l’auto-sostentamento, cioè i monaci devono seguire una
ferrea disciplina e provvedere a se stessi attraverso il lavoro nei
campi ed ogni altra attività utile alla sopravvivenza… insomma ci
si aspetta che i praticanti non “vivano sulle spalle altrui” con
la scusa della religione…
E della religione, direi ogni
religione, visto che l’iconoclastia si spinge contro ogni teismo
costituito, il Ch’an ha perso ogni odore…. Infatti: “… Se
incontri il Buddha per strada, uccidilo” - disse il maestro I-Hsuan
- Se incontri patriarchi o arhat sulla tua strada uccidi anche loro
(ovviamente, in senso metaforico… cioè nella nostra mente…)…
Bodhidharma era un vecchio barbaro barbuto.. il nirvana e la bodhi
sono tronchi secchi utili per legarvi l’asino. Gli insegnamenti
sacri sono solo elenchi di regole di fantasmi, fogli di carta buoni
per asciugare il pus delle vesciche…”.
Divertente
nevvero? Ma questa negazione del formalismo attinge alla realtà del
“primordiale vuoto” (o vacuità), nonché all’allegro disprezzo
verso ogni perseguimento, verso la sclerosi culturale che si ferma
alla forma, sia nella letteratura che nella religione.
Il
Ch’an e lo Zen, infatti, puntano a sovvertire il pensiero
convenzionale e la conoscenza di seconda mano, in modo che
l’illuminazione acquisti significato nell’esperienza personale.
Per questo è necessaria una forte disciplina, dato che senza
disciplina non è possibile interrompere le “fantasie”
acquisitive della mente… e la disciplina deve avere – ovviamente
- una duplice valenza… fisica e mentale (”ora et labora”
diremmo noi occidentali…).
Per risvegliare la mente, ed
indurre i praticanti a superare i limiti del raziocinio, alcuni
maestri si specializzarono in stupefacenti indovinelli che venivano
sottoposti all’allievo. La domanda poteva essere “In che modo fai
uscire l’oca dalla bottiglia?”, oppure “Qual è il suono di una
mano sola?”… Ovviamente qualsiasi risposta basata sull’analisi
teorica veniva salutata dal maestro con grida e sonore
bastonature.
Malgrado l’apparente durezza, l’insegnante
Ch’an o Zen è sempre ispirato dalla pura “compassione” e
perciò sa riconoscere quando l’allievo è genuinamente penetrato
nella profondità del Sé ed in quel caso la sua risposta è un
silenzioso sorriso… oppure come disse ad Hakuin il suo maestro:
“Entra.. adesso ce l’hai..!”
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