UMBERTO SABA SI RACCONTA di Gordiano Lupi

Umberto Saba, poeta di Trieste

Nel 1883 nasco a Trieste, in ritardo di trent’anni sul mio tempo, ché in una provincia come questa è come esser venuto al mondo nel 1850. Edoardo Poli, agente di commercio, il padre che non ho ma avuto, sposa mia madre Felicita Rachele Cohen, ebrea, subito l’abbandona al suo destino, inconsapevole di cosa voglia dire esser marito, avere una famiglia. Non posso chiamare padre uno che ho conosciuto (quasi per caso) vent’anni dopo, che non c’è mai stato, dicono non fosse adatto alla vita di famiglia, ma non posso scusarlo. Mi alleva la slovena Pepa Sabaz - non è il suo vero nome ma tutti la chiamano così - forse è lei la mia vera madre, ché per tre anni conosco solo il suo affetto, le sue braccia, il suo grembo. Per questo quando scrivo mi firmo Umberto Saba, non mi passa neppure per la testa di chiamarmi Poli, cognome che mi ricorda soltanto assenze, mancanze d’una vita. Mia madre mi prende con sé che ho compiuto tre anni, vivo con lei e due zie, una famiglia di sole donne, non cresco bene, di sicuro non felice. Studio fino al ginnasio, poi mi fermo, accademia nautica, m’imbarco su una nave, provo con l’Università, a Pisa, ma non va bene, sono troppo incostante. Torno a Trieste, affranto e depresso, come sempre sconfitto, alle mie sterminate e disordinate letture, alla mia diversità di figlio non voluto, senza un padre. Studio di tutto, persino l’odiato Pascoli, i classici e Dante, Petrarca, Leopardi, Carducci e il sommo vate D’Annunzio. Divento amico di Ugo Chiesa, vorrei fare il violinista, altri che conosco scrivono, suonano il piano. Resto indeciso, come sempre, come all’Università, quando passavo da letteratura italiana a tedesco, da latino ad archeologia, senza capire quale fosse la mia strada. Devo curarmi i nervi, non sto bene, soffro insane paure, temo che il mio amico Ugo possa far leggere agli austriaci un mio racconto antiasburgico. Non lo farebbe mai, lo so bene, ma la mia ansia fa crescere paure immotivate: perché l’ho scritto? E questa nevrosi diventa compagna di vita, oscura consigliera, perfida traditrice, anima nera del mio tempo. La mia prima pubblicazione compare sul Lavoratore, racconto un viaggio a piedi in Montenegro, una tantum mi firmo Umberto Poli, non è una cosa memorabile, pure se da qualche parte si deve cominciare. Vado a vivere a Firenze ma per poco, non amo l’ambiente, lo scrivo al mio amico Amedeo Tedeschi del Lavoratore che voglio venir via da questo posto, voglio riveder la mia Trieste. Scrivo Il borgo per il Lavoratore, abbozzo racconti e prose, incipit di tragedie, sulle orme di Alfieri, ma la mia strada non trovo. Ho ventidue anni quando conosco mio padre, la cosa non mi sconvolge, per me è solo un estraneo che per caso mi ha messo al mondo, non mio padre; ben più importante è conoscere Lina, mia futura moglie, grazie all’amico Giorgio Fano. Vado a trovare il vate Gabriele, nella villa del Garda, lui mi ascolta, apprezza, dice che son così bravo da raccomandarmi al suo editore, poi dimentica, come spesso accade, non risponde, scompare, lui che ammirava per mestiere. Sono italiano, devo fare il servizio militare, mi mandano a Salerno, dove scrivo i Versi militari. Tutte le mie poesie adolescenziali, quei sonetti tecnicamente modulati, così poco riusciti dice Croce, privi di forma, si salvano solo per i versi dedicati alla mia terra e alla donna che diventerà mia moglie. Nel 1909 sposo Lina, donna della mia vita, passione contrastata mai sopita, luce di questo buio che mi tormenta, mi dà una figlia proprio un anno