Arundhati Roy: "La brutalità di Narendra Modi contro il Kashmir non si ferma"
La brutalità di
Narendra Modi contro il Kashmir non si ferma
Arundhati Roy, The Guardian, Regno Unito
7 agosto 2020
A mezzanotte del 4 agosto 2019 le linee telefoniche e
le connessioni internet del Kashmir si sono improvvisamente interrotte. Il 5
agosto 2019 sette milioni di persone sono rimaste bloccate nelle loro case per
un rigido coprifuoco militare. Circa diecimila sono state arrestate e
sottoposte a detenzione preventiva. Alcune sono ancora in carcere. Il 6 agosto
il parlamento ha approvato una
legge che ha privato lo stato di Jammu e Kashmir dell’autonomia
e dello statuto speciale garantiti dalla costituzione indiana, dividendolo in
due territori separati, il Ladakh e lo Jammu e Kashmir. In base alla legge il Ladakh
non avrà un suo parlamento e sarà governato direttamente da New Delhi.
A quel punto ci hanno detto che il problema del
Kashmir era finalmente risolto, una volta per tutte. In altre parole, la sua
battaglia decennale per ottenere l’autodeterminazione, costata la vita a decine
di migliaia di soldati, militanti e civili, a cui vanno aggiunti migliaia di
corpi torturati e “scomparsi”, era finita.
Nel parlamento indiano il ministro dell’interno Amit
Shah si è spinto ancora più in là. Ha dichiarato di essere pronto a dare la
vita per conquistare i territori che l’India definisce come “Kashmir occupato
dal Pakistan” (Pok) e che gli abitanti di quelle terre chiamano Azad Kashmir,
oltre alle province di frontiera Gilgit-Baltistan. Shah ha tirato in ballo anche
la regione dell’Aksai Chin, un tempo parte del regno di Jammu e Kashmir e
attualmente controllata dalla Cina.
Con quelle parole il ministro si è addentrato in un
territorio pericoloso. I confini di cui parlava, infatti, separano tre potenze
nucleari. Tra inopportuni slanci di gioia per le strade dell’India, la tensione
generata dall’umiliazione inflitta al Kashmir ha intensificato l’aura del primo
ministro Narendra Modi, già considerato da molti una specie di semidio.
L’istituto meteorologico indiano ha deciso provocatoriamente di includere il
Gilgit-Baltistan nelle sue previsioni meteo. Il governo cinese ha risposto
invitando l’India a “usare prudenza sia nelle parole sia nei fatti per quanto
riguarda il confine”, ma in India pochi ci hanno fatto caso.
Controllo assoluto
A un anno da quando l’India ha cancellato l’autonomia del Kashmir, la
lotta non è affatto
finita. I mezzi d’informazione sostengono che nei mesi scorsi siano stati
uccisi 34 soldati, 154 militanti e 17 civili. Il resto del mondo,
traumatizzato dalla pandemia di covid-19, ha
comprensibilmente trascurato le sofferenze che il governo indiano ha inflitto
alla popolazione del Kashmir. Il coprifuoco e il taglio delle comunicazioni,
con tutte le conseguenze del caso (mancato accesso agli ospedali, ai luoghi di
lavoro, ai negozi, alle scuole, alle persone care) sono andati avanti per mesi.
Un controllo così stretto non è stato imposto nemmeno dagli Stati Uniti durante
la guerra con l’Iraq.
Per mettere in ginocchio il pianeta e spingere molte
persone al limite del crollo nervoso sono bastati pochi mesi di quarantena,
senza alcun coprifuoco militare o taglio delle comunicazioni. Pensate agli
abitanti del Kashmir, sottoposti all’occupazione militare peggiore del mondo.
Oltre al dolore portato dal virus, queste persone hanno dovuto fare i conti con
labirinti di filo spinato, irruzioni dei soldati nelle loro case, pestaggi di
uomini e stupri di donne, distruzione delle scorte di cibo, grida di uomini
torturati amplificate da sistemi di diffusione audio.
A tutto questo aggiungete un sistema giuridico che per
un anno intero ha permesso l’interruzione della connessione internet e ha
ignorato seicento petizioni depositate da chi voleva solo sapere dov’erano
finiti i suoi familiari. Come se non bastasse, è stata approvata anche una nuova
legge sul domicilio che concede a tutti gli indiani il diritto a trasferire la
propria residenza in Kashmir. I preziosi certificati di residenza degli
abitanti del Kashmir hanno improvvisamente perso il loro valore legale. Oggi
tutti quelli a cui viene negata l’autorizzazione possono essere espulsi. Il
Kashmir, in sostanza, sta subendo una cancellazione culturale.
La riforma del domicilio è legata alla nuova legge
sulla cittadinanza (Caa), una norma palesemente contro i musulmani approvata
nel dicembre del 2019, e al Registro
nazionale della cittadinanza (Nrc), che teoricamente dovrebbe
permettere d’individuare gli “infiltrati bengalesi” (naturalmente musulmani)
che il ministro dell’interno chiama amorevolmente “termiti”. Nello stato di
Assam l’Nrc ha già seminato il caos. Mentre molti paesi affrontano una grave
crisi dei rifugiati, il governo indiano sta trasformando i suoi stessi cittadini
in profughi, creando una massa spaventosa di apolidi.
