AMEDEO MODIGLIANI SI RACCONTA di Gordiano Lupi

Amedeo Modigliani, pittore maledetto

Nasco a Livorno, il 12 luglio del 1884, quarto figlio di Flaminio, commerciante romano, e di Eugenia Garcin, marsigliese e tunisina, un po’ spagnola; porto segnato in petto un destino ramingo, cresco in una famiglia ebraica trapiantata sul Tirreno, protesa sulle isole dell’arcipelago. Sono il solo pazzo d’una famiglia normale, ché mio fratello Emanuele, più concreto di me, diventerà avvocato; Margherita non si sposerà, resterà in casa, sarà la madre adottiva di mia figlia; Umberto, il più  intelligente, farà l’ingegnere. Mia madre lo capisce subito che diventerò un artista, fin da piccolo incentiva le mie doti e cura le mie tante malattie, una debolezza congenita che non mi abbandona, la pleurite e il tifo, la maledetta tubercolosi che finirà per uccidermi. I miei studi irregolari sono esperienze d’artista: la tecnica del nudo a Firenze, la bottega del macchiaiolo Micheli, le Belle Arti, gli Uffizi e l’atelier di Fattori. Viaggio molto con mia madre, non solo Firenze, vedo Roma, Capri, Napoli, non mi fermo mai, leggo abbastanza, in modo confuso, irrazionale, senza metodo. Baudelaire e Lautréamont il primo amore letterario, ma i pittori sono la mia passione, da Tiziano a Botticelli, passando per Pisanello, Cossa, i Veneti e i Senesi. La tradizione italiana entra in me, non mi lascerà mai, anche se il luogo migliore per farla venir fuori sarà la Francia, dove giungo pieno d’amore per la terra abbandonata, ma perdo la testa per Parigi, rifugio accogliente per un’anima inquieta. Parigi è il perfetto asilo degli sradicati, la città dove approda la mia vocazione, prima a Montmartre, poi a Montparnasse, rive droit o rive gauche non cambia molto, quel che conta è l’amore, un sentimento indefinibile che chiede di liberarsi e fuggire per i vicoli d’una città antica fatta di luci e lampioni, carrozze eleganti e tabarin. Mi trovo a mio agio in questa città di pazzi, proprio come me, solo grazie a Parigi divento artista e lascio che scorra nelle mie vene il sangue di Cézanne, Matisse, Picasso, Soutine, Brancusi, il cubismo, la negritudine, il bizantino e il romanico. A Parigi disegno, schizzo ritratti e invento sculture, scolpisco pietre rubate nei cantieri della zona, non è facile trovare il materiale, intaglio persino il legno. La mia storia con la scultura non dura molto, un giorno, di ritorno a Livorno, in uno scatto di follia, butto tutto nei fossi, dando il via alla leggenda, fornendo spunti per burle surreali. Ragazzacci livornesi, persino più folli di me, si prenderanno gioco non solo di critici seriosi ma anche di un artista troppo imitabile, usando un trapano per scolpire teste di pietra. Dipingere è la mia strada, ormai l’ho capito, fare ritratti, moderni e folgoranti, essenziali e scarni, come le liriche d’un poeta contemporaneo, Clemente Rebora, immagini tese tra quattro mura, stupefatte di spazio. Poi ci sono i nudi, che ho imparato a dipingere a Firenze, non mancano i paesaggi dell’amata Costa Azzurra. Tutto tra grandi bevute di vino, di grappa - quante volte torno ubriaco e mi aiutano a trovare la strada di casa! -, eccessi di droga, di assenzio, proprio come Baudelaire, errando per le strade di Parigi, lungo la Senna, tra troppe donne, amate e perdute. A Parigi incontro il poeta polacco Lèopoldo Zborowski, un’amicizia importante, diventa il mio più grande ammiratore, mi sostiene, vende i miei lavori come un agente, mi protegge come un padre. Proprio nella sua casa faccio il suo ritratto e quello dei familiari, dipingo nudi con modelle occasionali, che pago per poche pose e dopo conosco meglio, le invito a uscire, a vivere notti parigine tra musica e vino. Tutti i miei ritratti sono figli di avventure femminili, nomi che cancellano altri nomi: Lunia, Simone, Beatrice, Maud, Anna, modelle per una notte, per un