dopo, Linuccia, la mia bambina con la palla in mano, mentre decido di fare il bottegaio per aver tempo da dedicare a scrivere. Nel 1910 esce a mie spese il primo libro di poesie che firmo Saba, come farò per sempre, un nome che mi ricorda Peppa, tutto il suo amore, il modo affettuoso di chiamarmi. Stringo rapporti con Prezzolini, Palazzeschi, Soffici, Papini e Moretti; scrivo ancora, non posso farne a meno, pubblico Con i miei occhi, poi Trieste e una donna, i miei due grandi amori. Il mio matrimonio va in crisi, per un po’ ci separiamo, scrivo Nuovi versi alla Lina, struggenti, delicati, appassionati, poi torniamo insieme, comprendiamo il nostro errore, in parte son io che non posso esser migliore. Intanto leggo Sesso e carattere di Weininger, ne resto ammaliato, se l’avessi letto prima credo che mi sarei suicidato, adesso no, adesso è troppo tardi (e troppo presto) per morire. Amo il melodramma, si vede anche da certe cose, invece non sopporto Gozzano e la sua maledetta ironia, poeta da servette innamorate, neppure il Manzoni con la sua lirica da libretto d’opera. Trieste e la mia donna sono le mie muse, scrivo poesie che son romanzi con tre personaggi, il terzo son me stesso, ma Trieste è importante, col suo mare, il suo cielo, i suoi vicoli, i monti che fanno da corona. Quel che tento di fare è poesia onesta, non son crepuscolare o gozzaniano, lungi da me esagerar come D’Annunzio. Far poesia significa essere onesti con se stessi, senza falsare la tua vision del mondo per comporre versi più eclatanti, persino troppo, spesso ridondanti. Mi trasferisco a Bologna, dove mi raggiunge Giorgio Fano che corregge le bozze dei miei versi; mi sento triste, depresso, incompreso e solo. Scrivo racconti, vorrei comporre un saggio, poi prende forma, verso dopo verso, l’idea della mia vita: il Canzoniere. Vado a Milano dove forse posso a lavorare, guadagnar qualcosa per la famiglia che devo mantenere, ma non è facile perché scoppia la guerra, il primo conflitto che mi vede interventista pure se mica sono un buon soldato, sempre depresso, sempre un po’ malato, non so far molto, mi trovo incaricato di compiti da poco, da scrivano. A guerra finita termino il Canzoniere e un lavoro vero me lo trovo, acquisto una vecchia libreria, a Trieste, decido di passare tra quei libri antichi la mia vita, cosa che non avrei mai creduto. Faccio il libraio antiquario, metto su dal niente la mia azienda, divento persino editore dei miei versi, son quasi più fiero di questa attività che del Canzoniere, ed è tutto dire. La serena disperazione dovrei pubblicarla con Vallecchi, non se ne fa niente, pubblico tutto con il marchio della Libreria Antica e Moderna, persino Cose leggere e vaganti, anche il Canzoniere. Siamo nel 1921, penso che sia l’opera di tutta la mia vita, la raccolta che non finirò mai di limare e completare, proprio mentre mia madre conclude l’agonia d’un abbandono, per l’ultima volta mi saluta quella donna tanto amata, con la mia nutrice, madre abbandonata che mi ha lasciato tutti i problemi del passato. Divento amico di Debenedetti, in lui vedo le doti del vero critico, una sorta di De Sanctis, intanto lavoro in libreria e mi abbandono alla nevrastenia, depressione ricorrente che non fugge, nonostante in quei locali nasca la mia più sentita poesia. Leggo Italo Svevo, un narratore che incanta, scrivo lettere a Debenedetti, raccolgo nuove liriche per Treves, scrivo Fughe per un piano che ho comprato e vorrei suonare anche il violino. Nel maggio del 1928 mi dedicano un numero di Solaria, una gran soddisfazione, poi escono Preludi e fughe, per lo