La Caa, l’Nrc e la nuova legge sul domicilio in
Kashmir obbligano anche i residenti a presentare una serie di documenti
approvati dallo stato per ottenere la cittadinanza nel proprio paese. (Le leggi
di Norimberga approvate dal partito nazista nel 1935 stabilivano che solo i
cittadini in possesso di documenti approvati dal Terzo Reich potessero ottenere
la cittadinanza tedesca). Come potremmo definire tutto questo? Un crimine di
guerra? Un crimine contro l’umanità? Come dovremmo chiamare la collusione tra
le istituzioni e i festeggiamenti nel strade dell’India? Democrazia?
Per
un governo nazionalista come quello indiano, cedere un territorio su cui il
paese rivendica la sovranità è l’incubo peggiore che ci sia
A un anno di distanza, i festeggiamenti si sono
trasformati in silenzio. Per ottime ragioni. L’India ha un drago sull’uscio di
casa, e non è per nulla benevolo. Il 17 giugno 2020 il paese si è svegliato con
la notizia dell’assassinio di venti soldati indiani (compreso un colonnello) da
parte dell’esercito cinese tra i ghiacci della remota
valle di Galwan, al confine tra il Ladakh e la Cina. Nei giorni
successivi la stampa indiana ha riferito che i soldati cinesi erano entrati nel
territorio indiano in diversi punti. I veterani dell’esercito e i
corrispondenti più autorevoli hanno dichiarato che i soldati cinesi hanno
occupato centinaia di chilometri quadrati di quello che l’India considera suo
territorio.
È stata davvero una spudorata aggressione, come
sostengono i mezzi d’informazione indiani? O forse i cinesi sono intervenuti
per proteggere due interessi che ritengono vitali, una strada che attraversa le
alte vette dell’Aksai Chin e una rotta commerciale che attraversa l’Azad
Kashmir? Se Pechino vuole prendere sul serio le dichiarazioni belligeranti del
ministro dell’interno indiano (e non può fare altrimenti) entrambi gli
interessi sembrano minacciati.
Per un governo ferocemente nazionalista come quello
indiano, l’idea di cedere un territorio su cui il paese rivendica la sovranità
è l’incubo peggiore che ci sia. Ma cosa può fare New Delhi? Il governo ha
trovato una soluzione semplice. Pochi giorni dopo la tragedia nella valle di
Galwan, Modi ha parlato alla nazione. “Nessuno ha occupato un centimetro della
nostra terra”, ha dichiarato. “Nessuno ha varcato i nostri confini e nessuno ha
preso possesso dei nostri avamposti”. I critici di Modi hanno trattenuto a
stento le risate. Il governo cinese ha confermato subito le dichiarazioni del
primo ministro, anche perché corrispondevano alle sue. Ma le parole di Modi non
sono stupide quanto sembrano. In un momento in cui i comandanti dell’esercito
di entrambi i paesi discutono il ritiro e il “disimpegno” delle truppe, i
social network sono pieni di battute e i cinesi continuano a difendere un
territorio che sostengono gli appartenga, per la stragrande maggioranza degli
indiani Modi ha vinto. È apparso in televisione. Chi può dire che i territori
siano più importanti della tv?
I due fronti
A prescindere da tutte le considerazioni del caso, è evidente che sul lungo
periodo l’India ha bisogno di un esercito pronto a combattere su due fronti,
quello occidentale con il Pakistan e quello orientale con la Cina. Tra l’altro
l’arroganza del governo ha allontanato due paesi vicini come il Nepal e il
Bangladesh. Il governo si è ridotto a vantarsi del fatto che in caso di guerra
gli Stati Uniti, alle prese con la loro crisi interna, correranno in soccorso
dell’India. Davvero? Come hanno soccorso i curdi in Siria e in Iraq? Come hanno
salvato gli afgani dai sovietici o i vietnamiti del sud da quelli del nord?
Ieri sera un amico che vive nel Kashmir mi ha inviato
un messaggio: “L’India, il Pakistan e la Cina combatteranno sopra i nostri
cieli senza nemmeno accorgersi di noi?”. Non è uno scenario improbabile.
Nessuno di questi paesi è moralmente o umanamente superiore all’altro. Nessuno
si preoccupa del benessere delle persone.
In ogni caso, anche senza una guerra ufficiale, per
mantenere un esercito stabile ed equipaggiato per il conflitto ad alta quota al
confine del Ladakh, e avvicinarsi lontanamente all’arsenale della Cina, il
budget militare dell’India dovrebbe raddoppiare, se non triplicare. Comunque
non basterebbe. Una manovra di questo tipo, tra l’altro, porterebbe un enorme
danno a un’economia che stava già soffrendo prima del blocco dovuto al covid-19
(con un tasso di disoccupazione mai visto negli ultimi 45 anni) e che ora
minaccia di subire una contrazione compresa tra il 3,2 e il 9,5 per cento.