dipinto, pagate e amate, accarezzate e abbandonate, fino alla donna più importante, il solo amore della mia vita, la giovanissima Jeanne Hébuterne, che mi darà una figlia con il suo stesso nome. Ha diciannove anni, il mio povero amore, i genitori non vogliono che sprechi la vita con un pittore spiantato, un uomo più vecchio di lei, che ogni tanto qualcuno riporta a casa ubriaco, ma noi andiamo a vivere insieme, prima a casa sua, poi in Costa Azzurra, a Nizza, dove nasce mia figlia, che vedrò così poco. Sono un pittore unico di nudo, nella tela racchiudo la donna che amo e l’amore per la donna, il mio temperamento inquieto finisce nei dipinti, faccio pittura focosa, mi sfogo con il pennello tra le mani. La prima mostra personale è uno scandalo proprio per colpa dei nudi. Comprendo che la mia arte può svilupparsi soltanto a Parigi, mi sta stretta Livorno, non sopporto la provincia, l’Italia non fa per me, la vivo come un’immensa provincia periferica. A Parigi posso dipingere disperatamente almeno quanto riesco a bere senza misura, ma non è l’alcol la mia musa, realizzo opere d’arte anche senza ubriacarmi e drogarmi, senza fumare oppio e bere assenzio, forse sono le donne le mie muse, ché senza il loro amore non so stare. E poi c’è Parigi, rifugio ideale per vivere, capitale del male, dove tutto decanta, dove tutto è eccessivo. I miei volti allungati sono il mio stile, i colli cilindrici sostengono le teste come colonne, gli occhi neri, spenti, senza espressione, sono i volti delle donne della mia vita, ognuna un motivo per un’opera nuova, per rimettermi in gioco. Le mie donne sono state le mie modelle, i miei amori, il mio sostegno, mi aiutavano quando ero malato, se tornavo ubriaco, se restavo senza soldi. Ma non dite che mia madre mi aveva abbandonato, non date credito alla falsa voce che la famiglia non mi aiutava; ho vissuto gli ultimi dieci anni a Parigi ma sentivo mia madre accanto, pure nella distanza, lei sapeva tutto di me, della mia follia, d’una disperata vitalità, dei miei malanni. Ha speso tutto il suo denaro per me, mi ha sempre sostenuto, fino alla fine, insieme al mio amico Léopoldo, che ha ricoperto di fiori la tomba al Père Lachaise, piangendo la mia morte, maledicendo la meningite che mi ha ucciso. Jeanne non ce l’ha fatta, erano le quattro del mattino quando è volata come un angelo dal quinto piano della casa dei genitori, povero amore, così giovane, così disperata. È il 24 gennaio del 1920, ho soltanto 36 anni, ho vissuto gli ultimi sette mesi con un grande amore, mia figlia da mia sorella, finisco per arrendermi alla tubercolosi che da sempre mi tormenta. Cara, cara Italia, mormoro. Ma anche care le mie Jeanne, cara la mia mamma lontana. L’ospedale della carità è il mio ultimo asilo, devo tutto a Zborowski, alla colletta degli artisti, grazie a loro trovo una tomba e una lapide dove qualcuno viene a piangere sui miei eccessi alcolici, ricordando i dipinti e le donne, i sogni a occhi aperti, un amore perduto. Un pensiero mi tormenta: non essere stato capace di fermarla. Avrei voluto vederla piangere su questa tomba, portare fiori insieme a Léopoldo, ma continuare a vivere, farsi una ragione del passato, guardare avanti, per nostra figlia, per se stessa. Ho dipinto tante volte il suo lungo collo slanciato che sostiene un volto ovale, le labbra rosse e sottili, gli occhi a volte scuri, più spesso azzurri, quei capelli castani raccolti in un ciuffo oppure sciolti, lungo le giovani spalle. Il solo quadro che non avrei mai voluto dipingere, accanto alla sua immagine seduta, di profilo o di fronte, è la figura di lei che precipita dal balcone d’una casa di Parigi, che si lascia morire per un amore che non dovrà finire. Io e Jeanne, per sempre insieme, come Paolo e Francesca, condannati ad amarci fino alla fine dei tempi, persino oltre la vita.

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