stesso editore che pubblica la rivista. Non sto bene, però, questo isolamento triestino non cura i miei nervi, aggrava la nevrastenia, non ho pace; entro in cura da Edoardo Weiss, uno che mi spiega la psicanalisi nascente, il senso del passato, i traumi infantili, grazie a lui capisco dove sta il mio male, di che soffro, pure se non serve a molto sapere che devo tutto a mio padre e mia madre, al mio passato, capire di aver avuto in fondo solo l’amore d’una balia. La mia Peppa e le mie poesie, Il piccolo Berto, che dedico anche al medico, i ricordi dell’infanzia che la psicanalisi riporta a galla. Mi dedico a Sandro Penna, intanto, un giovane poeta che merita attenzione, che può far bene, cerco di farlo crescere e conoscere, qualcuno mi ascolta in poesia, non sono un vate come Gabriele, né un mondano come Gozzano, ma qualcosa conto. Voglio ristampare il Canzoniere, croce e delizia di questa povera vita, esaurito non lo posso vedere, anche con la mia libreria può andare bene, basta che si possa ancora avere. La guerra è vicina, una guerra ancor più nefasta, per me peggiore, che sono in parte ebreo, corro più rischi. Scrivo agli amici, cerco conforto, poi mi isolo dal mondo, vivo in libreria, cerco un rifugio per me e per i miei cari. Leggi razziali che colpiscono Trieste, finiscono per togliermi la libreria, affidandola al mio commesso, io non son degno, non son di razza pura, tu pensa riusciranno a dire che in Italia non ci fu razzismo. Sono al colmo della stanchezza fisica e morale, il cuore mi fa male, non so come però mi faccio forza, vado avanti per questi cupi anni di terrore. Conosco Giulio Einaudi, a Milano, propongo il Canzoniere, nuova edizione corretta e riveduta, dopo aver pubblicato con lui Ultime cose. Arriva l’otto settembre ed è tutta una fuga, mi rifugio a Firenze, terrorizzato, non vorrei essere riconosciuto da qualche presunto patriota, come un ebreo errante da consegnare ai tedeschi per la giusta punizione, in un lager, in una doccia alimentata a gas. Non sono un eroe, non lo son mai stato, cerco di fuggire, cambio domicilio, confondo tracce, per fortuna ho il conforto di Montale e Carlo Levi, Cecchi e Spinella, che ogni giorno mi vengono a trovare. Un anno d’angoscia, poi per fortuna arriva il 1945, piena felicità romana, una città che per me è un brillante che manda luce da ogni parte. Non ho soldi, sono stanco e affranto, ma la paura di morire mi abbandona, chi non c’è passato non può sapere quale sollievo sia la fine della guerra, la fuga dei nazisti e un nuovo sole che splende su macerie. Ho solo la mia poesia per sopravvivere, lo so che è poco, ma cerco di farla bastare. Mi avvicino al partito comunista, non sono un politico, pure se mi piace Togliatti, fosse per me governerebbe la nazione, pare persona onesta, uno per bene. Resto del solo partito che ha compiuto la mia rivoluzione, quello di Freud, che mi ha spalancato un mondo con tutte le sue considerazioni. Intanto esce il Canzoniere con le poesie di quarantacinque anni di lavoro, non sono molto soddisfatto di come Einaudi ha fatto l’edizione, pure il contenuto è lacunoso. Voglio tornare a Milano, adesso. Voglio stare con la mia famiglia, con Lina e Linuccia, solo questo conta. Vivere di letteratura non riesco, pur se ci provo, so che non posso. E poi non mi vogliono alla radio, mi caccian via dopo poche letture, non so perché, litigo con qualcuno del potere. Scrivo per il Corriere della Sera, pochi racconti autobiografici, progetto un’antologia di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, per Mondadori. Vinco il Viareggio a metà con