MORTI E MORITURI

 Il commento della settimana

Alessandro Portelli



Il 12 maggio 1996, a un intervistatore televisivo che le chiedeva se mezzo milione di bambini morti in Iraq fossero un prezzo che valeva la pena pagare, Madeleine Albright – ambasciatrice degli Stati uniti all’Onu e segretaria di stato durante la guerra in Iraq – rispose: «È una scelta difficile ma pensiamo che fosse un prezzo che valeva la pena».


Il 10 agosto scorso, Kamala Harris – prossima, speriamo, presidente degli Stati uniti – ha detto che i civili uccisi a Gaza sono «far too many», davvero troppi. In modo più confuso e ambiguo, anche il presidente uscente Joe Biden ha detto la stessa cosa nel suo discorso alla convention democratica a Chicago.

RICONOSCIAMOLO: ci vuole del coraggio, con l’aria che tira, a suggerire che possa esistere un limite a quello che lo stato di Israele ha diritto di fare in qualunque momento e in qualunque parte del globo. Però forse, visto che ci sono, Harris e Biden potrebbero fare un passo avanti e, sulla scia di Madeleine Albright, chiarire: esattamente a che punto diventano «troppe» le vittime civili? Quale sarebbe un numero non eccessivo di persone ammazzate – ventimila, diecimila, cinquemila…?

Quanti morti ci vogliono per disturbare la nostra coscienza democratica? Qual è la soglia statistica oltre la quale le persone smettono di essere umane e diventano numeri? Qual è la soglia statistica oltre la quale i «danni collaterali» diventano crimini?

Riconoscendo che le cifre delle vittime fornite dal ministero della sanità di Gaza sono «generalmente accurate», un portavoce dell’esercito israeliano spiegava che però almeno 12mila erano combattenti terroristi (cito da Times of Israel). Ora, non so se dodicimila combattenti uccisi sono «troppi»; ma quello che colpisce è che le fonti israeliane dichiarano con orgoglio di avere ucciso anche almeno 25mila non combattenti. Dopo due mesi di guerra, una fonte militare israeliana citata dalla Cnn dichiarava che due civili uccisi per ogni combattente è una quota «tremendamente positiva». Ok, il prezzo è giusto?

Dipende. Siamo tutti d’accordo che dei 695 civili israeliani uccisi nel raid di Hamas il 7 ottobre anche uno solo è uno di troppo (a me paiono «troppi» anche i 373 delle forze di sicurezza, e pure i dodicimila presunti «combattenti» palestinesi. Ma forse sono contaminato da residui di ideologia non-violenta). Comunque, a proposito di proporzioni: fino adesso, il rapporto fra vittime palestinesi e vittime israeliane – variabile a seconda delle fonti usate – è di circa 40 a uno. «Tremendamente positiva»?

Ovviamente, tutto questo vale se continuiamo a contare come vittime solo le persone direttamente uccise in azioni di guerra. Ma – come sapeva l’intervistatore di Madeleine Albright nel 1996 e come ci hanno insegnato eloquentemente Gino Strada e Emergency – la guerra ammazza anche in tanti altri modi e continuerà ad ammazzare anche quando diremo che «è finita».

Secondo la Geneva Declaration on Armed Violence and Development del 2008, approvata da 113 paesi, nelle aree di conflitto armato «per ogni persona che muore per violenza diretta, muoiono per cause indirette da tre a quindici persone». Basta pensare alle crisi sanitarie in atto, tifo, poliomielite, fame e agli ostacoli posti agli aiuti umanitari. Su questa base una lettera pubblicata dalla rivista medica inglese Lancet ipotizzava un fattore di quattro a uno che porterebbe a 186mila il numero dei morti a Gaza. Forse esagerano. Ma se fossero la metà andrebbe bene, Ms. Harris? Novantamila sono un prezzo che vale la pena, Mr. Biden? Con i nostri soldi, con le nostre armi – che facciamo, continuiamo a mandarle?

E noi, quand’è che cominciamo a sentirci turbati? In Cisgiordania, dove in teoria non c’è nessuna guerra, dal 7 ottobre in poi esercito e coloni hanno approfittato dell’attenzione rivolta a Gaza per ammazzare 594 persone. Sono «troppi»? Per capirci: abbiamo commemorato in questi giorni la strage nazifascista di Sant’Anna di Stazzema, 560 persone uccise. Per noi, è una ferita insanabile nella nostra memoria e nella nostra coscienza civile, come ogni crimine simile.

E LA CISGIORDANIA? Persino le autorità israeliane parlano di pogrom; ma i nostri media tacciono e i governi farfugliano qualche parola di biasimo mentre continuano a mandare armi a chi li uccide. E ancora: sappiamo se qualcuno sta contando i morti – «civili» o «combattenti» – in Libano?

Nel frattempo, a proposito di antisemitismo, il più grande arresto in massa di ebrei avvenuto dopo la seconda guerra mondiale in un paese occidentale ha avuto luogo il 22 luglio scorso a Washington.

Circa duecento partecipanti a una manifestazione indetta da Jewish Voice for Peace, in occasione del trionfo annunciato di Netanyahu al Congresso, sono stati arrestati per manifestazione non autorizzata. Duecento ebrei arrestati farebbe notizia dovunque; ma questi non contano. Volevano la fine dei bombardamenti, gridavano che i morti erano troppi. Ma forse, a essere di troppo, erano loro.

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