Nelle prime fasi di questa partita di dama cinese Modi sta perdendo.
La prima settimana di agosto ha portato altre cattive
notizie. Nonostante il blocco imposto dal governo (tanto mal concepito quanto
draconiano e doloroso) e nonostante una quantità di test molto inferiore
rispetto ad altri paesi, in India i casi di positività al covid-19 aumentano
velocemente, forse più che in tutti gli altri paesi del mondo. Tra le vittime
del virus c’è anche il battagliero ministro dell’interno, Amit Shah, che sta
passando questi giorni in un letto d’ospedale e di sicuro non farà ricorso alle
cure promosse da un esercito di ciarlatani, religiosi e parlamentari del suo
partito: bere urina di vacca, consumare una pozione magica chiamata Coronil,
soffiare nelle conchiglie e percuotere pentole e padelle, recitare
l’invocazione Hanuman Chalisa e scandire la
formula “Vai via, corona, vai via!” con l’intonazione monotona dello śloka
sanscrito. Al ministro, naturalmente, toccano le attenzioni degli ospedali
privati più costosi e i migliori medici (allopatici) del governo.
Ma dov’è finito nel frattempo Modi? Se il problema del
Kashmir fosse davvero stato “risolto” una volta per tutte, in questo momento
sarebbe nella regione per ricevere l’adorazione delle folle di indiani (a
distanza di sicurezza). Ma il problema del Kashmir non è risolto. La regione è
di nuovo isolata, e il Ladakh è qualcosa di molto simile a un campo di
battaglia.
E così Modi ha deciso saggiamente di ritirarsi dal
confine e rifugiarsi in un luogo sicuro per mantenere un’altra delle sue
vecchie promesse elettorali. Il 5 agosto il primo ministro – accompagnato dalle
preghiere dei sacerdoti e dei cittadini di tutto il paese, oltre che dalla
benedizione della corte suprema indiana – ha deposto una lastra d’argento da
quaranta chili nelle fondamenta del Ram Mandir, un tempio che sorgerà sulle
rovine della Babri Masjid, una moschea rasa al suolo nel 1992 da militanti indù
guidati da esponenti del partito di Modi, il Bharatiya janata party (Bjp). Il
viaggio per arrivare a questo momento è stato lungo. Chiamiamolo Trionfo della
Volontà.
Mentre scrivo queste parole riesco a percepire
nell’aria un fremito in vista di questa tappa storica. Solo gli ingenui o le
persone indottrinate possono ancora credere che la fame e la mancanza di posti
di lavoro porteranno la rivoluzione, e che i templi e i monumenti non possono
sfamare la gente. Non è così. Il Ram Mandir è cibo per milioni di anime indù
affamate, e l’ulteriore umiliazione dei musulmani e di altre minoranze non fa
che aumentare il gusto della vittoria, che è molto meglio di quello del pane.
Ci vuole prudenza
Riflettendo sui 365 giorni passati da agosto 2019 a oggi – “l’integrazione” del
Kashmir nell’India, l’approvazione della legge sulla cittadinanza e dell’Nrc,
l’inaugurazione del Ram Mandir – sarebbe facile considerarli come il momento
storico in cui l’India di Modi ha formalmente dichiarato di essere una nazione
indù e ha annunciato l’alba di una nuova era. Ma le dichiarazioni possono
nascondere delle sconfitte, e gli inizi appariscenti possono portare a finali
imprevedibili. Vale la pena ricordare che nonostante la presenza invadente di
Modi e la solida maggioranza parlamentare del Bjp, solo il 17,2 per cento della
popolazione indiana ha votato per loro.
Forse, come suggeriscono i cinesi, dovremmo adottare
una maggiore prudenza. Pensiamoci un attimo. Perché Modi ha deciso d’inaugurare
il Ram Mandir proprio ora? Dopotutto siamo lontani dalle festività del Diwali o
del Dussehra, e la data non ha alcuna rilevanza particolare nel Rāmāyaṇa o nel calendario indù. Per non parlare del fatto che gran parte
del paese è
sottoposta a un blocco parziale e molti dei sacerdoti e dei poliziotti che
dovrebbero gestire l’evento
sono già
risultati positivi al covid-19.
Quindi perché farlo ora? Per spargere sale sulle
ferite del Kashmir? O per curare quelle dell’India? A prescindere da cosa venga
detto in tv, è in atto un cambiamento epocale. L’ordine mondiale sta cambiando.
Non si può agire in modo prepotente e comportarsi come il capo del quartiere se
non si è davvero il capo del quartiere. Non è un proverbio cinese, è semplice
buon senso.
Forse questo anniversario dell’agosto 2019 non è come
ci viene presentato? Forse un piccolo mollusco della vergogna si è attaccato
all’imponente scogliera della gloria? Quando (e se) l’India, la Cina e il
Pakistan combatteranno davvero sui cieli del Kashmir, il minimo che potremo
fare sarà tenere gli occhi ben aperti sulle sofferenze delle persone che vivono
in quelle terre.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico Guardian.
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