Micheli e mi vorrebbero a San Paolo del Brasile a insegnare italiano, proprio come Ungaretti, quale onore! Ho sessantaquattro anni, son pieno di acciacchi, convivo con la mia nevrosi, son troppo vecchio per accettare. Torno a Trieste, anche se voglia non ne avrei, ed è nella mia città che la depressione attende per colpire, il luogo dove tutto diventa poesia, dove la mia lirica è nata e vuol morire. Non mi resta che cambiar nome, farmi critico di me stesso, diventar Giuseppe Carimandrei, esegeta sopraffino, per pubblicare Storia e cronistoria del Canzoniere dove scrivo che la mia opera migliore è il romanzo psicologico d’una vita interiore. Non son Leopardi, non trovo De Sanctis, solo me stesso a recensirmi, per dire che la poesia nasce da cose semplici, parole sciolte, lingua comune, verticale, che il Canzoniere è facile e difficile, semplice a decifrarsi ma è un romanzo, è tutta la mia vita. A Trieste scrivo pure Epigrafe, frasi come macigni che usciranno postume: Parlavo vivo a un popolo di morti,/ morto alloro rifiuto e chiedo oblio. Mi vien voglia di fare il governatore di Trieste, lo scrivo persino ad Arangio-Ruiz che è un giurista, pure se non sono un uomo pratico, non sono un politico, forse proprio per questo son l’uomo giusto, ché i politici di danni ne han già fatti troppi. Vorrei far tornare Trieste una delle più allegre città d’Europa, questo è il mio programma. Temo la dittatura dei preti, aderisco al Fronte delle sinistre unite, preferisco il plotone d’esecuzione comunista alle lodi dei preti. Einaudi e Garzanti, intanto, litigano sul Canzoniere, il lavoro d’una vita, e son io a farne le spese, poi tutto si risolve, Garzanti finisce per stampare un’edizione di lusso cedendo a Einaudi la versione popolare. Troppi amici mi lasciano, troppi fratelli muoiono, son così giù di nervi che ricorro all’oppio, ne prendo troppo, al punto che finisco in clinica per disintossicarmi. L’angoscia mi divora mentre scrivo Uccelli e Quasi un racconto, ma è il mio Canzoniere che vorrei terminare, farlo uscire, prima di morire; non ci riesco, il tempo ormai non può bastare. Soffro di nervi, sto bene solo in clinica, vorrei morire, il suicidio come via di fuga, veleno, gettarmi nel vuoto e non pensare, ma non riesco, finisce che non so scegliere, ancora una volta, neppure di sparire. Nel 1953 scrivo di getto Ernesto, un anno prima di morire, in clinica, uno scandaloso racconto, impubblicabile, che lascio incompiuto ma lo daranno in pasto ai lettori dopo la mia morte, ci faranno anche un film, e io che non volevo, che mi raccomandavo, che cosa triste. Restano poche poesie della vecchiaia, raccolgo le magre prose, scrivo Storia di un angelo, autobiografia in forma di racconto. Bruciate Ernesto, imploro. Mi affido a Linuccia. Ma lei non lo farà, maledizione. Vorrei essere ricordato per il mio Canzoniere, l’opera in versi d’una vita. Sto male, mia figlia insiste, ma io non scrivo. Vedo mia moglie sfiorire poco a poco, finché non mi abbandona in un cupo novembre del 1956, son così affranto che non vorrei alzare il velo, farei a meno di rivederla per un ultimo bacio. E poi lo so che non manca molto, pochi mesi e la morte mi cattura, siamo d’estate, un torrido agosto, son solo con mia figlia. Niente ha più senso. Tutto è ormai perduto. Trieste ti saluto sognando una maglia rosso alabardata che in qualche poesia spesso ho cantato. Mi restavi soltanto tu, mia vecchia amica di bora e salmastro. E io non son stato capace di decidere neppure il momento migliore per dirti addio.

Gordiano Lupi
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